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Il Valore e la ri-conoscenza

di Claudio Lanzi - 29/08/2011


La riconoscenza: l’esterno
 
Ri-conoscere (conoscere di nuovo) semiologicamente è un termine che, come tanti altri che hanno il “ri” come suffisso, indica una azione reiterata, ripetitiva, a volte anche in senso “restitutivo”; oppure indica la conoscenza di qualcosa che, in fondo, si sapeva già, che però si ripercorre, temporalmente, in senso inverso. Ha la stessa struttura di rivelare (velare una seconda volta), che è assai diverso da svelare, oppure di ricordare (far agire di nuovo nel cuore, vero strumento di memoria, che dovrebbe esser diverso da rammentare) e che ovviamente ha a che fare con la mente. Questo senso esteso della ri-conoscenza è in parte mostrato nelle prime due immagini a corredo di questo articolo che tentano di restituire alla parola, anche se solo in piccola parte, la dignità sacrale delle sue origini.
A questo proposito ci sembra particolarmente impressionante notare come alcune parole, legate a specifiche ed arcaiche modalità percettive, attraverso la globalizzazione e banalizzazione dei linguaggi e l’informatizzazione della comunicazione, siano diventate desuete ed abbiano perso completamente i loro significati originali, assumendone altri fittizi. Ma è ancora più impressionante accorgersi come, insieme alla parola, si sia occultato il principio significante, che non suscita più alcuna emozione correlata a dei fonemi, ormai obsoleti.
E tanto per restare nell’aspetto semiologico potremmo dire che tali fonemi non suscitano più ri-sonanza (e siamo di nuovo nel suffisso reiterante) nel cuore degli uomini, che da campana d’argento è diventato forse campana di coccio.
 
Ma, tornando alla ri-conoscenza, ci sembra proprio di poter dire che questo moto dell’anima, pur seinteso semplicemente come sentimento di gratitudine verso qualcuno o verso qualcosa, sia ormai talmente scomparso dalla prassi ordinaria, e che, proprio per tale ragione, meriti qualche piccola riflessione, anche se in uno spazio limitato come quello di un articolo sul web.
 
Molti anni fa vidi un film particolare, “Istinct”,[1] dove viene messa in evidenza un’attitudine, tutta umana e fortemente occidentale, sviluppatasi a dismisura negli ultimi decenni: l’attitudine compulsiva a “prendere”, anzi a fagocitare tutto ciò che viene a portata di mano, appropriandosi in continuazione di ciò che viene offerto, necessario o superfluo, e a volte, anche di ciò che… non viene offerto, senza mai riequilibrare la bilancia del dare e dell’avere o interessarsi alle conseguenze nefaste della nostra bulimia[2].
 
