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La presentatrice con la pistola, ovvero quando il medium è il messaggio

di Francesco Lamendola - 23/08/2011




La caduta di Tripoli nelle mani dei ribelli è avvenuta a sorpresa, quando ormai l’opinione pubblica occidentale s’era quasi dimenticata di questo pur vicinissimo focolaio di guerra; anche se non se n’erano affatto dimenticati i governi e soprattutto le multinazionali interessati alla spartizione del petrolio libico.
La città è stata presa, nel volgere di poche ore, dalle tribù berbere scese dalle montagne dell’immediato entroterra e non dallo scalcagnato esercito ribelle di Bengasi, buono più a sparare in aria raffiche di mitra che a vincere una guerra, nonostante le dispendiose forniture militari che l’Occidente gli ha somministrato, in dosi massicce, negli ultimi sei mesi.
Che ci fossero delle montagne nell’hinterland di Tripoli; che queste montagne fossero abitate dai Berberi; che i Berberi fossero in rivolta contro il regime di Mu’ammar Gheddafi: tutte queste cose pare proprio che nessuno le sapesse, qui da noi e, forse, nemmeno nei sapienti gabinetti degli affari esteri dei Paesi N.A.T.O. e presso gli stati maggiori militari.
Le poderose portaerei americane, francesi, britanniche e italiane incrociano da mezzo anno davanti alle coste libiche e i nostri comandi, in particolare, per non parlare dei nostri servizi segreti, avrebbero dovuto essere informatissimi di tutto quel che accadeva nella nostra ex colonia, conquistata dai bersaglieri del generale Caneva giusto un secolo fa, al canto di «Tripoli, bel suol d’amore»; invece non sapevano praticamente nulla.
Una sola cosa è più che evidente, ormai da un pezzo: libertà e democrazia non c’entrano un bel niente con la rivolta contro Gheddafi; qui si tratta del solito ginepraio tribale africano, Cirenaica contro Tripolitania, territori dell’interno contro territorio costiero, quelli che hanno il petrolio e quelli che non ce l’hanno, quelli che hanno l’acqua - bene, da quelle parti, più prezioso del petrolio stesso - e chi non c’è l’ha (e Gheddafi, questo va detto per onestà storica, aveva nazionalizzato l’acqua, sottraendola al controllo esclusivo degli abitanti delle oasi).
L’intervento militare occidentale è stato lanciato il 19 marzo del 2011, appena in tempo per salvare i ribelli di Bengasi dalla disfatta totale, dopo che l’esercito regolare libico era passato di vittoria in vittoria nel corso di un mese di operazioni; ed è stato lanciato in ordine sparso, dalla Francia per prima, poi, a rimorchio, da Gran Bretagna e Stati Uniti; infine vi si è aggiunta anche l’Italia, non senza avere fatto la solita figuraccia internazionale, perché solo pochi mesi prima il capo del governo, Berlusconi, aveva ossequiato Gheddafi, trattandolo da amico fraterno e assicurandogli tutta la simpatia e tutto l’appoggio del nostro Paese, appoggio concretizzato in un generosissimo esborso di moneta sonante.
Sull’onda delle cosiddette rivoluzioni di Tunisia ed Egitto, che molti politologi nostrani si erano affrettati a definire niente meno che «la primavera araba», si era voluto vedere anche nel caso libico un tipico esempio di rivoluzione democratico-borghese contro l’ancien régime delle dittature africane e mediorientali; salvo rendersi poi conto che di tutt’altro si trattava, il che spiega la lentezza esasperante con cui le operazioni militari N.A.T.O. sono state condotte.
Se, infatti, la Libia del dopo Gheddafi è destinata a disgregarsi in due o magari più staterelli petroliferi, stile Golfo Persico, su quale cavallo puntare per assicurarsi le concessioni petrolifere e il lauto banchetto delle commesse per la ricostruzione delle infrastrutture? Dopotutto, e questo lo sappiamo benissimo, l’intervento militare della N.A.T.O. è scaturito da tali motivazioni e non certo da un subitaneo attacco di amore disinteressato per l’esportazione della democrazia, come sembra pensare anche il nostro Presidente della Repubblica.
