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Home / Articoli / L’elemento divino presente nell’attimo è pungolo e caparra dell’Eterno

L’elemento divino presente nell’attimo è pungolo e caparra dell’Eterno

di Francesco Lamendola - 22/08/2011





Un cielo chiaro, luminosissimo, immenso, sopra di noi.
La brezza marina che accarezza la pelle con impalpabili dita sensuali.
Gli schizzi della spuma che si frangono sugli scogli ed esplodono nell’aria come lampi salmastri e festosi.
E lei, lei, con il suo sorriso incantevole, con la sua aria maliziosa e divertita.
Gli sguardi complici, le fossette sotto gli occhi, la risata argentina.
Attimi di eternità, attimi che sembrano rubati agli dei.
Come sarebbe bello se si fermassero per sempre; se quest’ora impareggiabile, che ti fa groppo in gola come un frutto succoso e proibito, rimanesse qui e non se ne andasse mai.
Se questa estate grande, possente, libera, si innalzasse fino all’estremo orizzonte e inglobasse passato e futuro, qui e altrove, dentro e fuori, luce e ombra.
Se la sua risata argentina, se i suoi occhioni vivaci potessero brillare per sempre e rischiarare senza fine ogni passo della vita che verrà.
Anzi, se non ci fosse più una vita che verrà, ma solo questa vita che è qui e adesso, in questo riflesso del mare, in questi spruzzi della schiuma, in queste strida dei gabbiani.
Oh sì, sarebbe stupendo; sarebbe abbastanza per placare la fame e la sete di qualunque Faust, di qualunque viandante dai piedi feriti, che vaga sulle strade polverose del mondo…
Oppure no?
Oppure, se un tale prodigio divino potesse mai realizzarsi, subentrerebbero lentamente, impercettibilmente, inesorabilmente, il senso della ripetizione, della stanchezza, perfino della noia, se non addirittura della sazietà?
Chi siamo noi uomini: esseri eternamente desideranti, sempre protesi un passo o un oceano oltre di noi; o bruti grufolanti nella melma, pasciuti e soddisfatti del piacere momentaneo?
Che cosa è giusto che ci incanti, che ci attragga, che ci risucchi: la gratitudine verso il qui ed ora o la tensione verso l’altrove e il domani?
Questi pensieri mi si rivolgono nella mente, nitidi, chiari, mentre mi siedo in riva al mare immenso, dopo aver giocato e scherzato con Sabina che, lanciando i suoi gridolini, fingeva di resistere a un assalto in piena regola, e ad entrambi doleva lo stomaco dal gran ridere.
Tiro il fiato mediante una serie di profondi respiri e mi lascio abbacinare dalla luce che scende dall’alto ed esplode nelle iridi come un ineguagliabile fuoco d’artificio.
Il mio respiro si è messo in sintonia con il respiro del mare; la mia vista, con il tremolare dell’aura che, all’orizzonte, avvolge le montagne lontane della sponda opposta.
Tutto è pace, quiete, silenzio.
Un gabbiano si libra solitario, ad ali spiegate, sfruttando con suprema eleganza una possente, interminabile corrente ascensionale.
E tutto è come nuovo, bagnato in questa luce di mezza estate che dissolve in un liquido scintillio le forme e i colori delle cose.
Tutto è bello, leggero, commovente, come in una perfetta sequenza di danza classica; come nel volteggiare impareggiabile di una pattinatrice sul ghiaccio.
La natura è in pace e anche noi siamo in pace, abbandonandoci dolcemente nel suo seno, uniformandoci al suo respiro profondo e regolare.
Tutto è come deve essere; come è sempre stato e come sempre sarà.
Il mare respira come respirava milioni di anni fa; il sole spende in cielo come splendeva prima della creazione del mondo.
Sabina scherza e mi sorride come hanno scherzato e sorriso ai loro uomini milioni di donne prima di lei e come scherzeranno e sorrideranno milioni di donne dopo di lei.