In questa sede vorrei, inizialmente, limitare la riflessione sul “prendere” al piano materiale che è quello che caratterizza maggiormente il tessuto sociale dell’epoca “moderna”: risulterà facile osservare come uno dei fattori di più forte turbamento del significato del termine valore sia causato dalla monetizzazione di tale termine, enfatizzata dal famigerato “consumismo generalizzato”. Consumare (dal lat. consùmere, che non per nulla vuol dire logorare) è una “specialità” che sta contribuendo massicciamente a mascherare, e nel contempo a diffondere, questa specie di malattia collettiva, favorita dall’enorme e desacralizzato uso del denaro che diventa il principale strumento per attribuire “valore” alle cose.
Il passaggio dalla moneta con valore reale (perché realizzata, ad esempio, con metalli preziosi), alla carta, e poi alle carte di credito, ha ulteriormente sviluppato la ex-stranietà dell’oggetto dal mezzo per ottenerlo, e l’attitudine a prendere “comprando” (a volte rubando) con delega al denaro, vero o virtuale che sia, di assolvere la funzione magica di riequilibrare o compensare ciò che si è “preso” o si è “dato”.
In realtà il denaro, che ormai è quasi solo virtuale, come tutti sappiamo, fa dei giri assai strani: assume su di se, gli impegni e gli oneri di tutti coloro che lo hanno toccato, diventa portatore di un fiume di “promesse” di ipotesi di valore, di debiti e crediti che nessuno sa se, e come, verranno mai mantenuti.
Infatti, anche se il denaro ha oggi un peso così leggero, consente (in apparenza) di fruire di qualcosa di solido, di pesante; in un mondo mercantile come il nostro, il denaro (altrimenti chiamato, con un termine assai imbarazzante quale “credito”[3]) può comprare anche cose che sembrano immateriali: la salute, la libertà, il potere, una carica pubblica; cose che, comunque, sono beni (o… mali) che si “acquisiscono” e che perciò non sono necessariamente disponibili sempre e per tutti.
E’ invece assai difficile che io, con il denaro o tramite carte di credito, possa comprare dei beni intrinseci, cioè delle virtù come l’eroismo, o la santità, o la forza, o la castità, o la saggezza, che hanno un valore morale o anche spirituale. Ma posso comprare la testimonianza di persone pronte a giurare e certificare, per una congrua cifra, che io sono un eroe, o un santo, o un forte, o un casto e perfino un saggio!
E’ evidente[4] che questo prendere materia, potere, spazio e tempo in cambio di un pezzo di carta nel quale ci sono scritti dei numeri che ne stabiliscono il valore, ha innestato, con il passare di secoli, una gran confusione nella gerarchia dei valori delle cose, delle persone e della vita stessa, depauperando sempre più la qualità immisurabile, e precipitandola nella quantità misurabile (o certificabile), di guénoniana memoria[5]. Forse per questo, ogni tanto, qualcuno sogna un mondo privo di denaro e costruisce utopie sopra tale miraggio.
 
Sopra le monete e sopra la carta venivano un tempo ritratte delle persone auguste, (regnanti o personaggi mitici), o degli oggetti simbolici e sacri. Oggi, sopra le banconote degli “euro” sono ritratte delle porte, degli archi generici e dei ponti che si affacciano sul nulla, e altri oggetti propri di una metasimbologia desacralizzata e confusa che dovrebbe rappresentare il transito, il passaggio (e su questo varrebbe la pena riflettere)[6]. Sulle monete abbiamo di tutto un po’. Ma ciò che vi è rappresentato non contribuisce più alla definizione di un valor sacro ma di un prezzo profano mimetizzato dietro l’idea di “unione”. Perché?
Siamo proprio sicuri che il disegno sia solo un vezzo grafico e non nasconda qualcosa di più subdolo? Un portale gotico vale come una finestra barocca? Cioè siamo certi che il contenuto non partecipi al valore, anche venale, dell’oggetto e soprattutto non veicoli qualcosa di subliminale, in una direzione assai diversa rispetto a quando la monetazione era propria di uno ius sacerdotale?
Sembra una banalità eppure, coloro che erano bambini, soltanto una sessantina di anni or sono (cioè quando lo ero anche io) ricorderanno che si facevano le famose raccolte di figurine Panini, con indiani e cow-boys.
Una figurina di Bufalo Bill valeva più o meno quanto quella Custer ma, per una immagine di Toro Seduto ci volevano almeno… 15 mandriani. E non perché Toro Seduto fosse raro, ma perché era “bello”, era forte, era un guerriero vero, aveva una espressione da saggio… e perciò… “valeva” di più.
Dunque due pezzi di carta uguali ma con un soggetto differente hanno, dentro la meravigliosa mente “antica” del bambino, un valore diverso, pur avendo lo stesso prezzo dal giornalaio.
 