Meglio prendere tempo, dunque, e studiare un po’ meglio la situazione, hanno pensato i soliti cervelli fini di Washington, Londra, Parigi e Roma.
Salvo, poi, rimanere totalmente spiazzati dalla rapida, inattesa risoluzione militare operata dalle tribù berbere calate dalle montagne tripoline, come falchi nella notte, quando nessuno mai se lo aspettava.

*  *  *
Ma c’è un fatto mediatico che resterà impresso a lungo nella nostra memoria e che ha caratterizzato quest’ultimo scampolo di demenzialità televisiva dell’estate in corso: la presentatrice libica che parla dallo studio di Tripoli brandendo la pistola e annunciando che, in quello stesso giorno, ucciderà o morirà, ma che i ribelli non riusciranno mai ad espugnare la tv di stato della Jamahiyrya, perché i suoi impiegati sono tutti pronti al “martirio”.
Ecco: come sosteneva il vecchio buon Marshall McLuhan, è proprio il caso di dire che il medium è il messaggio: cioè la televisione stessa, in quanto mezzo di comunicazione di massa, non solo «fa» notizia, ma «è» notizia; che essa medesima è «la» notizia; mentre le notizie che ci dovrebbe fornire non sono che lo sfondo, opaco e indistinto, del suo messaggio dominante.
C’è qui una giovane donna, avrà al massimo trent’anni, nessuno sa come si chiami, tranne che nel suo Paese (si verrà poi a sapere che il suo nome è Hala Mistrati), professione speaker televisiva; è seduta al suo tavolo, davanti alle telecamere, ma fa una cosa che non si era mai vista prima in alcuna televisione al mondo: esibisce una grossa pistola automatica e la brandisce con la mano sinistra, dicendo testualmente, con accento alterato, mentre già fuori premono i ribelli scesi dalle montagne e quarantadue anni di dittatura stanno crollando nel sangue e nella polvere dei combattimenti strada per strada, casa per casa, coi cecchini che sparano dalle finestre e dalle terrazze e colpiscono chiunque capiti loro a tiro: «Con quest’arma oggi ucciderò o verrò uccisa; nessuno riuscirà a mettere le mani su questa rete televisiva, sulla capitale della Jamahyirya e sulla Libia; qui siamo tutti armati e preparati al martirio, e chi di noi non possiede armi, è pronto a fare scudo con il suo stesso corpo».
Ce la immaginiamo una scena simile dagli schermi di uno dei nostri telegiornali?
Ce la immaginiamo una annunciatrice di Rete 4, un Emilio Fede che pronunciano parole del genere, minacciando i nemici con le armi e dicendosi pronti al martirio, se qualcuno oserà levare la mano sacrilega contro il Cavaliere di Arcore?
Dov’è il fatto e dov’è la notizia; qual è il fatto e qual è la notizia?
E se i ribelli facessero irruzione negli studi televisivi di Al-Libiya, che cosa succederebbe: dovremmo forse assistere ad una sparatoria in diretta?
Il cameraman continuerebbe a riprendere la scena e ci toccherebbe vedere la giovane Hala Mistrati mantenere la sua promessa, facendosi ammazzare in studio con la pistola in pugno e schizzando il muro con il suo indomito sangue?
Che cosa sarebbe allora: un telefilm poliziesco a tinte horror, oppure la realtà ordinaria di una delle tante guerre civili africane, catapultata chissà come sui nostri teleschermi?
Quale sarebbe il confine tra la realtà “vera” e la realtà mediatica; come riconoscerlo, come trarne le debite conclusioni?
E chi ci commenterebbe il fatto in diretta?
Se lo facessero i ribelli vincitori, direbbero che una spregevole seguace della morente dittatura è stata giustiziata, dopo aver fatto resistenza armata: giustizia del popolo (ma quale popolo?, casomai giustizia tribale).
Se, viceversa, per un rivolgimento imprevedibile della situazione - ma tutto può essere, siamo in Africa, dove, come diceva un grande poeta, Léopold Sédar-Senghor, non esistono confini, nemmeno tra la vita e la morte -, i fedeli del Rais riprendessero in pugno la capitale, ecco che un annunciatore del regime ci chiederebbe un minuto di raccoglimento, sempre in diretta, per onorare la memoria di una coraggiosa martire della Jamahhyirya.
