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Una imperatrice nuda non sarebbe fuggita, ma avrebbe ordinato di decapitare il bambino

di Francesco Lamendola - 29/08/2011



Tutti conoscono, crediamo, la fiaba di Andersen intitolata «Il vestito nuovo dell’imperatore», una delle più scopertamente didattiche del grande scrittore danese.
Allorché un bambino, nella sua innocenza, esclama che l’imperatore è in mutande, l’incantesimo della piaggeria e della servile adulazione si rompe e tutta la folla, rumoreggiando, copre il sovrano di risate e di scherni, costringendolo a scappare a gambe levate.
Ebbene: se al suo posto ci fosse stata una imperatrice, abbiamo ragione di pensare che la conclusione della storia sarebbe stata molto diversa: svergognata davanti a tutti, ella non sarebbe affatto fuggita, ma avrebbe dato ordine alle guardie di prendere il bambino e di mozzargli la testa, lì, sui due piedi, davanti a tutti: perché vi sono delle verità riguardo a lei stessa, per quanto evidenti, che la donna, per sua natura, non solo non è capace di sopportare, ma che suscitano in lei un freddo furore e un formidabile desiderio di vendetta verso chi le abbia pronunciate.
Costui deve essere rimosso, cancellato, annientato; se non è possibile farlo fisicamente, allora deve esserlo moralmente: occorre che quell’individuo venga squalificato, declassato, perché solo così l’amor proprio ferito della donna può trovare un parziale sollievo, o nella vendetta, o nel pensiero che si trattava di una persona talmente bassa, che le sue parole non possono neanche sfiorarla, non che incrinare l’immagine che ella ha di se stessa.
In questo modo, un certo ordine viene ristabilito: certo, non è l’ordine della chiarezza interiore, dell’armonia e della consapevolezza, ma è pur sempre un ordine che consente di andare avanti per le stesse strade battute finora, alla stessa maniera di prima, senza doversi sobbarcare l’ingrata fatica di mettersi in discussione e senza dover rispondere a domande troppo scomode e indiscrete su chi si è e dove si stia andando.
Del resto, non è esattamente quello che ha fatto Erodiade, servendosi della danza lasciva di sua figlia Salomé e della debolezza di Erode Antipa, per mettere a tacere una buona volta gli aperti rimproveri di Giovanni il Battezzatore? Un bel colpo di mannaia e via la testa, il gioco è fatto: se non c’è più una voce di rimprovero, allora non vi è nemmeno più materia di rimprovero e la vita può continuare, senza imbarazzo e senza rimorsi.
La donna, infatti, possiede, più dell’uomo, questa straordinaria capacità di allontanare rimorsi e sensi di colpa, purché riesca ad allontanare da sé l’oggetto che suscita in lei tali sentimenti e stati d’animo: quando l’oggetto non c’è più, scompare dal suo orizzonte morale anche il relativo sentimento; ciò che la saggezza popolare ha sempre saputo ed espresso con il proverbio: «Lontano dagli occhi, lontano dal cuore», applicabile anche ad altre situazioni emotive.
Gli psicologi, con linguaggio specialistico, parlano di “rimozione”: si rimuove ciò che è sgradito alla coscienza, prima che esso salga al livello della coscienza; il che significa che l’operazione sopra descritta ha luogo, il più delle volte, nelle regioni oscure del subconscio; oppure che, pur avvenendo a livello della coscienza, si svolge in maniera così rapida e precisa, così inesorabile e fulminea, da lasciare incerti se sia stato effettivamente registrato dalla coscienza o se non si sia trattato di una azione compiuta in una sorta di stato sonnambolico, come quando si esegue un ordine ricevuto durante l’ipnosi, al risveglio, senza sapere perché e addirittura (è stato osservato e dimostrato) senza rendersene conto.
Annamaria Franzoni, molto probabilmente, ha reagito così davanti all’enormità dell’uccisione di suo figlio, il piccolo Samuele, che aveva il torto di piangere insistentemente nella culla: meglio, molto meglio convincersi di non aver fatto assolutamente nulla e continuare ad accusare tutto il mondo, dai vicini di casa a dei misteriosi “mostri” venti da chissà dove, dell’atroce delitto; un meccanismo di difesa, come vivere altrimenti?