Ma, come ben si vede, l’accumulo e la definizione controiniziatica del termine “valore” estendono le loro distorsioni etiche in tanti altri settori.
Ad esempio nell’accumulo d’informazioni, nell’accumulo di attestati, di riconoscimenti, di “medaglie” di certificazioni utili e necessarie per fare qualsiasi cosa. Tutto ciò offre sicurezza, apparente tracciabilità, garanzia, e dà un senso di illusoria potenza, di dominio sulle “cose”, a volte sugli uomini (crea una distinzione tra chi ha… il bollino blu e chi non ce l’ha), e a volte perfino… sui pensieri degli uomini[7].
E ovviamente tale accumulo crea affidabilità o, se vogliamo credito, e, come abbiamo visto il credito è un elemento monetizzabile con il quale si “certifica” il riconoscimento di un valore. (Tale riconoscimento e tale monetizzazione partono, guarda caso, da chi oggi attribuisce gli attestati, distribuisce o vende le informazioni, assegna le carte di credito a livello planetario, ecc. ecc.)
Ne consegue che, in una società che valuta tutto in base al valore certificato, la caccia all’accumulo di certificati di…ac-creditamento si fa, ovviamente, altrettanto furiosa quanto quella di accumulo di beni.
Un particolare e quasi divertente aspetto di tale follia certificativa (che in realtà copre una sfiducia sempre maggiore dell’utente e del certificante nell’effettivo valore e nella credibilità del merito di ciò che si accredita) è data dalla proliferazione di certificazioni alimentari, doc. dop., certificati d’origine, composizione, ecc. Più “bollini ci sono” più il prodotto si qualifica, al pari di un uomo con tanti diplomi. E chi non ha tempo o non vuole attaccare bollini in continuazione… non ha più diritto ad esistere, perché si pone al di fuori del sistema delle ri-conoscenze consolidate e stravolte nel loro significato. Terribile, no?
 
Eppure sembrerebbe impossibile voler “prendere”, oltre un determinato limite, ciò che crea credito. Così come sembrerebbe impossibile doversi dotare di certificati creditizi, per garantire continuamente noi stessi verso gli altri, e gli altri verso noi stessi.
Teniamo infine presente che alcuni crediti vanno presi obbligatoriamente, perché la democrazia ci impone di certificarci su tutto, così come ci impone un assurdo sistema bancario, e tante altri ricatti debitori (come, ad esempio, quello di assumerci il debito dello stato in cui nasciamo).
 
L’idea stessa di un grande accumulo di crediti, viene confusa con l’idea di potenza. E’ idea antica, che ci porterebbe assai lontano[8] e che ha condotto i filosofi e i politici, su limiti divergenti, come quelli propugnati dal comunismo più estremo o dal liberismo più sfrenato che, assurdamente, hanno finito per trovare una casa comune nella società attuale.
Ma approfondiremo tale argomento in altre occasioni. Torniamo per ora alla continua necessità di accumulo, e al valore che viene dato alle cose che accumuliamo, materiali o immateriali che siano, e a qual tipo di debito si instaura nelle varie occasioni in cui esercitiamo tale mercato.
 
Possiamo dunque immaginare che tutto ciò che è accumulabile, (e comprendiamo in questo anche le informazioni, come i ricordi, come i beni materiali monetizzabili) si riversi in quattro grandi serbatoi.
Il serbatoio intellettuale sarà il cervello, quello emozionale sarà il cuore, quello materiale sarà lo stomaco. E ciò che non entra nello stomaco, nel cuore o nella testa verrà accumulato occupando, a volte senza chiedere permesso, dello spazio e del tempo esterni a noi, nei quale inserire e poi esibire, oppure nascondere gelosamente, i nostri “beni”.
L’accumulo di tutte queste cose può essere caotico (come in una discarica) o ordinato (come in un museo), ma il risultato è più o meno lo stesso. Una quantità di oggetti materiali e immateriali (che, comunque, lasceremo tutti al termine della nostra vita e dei quali non riusciremo a tenere il conto) sarà li accatastata, ad ingombrare il nostro essere.
Le informazioni, ad esempio: Ne riceviamo e ne accumuliamo migliaia ogni giorno e le affastelliamo nella memoria senza aver modo di creare una gerarchia, un peso, una importanza. Sono tutte equivalenti: la morte della studentessa, lo stupro di gruppo, la benedizione Urbi et Orbi del Papa, lo sbarco dei clandestini, la vittoria della squadra di calcio, la proclamazione di un santo, la guerra civile, la scoperta scientifica, ecc.
Ma, al di là del denaro, del tempo o dello spazio conquistati (le ultime due categorie sono facilmente monetizzabili), quale è il “valore” della merce accumulata?
Quanto abbiamo pagato in termini di impoverimento animico, ciò che abbiamo accumulato nella stanza delle memorie di Paperon de’ Paperoni (in quella di Mnemosine, grazie a Dio, non possono entrarci)?
Quale è la merce necessaria che abbiamo acquistato, e quale è assolutamente inutile, disturbante, inquinante del cuore e del corpo?
L’idea stessa di aver accumulato da un senso di sicurezza. Abbiamo fatto le provviste di idee, di emozioni, o di cibo, di libri, di oggetti, o d’altro. Ma dove abbiamo “preso” tutte queste cose?
Alcune le abbiamo lette, altre le abbiamo comprate, altre ce le hanno regalate.
Quale è la gerarchia tra tutte queste “provviste”?
 