E allora?
Chi siamo noi?; chi sono costoro?; che cosa è mai questo strano oggetto, questo cubo di circuiti elettrici e di tubi catodici che, mediante un piccolo schermo in formato familiare, ci spara addosso qualunque cosa, in tempo reale, da qualunque angolo del Pianeta, in qualsiasi giorno e ora dell’anno, in qualsiasi circostanza, ma preferibilmente quando siamo seduti a tavola e, stanchi per una giornata di lavoro, mandiamo giù il nostro pasto quotidiano, bevendo un bicchiere di vino e cercando di rilassarci, pur tenendoci informati sulle ultime notizie di attualità?
Dove ci troviamo: nella realtà o nella finzione?
Al di qua oppure al di là dello Specchio magico di Alice nel Paese delle Meraviglie (o, forse, sarebbe meglio dire: degli Orrori)?
Strane domande, strani interrogativi.
Ma ancor più strane immagini, ancor più strane parole sono quelle che escono da quel piccolo oggetto apparentemente innocuo e familiare, posato in cucina o in salotto, sopra un mobile, finestra spalancata sui misteri della realtà virtuale.
Eppure è bene farsele, queste domande; è giusto porseli, questi interrogativi.
Per quanto essi siano bizzarri, per quanto appaiano inquietanti, qui sta forse il nodo della manipolazione quotidiana cui siamo assoggettati, del quotidiano lavaggio del cervello di cui siamo, al tempo stesso, le cavie paganti, le vittime designate ed i volonterosi contribuenti: perché, caso singolare, noi stessi finanziamo gli esperimenti che le multinazionali ed i governi conducono incessantemente sulla nostra pelle o, per meglio dire, sui nostri cervelli e sulle nostre anime, con metodica insistenza, giorno dopo giorno, ora dopo ora.
E i risultati già si vedono.
Già si vedono persone che sono ridotte, direbbe Eugéne Ionesco, allo stadio di “rinoceronti”, ossia di animali eterodiretti, soggetti a tutte le mode e vittime volonterose di tutte le manipolazioni; ovvero, come direbbe Etienne De La Boétie, servi volontari che chiedono spontaneamente di essere incatenati dal potere.

*  *  *
Potremo uscire mai da una tale situazione?
Saremo mai in grado di contrastare forze oscure così poderose, così tentacolari, così capillarmente pervasive, come quelle che controllano l’informazione mondiale e riescono a somministrarci qualunque verità parziale, qualunque menzogna, qualunque subdola manipolazione dei fatti o, addirittura, qualunque non fatto, qualsiasi non evento, spacciandoli per moneta buona, ossia come fatti ed eventi assolutamente reali?
Posta così la domanda, tanto varrebbe rivolgerla al mago Otelma - con tutto rispetto per i maghi, i quali, dopotutto, svolgono un’attività come un’altra e, forse, meno subdola e menzognera, meno ipocritamente disinteressata e falsamente oggettiva, di tante altre.
Dovremmo chiederci, piuttosto, se per caso non abbiamo già venduto all’ammasso la nostra facoltà critica, il nostro buon senso istintivo, il nostro sentimento della dignità dovuta a noi stessi; se non li abbiamo già barattati in cambio della nostra razione di droga quotidiana, sotto forma di massicce dosi di idiozia e volgarità mediatiche.
Se, esercitando un minimo di onestà verso noi stessi, saremo in grado di rispondere negativamente a queste domande preliminari, allora quel che va fatto è abbastanza chiaro: rimanere sempre desti e vigili, diffidando del veleno camuffato da zuccherino che, continuamente, mamma tivù vorrebbe propinarci, in attesa di veder spuntare sui nostri venerabili zucconi un bellissimo corno da rinoceronte.
Dobbiamo innanzitutto difendere la nostra umanità, rifiutando di farci omologare, inquadrare, indottrinare, magari sotto le mentite spoglie dell’anticonformismo di massa; tutto il resto verrà poi.