Sono sempre più numerosi. Arrivano dallo psicoanalista ancora un po’ storditi, ma composti, senza le improvvise crisi di pianto, o i pugni stretti sul bracciolo della poltrona, di chi ha appena scoperto di essere tradito/a. Sono gli abbandonati per disamore.
La moglie, o il marito, ha appena rivelato che da tempo non prova più niente per il coniuge. Non c’è un altro amore, una passione nascosta. Semplicemente, non c’è più amore. Anzi: «Non c’è più niente». È il nichilismo sentimentale.
Non è un fenomeno improvviso: andava crescendo da un po’, e nutre da tempo il fenomeno dei «single di ritorno»: le persone, in crescita esponenziale, che escono dalla coppia, e non vogliono più saperne di ripetere l’esperienza. Non si tratta di un fenomeno solo italiano: anche in Inghilterra, già da qualche anno, ci sono studi e statistiche che mostrano come la fine dell’amore sia ormai la prima causa di divorzio, davanti al tradimento.
Anche in altri Paesi è così: l’esaurimento sentimentale è un’evidente tendenza della società occidentale. Diversamente dal tradimento qui non c’è una vera «vittima»: nella maggior parte dei casi l’abbandonato per disamore riconosce che anche lui/lei non sentiva da tempo più nulla, solo che non lo rivelava (spesso neppure a sé stesso), e provava ancora, per abitudine, comodità, o mancanza di iniziativa, a rimanere in coppia.
Di solito, è il maschio, tradizionalmente meno attento a riconoscere i sentimenti ed a farne la guida dei propri comportamenti, ad assumere questa posizione tra lo stoico e l’indifferente.
Quali sono le ragioni che suscitano, per solito, l’esaurimento sentimentale? Qui i figli hanno spesso un ruolo importante, come in genere nelle vicende della coppia, e contrariamente a chi sostiene la loro scarsa rilevanza nella relazione tra i due. La coppia infatti spesso entra in crisi quando i figli non arrivano, ed anche quando se ne vanno perché ormai sono grandi. La cosa non deve sorprendere: i figli infatti uniscono la carica di vitalità dell’«altro» (la loro identità e i loro contenuti non si esauriscono nella coppia genitoriale), alla continua sollecitazione implicita nel rapporto educativo, e al senso di continuità familiare. La loro mancanza priva la coppia della forza vitale (anche caotica e impegnativa) di cui sono portatori.
Occorre però, anche quando ci sono, impegnarsi a intrecciare, tessere, le risorse vitali sollecitate dai figli con la storia e personalità di sé in quanto genitori, e con i contenuti affettivi della relazione tra di coppia. Altrimenti c’è il rischio che anche i figli si riducano a ospiti di un albergo, risvegliato dalla loro presenza e silenzioso e indifferente dopo la loro partenza. Perché ciò non accada, occorre che la relazione con loro sia ispirata, più che dall’ansiosa iperattività (oggi così comune) su cosa essi debbano fare, da una tranquilla ed intima attenzione su cosa i figli provino, su come si trasformino crescendo, e su come gli stessi genitori cambino e crescano con loro. Solo così potremo intrecciare la loro storia alla nostra, e continuarla quando se ne saranno andati.
Per questo, però, occorre costantemente riconoscere le comunicazioni di sentimento all’interno della famiglia, e della coppia. Nella maggior parte dei casi, insomma, l’assenza di amore tra i due è sintomo di una loro preesistente difficoltà nel rapporto coi sentimenti, sia verso l’altro della coppia, che verso se stessi, e gli altri.
Più che assenza d’amore, all’origine del fenomeno c’è la perdita (o la mancata conoscenza) di un linguaggio, e del suo vocabolario: quello dei sentimenti.