Siamo certi di non aver rubato nulla e che tutto quello che ci è arrivato ci sia “dovuto”?
Questo è un grande problema spirituale, e non solo etico, o sociale, o psichico.
 
Da qui lo spreco, da qui l’indifferenza verso ciò che si butta, da qui l’accumulo del superfluo, fasi diverse di una stessa dinamica.
Da qui la mancanza di rispetto e di attenzione verso ciò che si è “preso” massivamente (sia che questo accaparramento sia stato volontario come che sia stato indotto) e da qui l’incapacità di discriminare, di scegliere, di gettare l’inutile e conservare l’utile.
Questo è un tema abusatissimo, affrontato sotto tutte le prospettive immaginabili, che affascina sociologi, psicologi, ma anche politici e uomini di “mercato”. Tesi, gli uni a “spiegare” (sic!) il fenomeno, e a curare i disturbi psichici causati… dalla bulimia consumistica, o dalla frustrazione per mancanza di soddisfazione nel consumare; gli altri ovviamente tesi a stimolare al massimo il consumo, per creare quel circuito virtuoso (o forse dovremmo dire perverso) che associa il cosiddetto “PIL” ed altre consimili perversioni economiche, alla “qualità” della vita.
 
Ma le considerazioni fino ad ora fatte, che sembrano riferirsi prevalentemente al contesto sociale costituiscono in realtà il terreno, l’ambiente fluidico nel quale si trova a vivere l’anima dell’uomo. Ambiente particolare, drasticamente stravolto in poco più di mezzo secolo e diversissimo da quello che ha accolto le anime degli uomini per decine di migliaia d’anni. Tale ambiente avendo ucciso il concetto di valore, ha ucciso anche la riconoscenza e cercheremo di spiegare il perché cercando di vedere se si può fare qualcosa.
 
 
La riconoscenza: la via, il maestro e… i doni.
 
Chiunque abbia letto la storia di Milarepa, o di Chuang Tzu, o di Isacco da Ninive o di san Serafino di Sarov, o di tanti altri asceti, filosofi e mistici del passato come del presente, sparsi con diversissime scuole in tutta la terra, si sarà accorto che la liberalità del “maestro” e della Via (che nel maestro spesso si assimila) è pressoché assoluta e imprevedibile.
Ciò sconcerta l’allievo perché, mentre con le opere umane è più o meno facile immaginare una scambio tra le cose ricevute e le cose donate (così come ho cercato di mostrare nel paragrafo precedente) come si fa a scambiare, a compensare un dono spirituale con uno materiale? Come si fa a ri-ingraziare per “l’ineffabile”?[9]
Il dono spirituale, per usare una terminologia cara a P.Florenskij, è incommensurabile rispetto a qualsiasi compensazione materiale.
Eppure alcuni smaliziati discepoli orientali e occidentali, pensano che si possa tranquillamente sfruttare tale liberalità magistrale, senza offrire nulla in cambio… a nessuno.
Altre scuole ancora, soprattutto in ambito ermetico, ma anche in ambito religioso, vincolano l’allievo con patti e giuramenti più o meno pesanti, scambiando a volte fedeltà con fede, e obbedienza con plagio o con timore, sostituendo il Bene con l’icona del bene e innestando quel ricatto morale che nulla a che vedere con la devozione.
Altri ancora “lucrano” tranquillamente sullo scambio, originando quei fenomeni che sono andati dalla famosa compravendita delle indulgenze, all’ “acquisto” di reliquie, alla conquista di gerarchie in ambito religioso o settario.
Esistono inoltre molte scuole (e di conseguenza molti allievi), che considerano il percorso spirituale (terribile definizione, assai in voga in questo periodo) come una specie… di corso di laurea, con esami, diplomi, attestati, certificati, che dichiarino il livello raggiunto. E più certificati uno consegue (magari rubacchiandoli qua e la o fotocopiandoli) più vale.
Altri allievi, trovano nel guru yoga, cioè in tutta quelle serie di attività utili ad onorare la vita del maestro, un giusto equilibrio. Il “guru yoga” non è soltanto uno scambio fra un “servizio” materiale e un dono spirituale, ma è l’aspetto più nobile della devozione. Devozione, che deriva dal latino vovere, ha antiche radici indoiraniche, sia nel senso di consacrare che di desiderare. Ciò si traduce in una consacrazione della propria vita su quella del Maestro, che coincide con la Via stessa e con lo scopo della Via. In effetti la strada del guru yoga è nobile e antica. L’ha seguita Milarepa con Marpa, l’ha seguita Marta con Gesù; non l’hanno però seguita in modo canonico né Giovanni né la Maddalena, che hanno trovato nel Maestro qualcosa di diverso e particolare: ma questo ci porterebbe lontano e ci torneremo in un'altra occasione.
 
