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Non vengono da noi cercando libertà e democrazia, ma semplicemente frigoriferi pieni

di Francesco Lamendola - 16/08/2011



Benché sia profondamente decaduta, l’Europa non perde mai il suo antico vizio: quello del narcisismo.
Un narcisismo quasi patetico, che la porta a illudersi di esercitare ancora un potere di attrazione basato sui suoi valori, sulla sua moderna cultura politica, sulla sua “civiltà”; e sarebbe per inseguire tali beni immateriali, secondo molti nostri ineffabili intellettuali, che milioni e milioni di diseredati verrebbero da noi, provenienti da ogni parte della Terra.
La realtà è, invece, molto più prosaica.
C’è stato un tempo in cui l’Europa fungeva da calamita mondiale a motivo della sua cultura, della sua arte, della sua filosofia e a motivo del clima di libertà che in essa si respirava, a paragone dei numerosi potentati orientali, a cominciare dall’Impero ottomano, dove lo sport nazionale era la caccia all’Armeno, per finire con il Celeste impero, dove il trattamento abituale del dissenso era la decapitazione mediante lo spadone.
Ma quel tempo è passato, irrimediabilmente.
Da quando l’Europa ha rinunciato ad essere se stessa e si è fatta, volontariamente, una semplice provincia dell’Impero americano, essa non esercita alcun potere di attrazione sul piano culturale, morale, spirituale.
Tutto quello che essa può offrire, non è che una copia sbiadita dell’originale, cioè di quanto un Africano, un Asiatico, un Latino-Americano, per non parlare degli stessi Europei, possono trovare in una università statunitense, in un centro di ricerche statunitense, in un laboratorio scientifico statunitense, in una produzione cinematografica statunitense. E allora, perché accontentarsi della copia e non risalire direttamente all’originale?
Una sola cosa è rimasta all’Europa, che possa fungere da elemento di attrazione nei confronti del Sud della Terra: i suoi negozi ben forniti, le sue strade intasate di belle automobili, i suoi frigoriferi pieni di cibi e di bevande.
Perché, nel Sud della Terra, queste cose non esistono, o meglio, esistono solo oltre la barriera dei sogni: ed è per cercarle, e non per un senso di ammirazione verso la nostra libertà e la nostra democrazia, che milioni di straneri si riversano, ogni anno, legalmente e illegalmente, per mare e per terra, con biglietto aereo regolare oppure a bordo di barche e zattere stracariche di disperati, al di qua delle nostre frontiere.
Per i nostri frigoriferi pieni e non per altro: questa è la verità, la semplice e cruda verità, che non piace al nostro orgoglio, ma di ciò non si preoccupa affatto.
È inutile che continuiamo a darci arie da gran signori, i quali, dall’alto della loro saggezza e benevolenza, accolgono generosamente tutte le anime assetate di libertà e di giustizia, immaginando se stessi ancora al centro del mondo, motore immobile della storia; non è così.
L’unica cosa che di noi appare ancora appetibile per queste enormi masse in movimento dal Sud della Terra, per questa moderna Völkerwanderung o Migrazione dei popoli, è il nostro tenore di vita: di noi che, intanto, facciamo a stento ancora un figlio alla volta, mentre loro ne fanno tre, cinque, sette.
Se la matematica non è un’opinione, allora nel giro di poche alte generazioni noi saremo sommersi, l’Europa sarà sommersa e sparirà del tutto: voce del verbo “sparire”.
Non è detto che sia una tragedia; forse aveva ragione Spengler a pensare che la scena della storia appartiene ai popoli giovani, alle civiltà in ascesa; per quelli che hanno imboccato il viale del tramonto, è questione di togliere il disturbo senza fare tanti drammi.
Ad ogni modo, è un processo che si sta svolgendo sotto i nostri occhi e con il nostro assenso, se non addirittura con la nostra fattiva collaborazione.
Tutti i nostri economisti, uomini politici e giornalisti ci dicono e ci ripetono che noi abbiamo bisogno di manodopera straniera e che, in cambio, abbiamo da offrire le meraviglie della nostra libertà e della nostra democrazia: discorsi che non sono soltanto assurdi e fuori della realtà, ma anche fatti in malafede, perché loro sanno bene che le cose stanno altrimenti.