Naturalmente, questo è stato un caso particolarmente drammatico che serve solo a illustrare, dal punto di vista psicologico, quello che stiamo asserendo: l’impossibilità, per moltissime donne (e anche per taluni uomini) di fare i conti con la verità dei propri sentimenti, dei propri pensieri e delle proprie azioni e la tendenza istintiva a rimuoverli, per potersi riconciliare con la rassicurante e rispettabile immagine che ci si è costruiti di se stessi.
Del resto, i casi limite sono utili proprio per questo: attraverso la loro eccezionalità, inducono a riflettere sui meccanismi ordinari della psiche e gettano un fascio di luce su comportamenti quotidiani che, altrimenti, apparirebbero difficili da spiegare.
Un tradimento amoroso, per esempio, è certamente meno drammatico di un omicidio, anche se può portare quasi altrettanta sofferenza nella vita di un essere umano. Ora, qualsiasi psicologo sarà in grado di confermare che, mentre l’uomo che tradisce la sua donna, il più delle volte soffre di acuti sensi di colpa, anche se - magari - di colpe egli ne ha ben poche, la donna invece cancella dalla sua mente e dal suo cuore ogni forma di affetto per l’uomo che tradisce, lo prende anzi talmente in odio da negare di avergli mai voluto bene, da vedere in lui soltanto un cumulo di intollerabili difetti e niente di buono, niente di amabile.
Così facendo, ella riesce a tutelare la propria immagine narcisista di se stessa. Se non l’ha mai amato, non ha motivo di sentirsi in colpa; se non è colpevole, vuol dire che non è successo proprio niente, nel senso che il passato è annullato e può guardare avanti, ripartendo da una “tabula rasa”, cercarsi un altro uomo e, probabilmente, ripetere le stesse dinamiche distruttive che l’hanno condotta in questo primo vicolo cieco.
Chi non ricorda quella registrazione in cui Annamaria Franzoni, non sapendosi spiata, diceva al marito, a poche ore dalla morte del piccolo Samuele: «Adesso ne facciamo un altro, vero?»; e questo molto prima del funerale dello sfortunato bambino.
Espulso il ricordo dell’uomo, si può incominciare a cercarne uno nuovo; allontanata dagli occhi la vista dell’oggetto che ha provocato la sofferenza, si può ricostruire la propria immagine di sé e ripartire come se nulla fosse stato.
Attenzione: non stiamo dicendo che in fondo all’anima di ogni donna, e di un certo numero di uomini, vi sia un mostro in agguato, pronto a compiere chissà quali delitti; semplicemente, stiamo affermando che solo una personalità forte, equilibrata e in pace con se stessa è in grado di assumersi abitualmente la fatica (perché di una fatica si tratta) di confrontarsi in maniera aperta e sincera con la propria verità interiore, di guardarla bene in faccia, di riconoscerla e di trarne, eventualmente, le conseguenze del caso, sul piano delle scelte e dei comportamenti.
Gira e rigira, si torna sempre al punto fondamentale: CONOSCI TE STESSO. Se sai chi sei, puoi sempre reggere l’urto della verità, pur uscendone, talvolta, graffiato e ammaccato; ma se non lo sai, non ti resta che chiudere gli occhi, oppure ficcare la testa sotto la sabbia come uno struzzo e negare quella realtà che non puoi più vedere, benché essa sia tuttora lì.
Non esistono tecniche, non esistono formule né, tanto meno, scorciatoie, per riuscire a padroneggiare la propria chiarezza interiore, per raggiungere e conservare la seconda vista, che ci consente di rapportarci al reale secondo verità e giustizia.
È un cammino durissimo, che bisogna percorre da soli, accogliendo con gratitudine il dono insperato e fuggevole di qualche compagno di viaggio, ma diffidando costantemente di quanti si presentassero a noi sotto le vesti di guide infallibili o di esperti conoscitori della strada e della meta da raggiungere.
Non ci sono delle vere guide, per il semplice fatto che ciascuno ha la propria strada da fare, la propria selva oscura da attraversare, la propria montagna da scalare; ciascuno deve farsi guida di se stesso, rimboccarsi le maniche e mettersi alla ventura, confidando, semmai, nell’aiuto dell’Altro, non di un qualunque essere umano, per quanto saggio ed evoluto (e di solito le persone realmente sagge ed evolute non si impancano a salvatrici dell’umanità).