Ci sembra comunque evidente che se la scuola è seria[10] e se il maestro è serio (ammesso che ancora ne possano esistere delle une e dell’altro), non esiste “moneta” che possa comprare una benevolenza, una disponibilità, un’iniziazione, un influsso spirituale.
 
Ma, una volta che la benevolenza sia stata effettivamente elargita, che i doni spirituali siano stati ricevuti, che l’iniziazione sia stata data, che cosa ci si fa?
C’è il rischio che l’allievo possa valutare assai superficialmente tali elargizioni e le consideri atti dovuti, normali.
C’erano…e li ho presi, dice l’ego del praticante.
 
Ma l’anima, grazie a Dio, non ragiona in modo così volgare.
L’anima contrae un meraviglioso e dolce debito di riconoscenza, che non si esaurisce con il ringraziamento[11]e non si mostra con un attestato: L’Anima lo sente e riconosce dentro di se, anche se l’ego fa il possibile per non ascoltarla. Potrebbe infatti morirne o peggio (orrore!!) potrebbe umiliarsi.
 
Riconoscenza: manifestazione
 
E’ assai interessante rilevare che mentre esistono centinaia di raffigurazioni simboliche delle Virtù Cardinali e Teologali, e di altre da esse conseguenti, non esistono raffigurazioni della “Riconoscenza”. Non ci risulta che sia mai stata fatta una rappresentazione iconografico-simbolica esplicita di tale virtù straordinaria, a meno di includere nel sacrificio espiativo o commemorativo, l’offerta stessa dell’Ostia, in remissione del debito; e questo ovviamente è l’evento centrale di tutta la liturgia cristiana.
Ma se il Sacrificio, sia in ambito pagano come cristiano, fosse stato vissuto esclusivamente come scambio (cosa che a volte si tende ad avallare) e non celasse il Mistero, si mortificherebbe il significato stesso del ri-conoscimento.
Le agiografie ricordano come, alcuni sacerdoti, esponenti di culti misterici, sia arcaici pagani come recenti (cristiani), restassero immersi nella liturgia e nella contemplazione dell’offerta, a volte per ore, entrando nell’enstasi mistica che consentiva il contatto con il divino[12]. E questa contemplazione, questa porta iniziatica, caratteristica della dinamica del sacrum-facere, questo ri-conoscimento estatico, questa identificazione con il trascendente, non è davvero sottoposta a commercio!
 
