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Uscire di scena

di Massimo Gramellini - 23/08/2011

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Non ho molti poster nella stanza della mia anima. Perciò mi ribello all’idea che si deteriorino da soli. Uno è Roger Federer, il tennista perfetto «fatto di carne e di luce», secondo l’immagine che gli cucì addosso lo scrittore David Foster Wallace (altro poster - per fortuna intonso, forse perché morto suicida). Da qualche anno la carne di Federer ha smesso di emanare luce, ma lui continua imperterrito a partecipare ai tornei, dove sempre più spesso si fa battere da mestieranti che un tempo avrebbero potuto fargli a stento da raccattapalle. Un altro poster con cornice doppia è Vasco Rossi. Un poeta a modo suo, che ha dato dignità artistica alle frasi smozzicate e agli anacoluti («Siamo solo noi, quelli che muoiono presto, quelli che però è lo stesso»).

Mi procura un morso di fastidio assistere ai suoi siparietti quotidiani su Facebook, durante i quali straparla da una stanzetta grigia. Nella traiettoria di una carriera, come in quella di una vita, l’uscita di scena è tutto. Il ginnasta che volteggia alla trave verrà giudicato e ricordato principalmente per l’atterraggio. Capisco il desiderio di guadagnare altri soldi e la paura di finire nel cono d’ombra. Ma si tratta di debolezze umane che vanno lasciate, per competenza, agli umani. Un poster non se le può permettere. Anche se è un uomo. E anche se il cattivo esempio gli arriva dai poster appesi nelle stanze del potere, dove l’uscita di scena non è proprio contemplata.