D’altra parte, una volta che la valanga si è messa in movimento e che le sue vittime si sono mostrare entusiaste di essa, chi potrebbe pensare di fermarla?
E poco importa che la valanga si sia messa in moto sulla base di un grosso equivoco: perché quel benessere materiale che gli immigrati inseguono, esiste quasi solo nella celluloide dei film e soprattutto delle pubblicità televisive che li hanno attirati come orsi sul miele.
La crisi sta erodendo quel poco di benessere che ancora rimaneva all’Europa - crisi speculativa, non dimentichiamolo mai: crisi pilotata dai pescecani che già hanno molto e che vogliono ancora di più, sempre di più, a spese della collettività - e i nostri frigoriferi sono ormai colmi più di debiti che di buone cose da mangiare.
Gli immigrati, queste cose non le sanno: non sanno che tante belle automobili sono ormai acquistate, sempre più spesso, per mezzo di lunghissimi pagamenti rateali; che molte persone, per farsi una settimana o due di ferie, vendono a prezzi da usuraio gli ori di famiglia; che molti altri, pur avendo un mestiere regolare o una pensione, arrivano alla fine del mese con il portafogli e il frigorifero vuoti entrambi, e che si recano ai mercati generali, nelle ore di chiusura, per portar via la frutta e la verdura semiguaste, rimaste invendute.
Però, bisogna ammetterlo: la nostra povertà è pur sempre una povertà da ricchi, in confronto a quella dei disperati del Sud della Terra; le nostre stesse discariche, i nostri bidoni della spazzatura, sono stracolmi di ogni ben di Dio, a confronto di ciò che costituisce la razione quotidiana di calorie per un abitante povero di Calcutta, di Rabat, di Rio de Janeiro.
Una cosa va osservata, però, a questo punto: non tutto l’Occidente applica la politica suicida dell’accoglienza indiscriminata.
Gli Stati Uniti d’America pongono pesantissime limitazione all’ulteriore afflusso di immigrati ispanici e hanno perfino costruito una rete ininterrotta al confine con il Messico, sorvegliata da torrette, poliziotti e cani da guardia: una specie di versione moderna del Vallo di Adriano o del Vallo di Antonino.
L’Australia, poi, è ancora più rigida: immigrati asiatici non ne vuole, assolutamente, per nessun motivo al mondo; se, per caso e avventura, una modesta zattera con qualche indonesiano a bordo giunge fin presso le sue coste, la sua guardia costiera la respinge in alto mare, proteste o non proteste umanitarie; e se qualche disgraziato, nonostante tutto, ce la fa a toccare terra, lo spediscono nei campi dell’interno, nel deserto, e nessuno ne sente più parlare.
Stessa politica da parte della Gran Bretagna, nei numerosi territori che ancora essa controlla, direttamente o indirettamente, tra quanti facevano parte del suo immenso impero: tolleranza zero, nessuno può entrare per nessuna ragione, buona o cattiva che sia.
Solo l’Europa ha deciso di spalancare le sue frontiere indiscriminatamente, a chiunque, accordando lo status giuridico di profugo a chiunque ne faccia richiesta.
Prendiamo il caso dei recenti arrivi dal Nordafrica a Lampedusa: tutti profughi dalla guerra, si dice; dunque, tutti con diritto di accoglienza (diritto che poi ripagano ribellandosi, devastando le proprietà dello Stato che li ha accolti e sfamati, perfino prendendo in ostaggio delle persone e interrompendo le linee stradali e ferroviarie).
Eppure, se la parola “profugo” ha un senso, bisognerebbe distinguere i profughi DELLA Libia dai profughi DALLA Libia. I primi sono cittadini libici che fuggono dalla guerra; gli altri, sono stranieri residenti in Libia, che dovrebbero essere rimpatriati nei rispettivi Paesi di provenienza: perché una Patria ce l’hanno, e non è in guerra.