L’evidenza della riconoscenza appare, pur se sotto mentite spoglie, in ogni trattato di mistica o di filosofia che affronti i rapporti di discepolato. Se ne parla anche nelle historie romane di Tacito o di Macrobio, a proposito degli antichi eroi della Roma dei re, riconoscenti fino alla morte a Roma stessa, supremo e misterico Maestro dai nomi segreti, e suprema Madre.
Forse tale celia nei confronti della ri-conoscenza, soprattutto in epoca moderna, deriva dal fatto che può sembrare una filiazione della più eroica fra le virtù, e cioè la Charitas.
In effetti soltanto la Carità, che per stessa definizione, elargisce senza creare alcun “debito”, può assimilarsi alla riconoscenza. Per la stessa ragione il debito che avvolge l’anima del “riconoscente” non è causato dall’elargizione gratuita ricevuta, e quindi dalla necessità di far qualcosa per “pagarlo”, in quanto se esistesse tale rapporto si falserebbe qualsiasi processo discepolare autentico.
 
E invece causato dall’Amore in quanto la caratteristica fiamma ardente che in genere brucia sopra la nuca delle icone della Carità, nelle sue varie rappresentazioni, estende il suo incendio nel cuore del discepolo: o per lo meno… dovrebbe estenderlo.
Fuoco d’amorosa ed eroica gratitudine. In altri casi tale fuoco è devastante e trasformante, nella sua ironia, ponendo il discepolo di fronte all’assurdità della sua ignoranza.[13]
Un tal genere d’Amore, rappresentato nella relazione tra uomo e donna da quell’amor che nullo amato amar perdona, se restasse confinato nella precipitazione della necessità e del desiderio, porterebbe solo e sempre verso la sofferenza ed acuirebbe il debito, mentre nella sublimazione eroica del “conoscere di nuovo” e finalmente ri-conoscere, trasforma e rende colma di grazia e di gioia l’anima del praticante (o dell’amante) e le indica la via della salvezza.
 
L’estinzione di questa fiamma d’amor viva come la chiamava Giovanni della Croce è possibile solo svelando e rivelando la conoscenza, cioè attraverso la ri-congiunzione e il ri-conoscimento dello Spirito.
Ma, poiché è evidente che non si può comprendere l’enigma di Delfi sulla conoscenza in un batter di ciglia, sarà necessario tanto lavoro, tanta “pratica”, tanto silenzio e tanta Virtù.
E, come sapevano bene i cavalieri in partenza per la loro crociata o per il loro pellegrinaggio, solo tal tipo di ri-conoscenza estingue il dolce debito celeste, così come recita il penultimo e straordinariamente “esoterico” versetto del Pater (demitte nobis debita nostra, sicut et nos demittimus debitoribus nostris).[14]
Nel frattempo il discepolo, con il suo ego e i suoi carichi d’ignoranza, e assai prima che la sua anima… ce la faccia a riconoscersi, dovrebbe, quanto meno, impegnarsi ad essere presente. Potrebbe “spendersi” con generosità per la via[15] così come suggerivano i partecipanti a quelle confraternite medievali, nelle quali trovarono forza, riconoscenza e orientamento, dei giganti spirituali come Dante Alighieri[16].
Questa ri-conoscenza è la sola moneta utile a “pagare” il dolce debito senza sforzo, senza strategia, ma solo con la gioia e i frutti dell’innamoramento sapiente. La possiamo analizzare, anzi ridurre meschinamente nel seguente modo, prendendo esempio ed estrapolando alcuni concetti minimi dalle “regulae” di tutti coloro che lo hanno già fatto e che, attraverso le opere più “umili” hanno mostrato la grandiosità dei loro cuori[17]:
 
Esser fedeli alla scuola, all’ordine, ai ritmi, agli insegnamenti alla riservatezza. Esser perseveranti, nella pratica, nell’aiutare il prossimo, e in tutte le virtù che caratterizzano scuola. Rispettare chi è più anziano, che ha più esperienza e tutti coloro che fanno lo stesso cammino, e chiunque ti aiuta e ti insegna qualcosa di speciale. Esser presenti e solleciti, non per far numero, ma esserci sul serio; spendersi per chi ci da insegnamento; proporsi per primi, in una parola sola: offrirsi senza ignavia.Testimoniare i principi che sono stati appresi, che non vuol dire far proselitismo come a volte accade, ma difendere cavallerescamente la scuola e il cammino. Riferirsi sempre alle parole di chi ci insegna lodandolo all’interno del proprio cuore e di fronte al prossimo. Non contrabbandare per farina del nostro sacco quello che non è.
 