Anche i miei pensieri, le mie emozioni, il mio interrogarmi, sono già stati esperiti infinite volte, sotto innumerevoli cieli e continueranno ad esserlo in futuro.
Tutto è già stato, eppure tutto è sempre nuovo.
Tutto è uguale a se stesso, eppure tutto è unico, prodigioso, irripetibile.
Forse siamo già stati qui anche noi e forse ci ritorneremo, sotto altre vesti corporee, in altre circostanze e situazioni.
Forse questi stessi spruzzi di schiuma, che ora si stanno rompendo ed esplodono gioiosamente sopra gli scogli, hanno già sferzato un’altra Sabina e un altro me stesso; forse questa nostalgia che ci afferra alla gola non è che il ricordo confuso di un altro mattino di mezza estate, simile a questo, che però abbiamo vissuto cento, mille o diecimila anni or sono.
Forse siamo già stati qui, abbiamo già respirato quest’aria carica di salsedine, ci siamo già abbronzato sotto i raggi di questo sole, quando abitavamo un altro involucro fisico, chissà quando, chissà quando…
Forse…
Eppure ci sono dei momenti, come questo, in cui si vorrebbe stringere il pugno e dire loro: «Vi prego, rimanete! Non andate via…».
Ci sono dei momenti in cui la gioia perfetta dell’attimo è quasi dolorosa e già porta in sé, impercettibile, come un rovello sottile ma implacabile, la consapevolezza che il tempo si porterà via tutto; che stasera scenderà la notte e che domani sarà tutto diverso e noi non saremo più noi, saremo irrimediabilmente altri.
Perché è nell’attimo fuggente che si disvela, talvolta, così, senza preavviso, la nostra parte più vera e profonda: quella che non mostriamo mai agli altri, quella che, forse, non conosciamo realmente neppure noi stessi.
Sono momenti impalpabili, quasi evanescenti, di una bellezza da mozzare il fiato: quando, per esempio, un uomo e una donna si avvicinano l’uno all’altra più di quanto sembra che potrebbero mai fare due esseri umani, non solo fisicamente, ma con la più riposte profondità dell’anima; in cui essi lasciano cadere maschere e veli, calcoli e prudenze, pudori e convenienze, per lasciarsi vedere così come sono realmente, sino in fondo, nella loro più intima essenza…
Sono momenti in cui non sembra più di essere ancora in due, ma di essere diventati uno: una sola anima e, quasi, un corpo solo, che respira, sente e ama all’unisono…
Momenti, certo: momenti che valgono un’eternità; e, nondimeno, momenti che devono essere oltrepassati.
Non ci si può fermare, nemmeno quando si ha la ventura di entrare in un giardino di delizie; non siamo qui per questo, non siamo dei turisti sfaccendati e voluttuosi.
Siamo viandanti con una meta, con una chiamata cui rispondere, con un lavoro da compiere: il lavoro della nostra stessa evoluzione, della nostra chiarificazione interiore.
Siamo qui per rendere sempre più terso e trasparente il nostro sguardo; per affinare sempre di più la nostra seconda vista.
La nostra pace, il nostro significato, il senso del nostro esserci, sono la posta in gioco di questo pellegrinaggio, di questa ricerca inesausta, che sempre rinasce e sempre si rinnova; che mai potrebbe sedere sugli allori di una verità parziale.
Abbiamo un compito da svolgere, siamo stati chiamati per questo; e tale compito consiste nella nostra suprema fedeltà a noi stessi, non in qualcosa che sia fuori di noi e altro da noi.
Non dobbiamo alienarci e tanto meno annullarci in qualcos’altro; dobbiamo realizzare la nostra parte più vera e profonda, dare una forma definita alla nostra anima.
Non vogliamo negare la vita, ma portarla a compimento nelle sue più alte potenzialità.
Ed esserle intimamente grati.
