Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il vero Marshall McLuhan: aveva previsto (e odiato) tutto il nostro presente esente

Il vero Marshall McLuhan: aveva previsto (e odiato) tutto il nostro presente esente

di Massimiliano Parente - 22/08/2011

http://media.thestar.topscms.com/images/81/7f/cadce7da42fdbfffb4476bfd0225.jpeg

In genere, quando lo si sente nominare, ci si ricorda della celebre interpretazione di se stesso in Annie Hall di Woody Allen. Oppure pensiamo che il medium è il messaggio. Oppure, sbagliando, lo ricordiamo come maître à penser dei mass media, un entusiasta guru della tecnologia. In realtà Marshall McLuhan odiava la modernità, era un passatista al cui confronto Massimo Fini è un seguace di Steve Jobs, e rimpiangeva il mondo contadino, quando non c’era la tv e i libri si leggevano in chiesa. Tuttavia, come spesso succede, fece del suo odio un’ossessione, lo racconta bene Douglas Coupland in un libro appena uscito e intitolato Marshall McLuhan: una biografia pop dell’uomo che aveva previsto il futuro (Isbn, pagg. 198, euro 19).

È vero, Marshall aveva previsto molto, ma non perché le sparasse come Nostradamus. Neppure perché era quel genio assoluto che crede Coupland, esagerando la portata delle due arterie, anziché una, che Marshall aveva alla base del cranio. Ciò nonostante molte intuizioni sono impressionanti, per esempio immaginò qualcosa di molto simile a internet, una specie di mostro virtuale che avrebbe riportato l’uomo allo stato tribale. Nel 1962, quando non c’erano il world wide web né cellulari né computer portatili né smartphone né iPad, e facevano la loro comparsa le prime calcolatrici elettroniche, Marshall scrisse: «Invece che tendere a diventare una gigantesca biblioteca di Alessandria, il mondo è diventato un computer, un cervello elettronico molto simile a quello di un racconto di fantascienza per bambini. E mentre i sensi vanno fuori di noi, il Grande Fratello entra in noi. Così, se non riusciremo a renderci conto di questa dinamica, ci ritroveremo improvvisamente in una fase di terrori panici, assolutamente appropriata ad un piccolo mondo di tamburi tribali, di totale interdipendenza e di coesistenza imposta dall’alto». Mentre in Italia si dibatteva tra apocalittici e integrati, Marshall aspettava una vera e propria apocalisse biblica che sarebbe stata portata dall’avvento della tecnologia e dell’«uomo disincarnato». Un uomo virtuale, che preferisce vivere tra fantasia e sogno, che è contemporaneamente in ogni luogo e nessuno, senza più barriere tra conscio e inconscio e senza più neanche una vera identità. Sarebbe inorridito nel vederci dipendenti da Facebook, App Store e iTunes, ma forse sarebbe rimasto anche sorpreso di come questo sistema terribile «imposto dall’alto» viene invece visto, perfino politicamente, come una risorsa «dal basso». O forse, a maggior ragione, ne avrebbe tratto un’ulteriore prova di tribalizzazione collettiva. Cattolico fervente, attaccava le società senza Dio, e quindi coerentemente il marxismo e il capitalismo, e non come i religiosi di oggi, che coniugano felici il cristianesimo con il libero mercato. Ce l’aveva anche con l’omosessualità, «ormai fuori controllo».

Intanto, mentre attendeva l’apocalisse del villaggio globale, gli fu trovato un grosso tumore al cervello. Ne sopravvisse, pur con l’handicap di fermarsi nel mezzo delle frasi per diversi secondi, a volte minuti di silenzio, anche durante le lezioni, per poi, a differenza di Celentano, riprendere il concetto esattamente dove lo aveva lasciato. Comunque sia Marshall fu, in definitiva, il primo critico moderno a studiare i massmedia e il primo a passare di moda, superato da Lacan, Foucault, Baudrillard, Derrida e compagnia bella, i quali dicevano le stesse cose ma in maniera più francese.

Una delle sue barzellette preferite era questa: «Due indiani Navajo si stanno facendo una chiacchierata da un capo all’altro dell’Arizona usando i segnali di fumo. A metà della conversazione la Commissione per l’energia atomica fa detonare una bomba e quando il nuvolone a fungo si disperde il primo indiano manda all’altro un segnale di fumo che dice: «Accipicchia, magari l’avessi detto io!».

Se fosse nato artista e più cinico sarebbe stato Andy Warhol, e probabilmente parte del suo successo è dovuto allo stesso equivoco che determinò il successo iniziale della Pop Art. «I mass media adoravano Marshall» scrive Coupland, «perché le sue intricate posizioni teoriche riuscivano al tempo stesso a confonderli e a lusingarli. All’inizio degli anni Sessanta non esistevano corsi di studio sui media, li inventò letteralmente Marshall». Alla fine, nell’arco di un ventennio, fondò il Centro per la cultura e la tecnologia, divenne una star mondiale, e qualsiasi stronzata passasse il palinsesto televisivo avrebbe avuto un’importanza relativa perché si poteva sempre rispondere che il medium è il messaggio. Ma già sul finire dei Settanta non se lo filava più nessuno, e nel 1979 solo sei studenti seguivano il suo corso. Morì l’anno dopo, in conseguenza di un ictus che gli tolse la possibilità di leggere, scrivere e parlare, lasciandolo in grado di pronunciare solo tre parole: «Yes», «No», e soprattutto «Oh boy, oh boy, oh boy».