Anche se quanto sopra potrebbe sembrare ovvio, banale, scontato, posso affermare con amara ironia che, in tanti anni di frequentazioni con esponenti di tante “scuole” diverse, assai raramente mi è stato dato di riscontrare che anche solo una piccola parte di tali principi elementari sia stata perseguita (soprattutto quanto esposto nelle ultime due frasi).
Sono noti, gli esempi di clamorosa mancanza di riconoscenza (e qui siamo realmente al livello più infimo della scala della in-gratitudine) di alcuni “figli spirituali” di Eliade, di Evola, di Tucci, di Filippani, dei Virio (cito i primi che mi vengono in mente, in quanto abbastanza conosciuti dai lettori di Simmetria, ma potremmo estendere l’elenco all’infinito). Alla scomparsa dei maestri, allievi che a tali nomi dovevano tutto, non solo hanno preso abbondantemente le loro opere, ma li hanno allegramente disconosciuti, estrapolando parti della loro vita, o pezzi dei loro insegnamenti che, enucleati dall’insieme risultano poco edificanti e diventano aggredibili dalla faciloneria giustizialista.
Apparentemente, nei gruppi (soprattutto in quelli con forte enfasi politica o settaria, cose che spesso si sovrappongono) dove a volte il fanatismo devozionale prevarica tutto il resto e corrode i principi spirituali con l’emozione narcisista, può sembrare che tali “valori” vengano invece perseguiti. In realtà, in tali luoghi, si idealizza l’ideale e si creano isole devozionali materialiste, come quelle che spesso si afferma di voler combattere.
Io sono certissimo del fatto che, chi è in una “via” può perdere tutto, ma proprio tutto, con estrema facilità, se dimentica il principio sacro della riconoscenza, e se non ne capisce il significato meraviglioso e trasfigurante.
Tale trasfigurazione d’amore esalta colui che ci si tiene avvinto. Non va assolutamente confusa con un’attitudine bacchettona o pietistica. E’ un’attitudine esclusivamente guerriera.
Padre Costante Pampaloni, un eremita francescano dall’anima semplice ma dal cuore grande come l’eremo nel quale si rifugiava (dall’emblematico nome, “La Maddalena”) e che ebbi la fortuna di conoscere e frequentare una quarantina di anni or sono, diceva spesso: “per sopravviverebisogna perseguire la conoscenza, per vivere bisogna scoprire in se stessi la speranza, ma per amare ci vuole un coraggio da leoni”.

E aveva ragione.

 