Pensiamo a come l’Italia trattò, al termine della seconda guerra mondiale, i suoi stessi profughi dalle regioni orientali: quei 350.000 suoi fratelli che dovettero fuggire dalle meraviglie del socialismo di Tito, dopo aver lasciato molti loro parenti e amici nelle foibe, senza una lapide né un nome; e dopo aver dovuto abbandonare le loro case, le loro proprietà, tutto quello che avevano costruito con il duro lavoro di innumerevoli generazioni (perché loro non erano stranieri: e quella era la loro terra, da sempre).
Chi appartiene a quella gente sfortunata lo sa, come vennero trattati: peggio delle bestie; e, per soprammercato, insultati dai ferrovieri comunisti, che giunsero a fermare i treni che li rimpatriavano, al coro di «Fascisti, banditi»; né hanno mai visto una lira o un euro di risarcimento per quanto venne loro confiscato.
E lo stesso discorso si potrebbe fare, già che ci siamo, a proposito dei nostri connazionali che Gheddafi (ancora lui!) cacciò dalla Libia nel 1969, non senza averli prima ripuliti di ogni avere e certo senza sognarsi di ringraziare per le ottime strade, le scuole, gli ospedali, i campi dissodati nel deserto: quello stesso Gheddafi che il buon Berlusconi ha recentemente imbottito di milioni di euro a titolo di “risarcimento” per i danni inflitti al popolo libico dal colonialismo italiano brutto e cattivo.
L’Europa, giunta al suo crepuscolo, ha imboccato la strada dell’autodistruzione; ma lo fa con il riso sulle labbra, stordendosi con gli ultimi riflessi e con gli ultimi bagliori di quello che fu il suo invidiatissimo benessere materiale.
Forse è già nato, in qualche suburbio londinese o parigino, lo Spartaco che impugnerà il vessillo della rivolta dei moderni schiavi; forse è già nato anche l’Odoacre che scaccerà l’ultima ombra di potere sovrano europeo e che imporrà il suo dominio sul vecchio, stanco continente che non ama più la vita e non ama più se stesso, come testimoniano milioni di culle vuote e innumerevoli aborti quotidiani.
Certo, anche noi stiamo assaporando le meraviglie della crisi mondiale: ma non abbiamo la forza coriacea degli immigrati stranieri; certo, anche i nostri figli sono in balia della disoccupazione: ma non hanno mai dovuto fare i conti con la fame, la fame quella vera, quella che ti urla dal profondo dei visceri e che non vuol sentir ragioni, vuol solo essere tacitata, imperiosamente, a qualsiasi costo e con qualunque mezzo.
Noi, e i nostri figli meno ancora di noi, non siamo capaci di sopportare gli stessi sacrifici che sopportano gli stranieri i quali, in massa, si stanno riversando sull’Europa: siamo vissuti troppo ben pasciuti, abbiamo perso le unghie e i denti, necessari per lottare; ci siamo infrolliti correndo dietro a mille futili capricci: siamo pronti per cadere in servitù del primo venuto.
Difficile pensare che non vi sia un disegno, dietro a tutto questo.
Il colpo di grazia verrà quando l’Unione europea accoglierà nel proprio seno la Turchia ed Israele, come tanto desidera l’amministrazione statunitense, al punto di premere senza posa perché ciò avvenga nel più breve tempo possibile.
Quando ottanta milioni di Turchi saranno liberi di spostarsi da un paese all’altro dell’Europa, senza dover chiedere alcun permesso, come già lo sono Romeni e Polacchi; e quando il governo d’Israele potrà insediarsi ai vertici del potere politico, economico e finanziario dell’Unione, allora sarà veramente la fine: la fine della identità europea da un verso, e la fine dell’indipendenza europea dall’altro.
Diventeremo una colonia altrui, esposti al volere del più forte, come lo fu l’Italia del Rinascimento, dopo la discesa di Carlo VIII, che svelò al mondo il grande segreto della nostra immensa ricchezza e della nostra immensa debolezza.
Peccato che il posto della nostra civiltà non verrà preso da forze giovani e fresche, come accadde al tempo delle migrazioni germaniche entro l’Impero romano d’Occidente; ma da una moltitudine frammentata, senza radici, senza coesione, senza obiettivi comuni.
Chissà se da tanta rovina e da tanta confusione potrà sorgere ancora l’alba di un mondo nuovo…