La gratitudine verso la vita è la cifra, la misura della nostra comprensione del reale; se non abbiamo gratitudine verso di essa, allora siamo ancora al principio del cammino.
Lo sviluppo della consapevolezza è la graduale presa di coscienza che tutto è grazia, che tutto è per il bene, che tutto merita la nostra riconoscenza infinita.
Dunque, anche l’attimo.
L’attimo va superato, ma con il cuore colmo di gratitudine verso di esso: la dolcezza che talvolta  ci regala ha veramente in sé qualche cosa di sublime, quasi di divino.
Esso non ci viene dato per una sorta di ironia del destino, per una specie di beffa nei confronti del nostro radicale bisogno di stabilità e permanenza; al contrario.
L’attimo è il pungolo che ci sprona a rivolgere lo sguardo verso l’Eterno e, al tempo stesso, è la caparra che l’Eterno ci consegna, in attesa di completare interamente la promessa.
Noi non saremmo qui, non saremmo stati chiamati dal non essere all’essere, se non ci fosse stata fatta, nel medesimo tempo, una tacita, sacra promessa: che non scompariremo nel fluire degli attimi, che nulla si perderà nel flusso degli istanti; ma che ogni cosa, e noi con essa, è destinata a rientrare nel grandioso fluire dell’Essere, da cui tutto ha preso inizio.
Ecco, allora, che l’attimo è per noi una realtà immanente di pura gioia, di pienezza luminosa ma fugace; e, contemporaneamente, una finestra spalancata sul mistero dell’Essere, che rimanda ad altro da sé, verso gli orizzonti sconfinati dell’Assoluto.
Bisogna imparare, per così dire, a leggere l’attimo secondo lo schema di una doppia partitura: chi vi legge solo quella del presente, rimane schiavo dell’impermanenza e si attacca a ciò che è destinato a passare; chi vi legge solo quella dell’Eterno, saltando la prima a pie’ pari, si comporta come colui che, ignorando l’alfabeto, vorrebbe mettersi a parlare con il linguaggio impareggiabile di un Demostene o di un Cicerone.
Non così, ma insieme; e, però, nel giusto ordine di priorità: la partitura inferiore deve costituire il preludio e, per così dire, il trampolino per quella superiore e giammai viceversa; solo così potremo cogliere la superba armonia dell’insieme.
L’apertura dell’attimo verso la dimensione dell’Eterno è ciò che lo redime dalla chiusura in se stesso, dalla malinconia e dalla disperazione del divenire; è l’elemento che gli conferisce un profumo più intenso, una luminosità più trasparente, una tonalità più calda, cose tutte che sfuggono allo sguardo del materialista e del voluttuoso, che rimangono ostinatamente incatenati alla sua fugacità.

*   *   *
Ora Sabina ed io ci sediamo sulla sabbia, contemplando silenziosi e commossi lo spettacolo di un grandioso castello di nubi che il sole, salendo nel cielo, illumina dal basso di una luce porporina e dorata, dallo splendore indescrivibile a parole.
È bello essere qui, ora, con il corpo ancora ruscellante d’acqua salmastra, ad asciugarsi sotto i caldi raggi del sole.
È bello godere pienamente di questo mattino chiaro, luminoso, che somiglia al primo giorno della creazione del mondo.
E ancora più bello è riuscire a goderne senza attaccamento, senza egoismo, senza l’assurda pretesa che esso si fermi per sempre.
È bello goderne e lasciarlo andare, come un uccellino cui sia stata aperta la porticina della gabbia e che voli felice nell’aria, riconquistando la sua libertà.
Noi non dobbiamo aggrapparci al possesso dell’uccellino in gabbia, ma dobbiamo imparare a vivere con saggezza, ammirando il libero volo degli uccelli nel cielo sconfinato.
Solo così possiamo predisporre la nostra anima al grande salto che essa dovrà compiere, quando verrà il momento di oltrepassare la porticina della nostra gabbia per affrontare il volo nella vastità sconvolgente dell’Assoluto.