[1] Il film è di Jon Turteltaub, interpretato da Anthony Hopkins e fa parte della serie dei film prescelti dalle analisi del nostro “cineforum”.
[2] Ho affrontato questo problema nel mio “Sentieri Spirituali” (testo che, proprio per questa ragione, piacque particolarmente a Luciana Virio, che volle curarne la prefazione), nel quale cercai di occuparmi del circuito virtuoso delle Grazie (che con il loro prendere, conservare e restituire, consentono l’armonia della vita, il flusso della natura e la dinamica delle relazioni umane)
[3] Il credito deriva ovviamente dal lat. credère con il senso di fidarsi, confidarsi, ritenere per vero. Nel credìtum c’è dunque l’affidabilità di una promessa. Imbarazzante per un giro di pezzi di carta!
[4] Ne hanno parlato Evola, Eliade, Guénon e moltissimi altri con analisi approfondite sul significato del denaro, della coniazione, delle zecche e delle immagini riprodotte sulla moneta. Non a caso la coniazione era un tempo un atto sacrale, di responsabilità sacerdotale. Lo stesso termine “moneta” con il senso di “avvertire” da monere, deriva dalla Giunone Moneta, chiamata così dopo che, nel 390 a.C., le oche del Campidoglio avevano avvisato il console Manilio dell’invasione dei Galli.
[5] Il fenomeno, ben radicato fin dall’antichità, prevede l’acquisto della carica stessa a beneficio dello stato (come nel caso dei pubblicani citati anche nei Vangeli, che anticipavano parte delle tasse allo stato per poi avere il diritto di esigerle personalmente e, per questa ragione, non erano ovviamente ben visti).
[6] Tale metasimbologia del nulla è stata dichiaratamente scelta dalla BCE. E’ divertente questa democraticissima dichiarazione bancaria, tratta dal sito della Banca Centrale Europea: “Sette mesi più tardi una giuria composta da noti esperti di marketing, design e storia dell’arte ha composto due elenchi, contenenti le cinque serie giudicate migliori per entrambi i temi proposti. L’opinione del pubblico in merito ai disegni selezionati è stata quindi verificata tramite un sondaggio, che ha interessato circa 2.000 (sic!!!)persone in tutti i paesi dell’Unione europea.
[7] Avendo, in una parte della mia vita professionale, avuto fortemente a che fare con l’universo delle certificazioni di qualità, di eccellenza, ecc., nei campi più svariati, ho maturato una certa esperienza nei metodi di attribuzione di valore, alle cose e alle persone, tesi all’appiattimento verso dei minimi condivisibili, assai lontani da ciò che i nostri progenitori chiamavano valore.
[8] Nel concetto stessa di Magia e di Mago c’è un invito a tale grandezza. Ma dove la grandezza spirituale e materiale dell’uomo prende corpo, prevaricando l’ascesi e il perfezionamento spirituale, il mago diventa stregone e la magia diventa potere prevaricante al servizio della parte meno nobile del creato.
[9] Anche questo termine, al pari di ri-conoscenza, è retto dal suffisso ri. La seconda parte della parola in-graziare ha un nuovo suffisso, in, che indica in genere un moto a luogo, un portare verso. Ne deriva che ri-in-graziare vuol dire indurre nuovamente verso la grazia (o le Grazie, v. La danza delle Ore), cioè verso il flusso armonioso del dare e del ricevere (in questo caso, ovviamente, si tratta di dare o ricevere doni spirituali).
[10] (in una scuola seria l’icona è solo un oggetto di meditazione e non d’idealizzazione stereotipata. In una scuola seria si dissolvono gli ideologismi a favore ideali)
[11] V. nota precedente.
[12] Il terrore materialista di poter ammettere una trasformazione spirituale giunge al punto di disconoscere qualsiasi “estasi” riducendola a uno squilibrio neurologico causato o da isteria o da assunzione di sostanze psicotrope.
[13] Particolarmente efficaci nella straniante descrizione di tale processo, sono i testi del grande Lieh tzu, soprattutto quando descrive i rapporti tra maestri del Taoismo e del Confucianesimo (c’iung-hu-cienn Cing)
[14] V. A. di Tuscolo- Breve Commento al Pater, Simmetria 2001. v. anche i resoconti dei pellegrinaggi nella famosa Guida del Pellegrino di Santiago del 1130 circa, rivisitata più volte nel corso dei secoli.
[15] Splendidi e continui esempi di tale assetto tra discepolo e maestro sono portati da Suso nel Libretto dell’Amore, da tutti gli asceti della Philocalia, ma anche da Plutarco nelle sue Vite.
[16] Ci riferiamo alle magnifiche imprese di quei fedeli d’amore e di quei cavalieri, di cui abbiamo trattato in diverse occasioni nei testi di Simmetria (v. rivista n° 1-4-8-11, i testi di P. Galiano sull’Ordine del Tempio e, in particolare l’ultimo in uscita in questi giorni “Amorosa Sapienza” di E.Landi, C.Lanzi, A.Bonifacio, V.Dordolo).
[17] Potremmo benissimo estrarre tali suggerimenti dalle regole del cavalierato o da quelle degli ordini monastici orientali e occidentali, considerando che quanto sopra semplificato in maniera così riduttiva, offre dei requisiti minimi e parziali, assolutamente ridicoli nei confronti delle asperità di una vera regola spirituale che oggi ci sembra addirittura impraticabile (V. il bel libro di N. D’Anna sul Cristianesimo Celtico)