Ma, prima di ogni altra cosa, prima ancora di mettersi in cammino con il bastone da viandante, è necessaria una operazione preliminare: assumere su di sé la coscienza della propria fallibilità e imperfezione; accettare l’idea che non siamo onnipotenti, che non possiamo fare qualunque cosa e, quindi, che non dobbiamo sentirci eccessivamente in colpa, se e quando sbaglieremo, falliremo, imboccheremo strade sbagliate.
Le persone che si credono infallibili non accettano la realtà dei propri sbagli, delle proprie debolezze, delle proprie insufficienze: è per questo che rimuovono ferocemente tutto ciò che potrebbe compromettere, ai loro stessi occhi e agli occhi degli altri (ma non sanno che gli altri, a differenza di loro, ci vedono benissimo) l’immagine rassicurante e “perfetta” che di sé si sono costruite, mentendo giorno per giorno.
Chi riesce a sviluppare la vera consapevolezza di sé, sa anche di essere imperfetto e fallibile e, pertanto, sarà in grado di perdonarsi quando commetterà degli sbagli; solo chi non ammette la propria fragilità, preferisce negare qualunque evidenza e dare torto, se necessario, al mondo intero, piuttosto che assumersi le proprie umane responsabilità.
Abbiamo conosciuto donne sposate che, pur tradendo abbondantemente i loro mariti, dichiaravano con perfetta sincerità che, loro, non sarebbero mai state capaci di commettere un tradimento; che, pur avendo stuzzicato e provocato degli uomini, sostenevano di avere solo offerto dell’amicizia disinteressata e di non aver mai pensato a qualche cosa d’altro.
Misteri dell’anima umana: sì, abbiamo detto: «in perfetta sincerità»: perché, a loro modo, queste persone sono anche sincere, se per “sincero” si intende colui che crede fermamente a ciò che sta dicendo, anche se sta dicendo qualcosa di totalmente assurdo e di palesemente falso.
Ancora una volta: se non si conosce se stessi, non si è in grado di distinguere ciò che è vero per noi, da ciò che è vero in se stesso; non si è capaci di separare quello che a noi sembra e quello che noi crediamo, da quello che è vero per tutto il resto del mondo, da quello che è vero indipendentemente dai nostri stati d’’animo e dalle nostre interpretazioni.
Le persone che si credono perfette non ammettono questa distinzione e vorrebbero imporre alla realtà di adeguarsi all’immagine narcisistica che hanno di se stesse: la realtà, per loro, consiste in una serie interminabile di specchi autoriflettenti.
Se, poi, ci domandiamo da che cosa nasca questo delirio di onnipotenza, non tarderemo a renderci conto che scaturisce dal suo esatto contrario: da una bassa stima di sé e da una estrema fragilità dell’io, per cui tutte costoro, assumendo la veste delle persone perfette (delle madri perfette, ad esempio, o delle mogli perfette: e Dio sa quale Calvario debba essere la vita quotidiana di quei poveri figli e di quei poveri mariti), cercano di esorcizzare la paura di essere fondamentalmente inadeguate, insufficienti e, perciò, poco amabili.
«Amatemi, non vedete come sono perfetta?», sembrano gridare continuamente, nascondendosi dietro tanti sorrisi e infinite moine.
La persona equilibrata, al contrario, non ha bisogno di credersi e di mostrarsi perfetta, perché pensa di poter essere accettata ed amata, pur nella sua imperfezione.
Come sarebbe semplice, in fondo, accogliere in se stessi questa verità e sforzarsi di metterla in pratica, non per indulgere nei propri difetti, ma per sollevare sé e gli altri da comportamenti ambivalenti e contraddittori, da voltafaccia improvvisi, da laceranti sensi di colpa che, per il fatto di venire spinti sotto il tappeto della coscienza, non cessano però di rimordere.
Una donna come Annamaria Franzoni non troverà mai la pace fino a quando continuerà a fantasticare che i perfidi vicini di casa o un mostro venuto da fuori abbia spiato quei pochissimi minuti in cui la porta di casa era socchiusa e lei era uscita per accompagnare alla fermata del pullmino scolastico il figlio più grande, per introdursi e massacrare il suo bambino rimasto indifeso nella culla.
Nessun essere umano potrebbe mai trovare la pace a prezzo della verità e della giustizia.
Esiste un ordine superiore, che ci piaccia o no, in base al quale ciascun essere umano trova la propria misura: nella pace, se si accorda al suo flusso armonioso; nell’inferno della sofferenza, del rancore e del desiderio di vendetta, se vi si nega e pretende di farsi misura a se stesso.