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Il diritto alla differenza

di Alain de Benoist - 19/09/2011

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Il dibattito sull’immigrazione pone in modo acuto i problemi del diritto alla differenza, dell’avvenire del modo di vita comunitario, della diversità delle culture umane e del pluralismo sociale e politico. Problemi di questa importanza non possono essere trattati con slogans sommari o risposte preconcette. “Smettiamola dunque”, scrive Alain Touraine, “di opporre esclusione e integrazione. La prima è assurda quanto scandalosa, ma la seconda ha assunto due forme che bisogna distinguere e di cui bisogna almeno ricercare la complementarità. Parlare di integrazione solo per dire ai nuovi venuti che debbono prendere posto nella società così com’era prima del loro arrivo, è più vicino all’esclusione che a una vera integrazione” 1.
La tendenza comunitarista si era affermata all’inizio degli anni Ottanta, in collegamento con proposizioni ideologiche in verità abbastanza confuse sulla nozione di società “multiculturale”. In seguito è sembrata cedere sotto l’effetto delle critiche sollevate contro di essa in nome dell’individualismo liberale o dell’universalismo “repubblicano”: abbandono relativo della tematica della differenza, giudicata ormai “pericolosa”, denuncia di comunità invariabilmente presentate come “ghetti” o “prigioni”, valorizzazione delle problematiche individuali a scapito di quelle dei gruppi, ritorno a una forma di antirazzismo puramente ugualitario, eccetera. In questo senso, ha ugualmente pesato la logica del capitalismo che, per estendersi, ha bisogno di far sparire le strutture sociali organiche e le mentalità tradizionali. Accusato di essere talvolta caduto nel “differenzialismo” 2, Harlem Désir si vantava recentemente di aver “promosso la condivisione di valori comuni e non il tribalismo identitario, l’integrazione repubblicana intorno a principi universali e non la costituzione di lobbies comunitarie” 3.
Tutta la critica del modo di vita comunitario è in effetti riconducibile alla credenza secondo la quale la differenza sarebbe un ostacolo alla comprensione interumana e, dunque, all’integrazione. La conclusione che logicamente se ne deduce è che l’integrazione sarà facilitata dalla soppressione delle comunità e dall’erosione delle differenze. I due presupposti di base sono i seguenti: 1) più gli individui che compongono una società sono “uguali”, più si “raccolgono”, e meno la loro integrazione sarà problematica; 2) la xenofobia e il razzismo sono il risultato della paura dell’Altro. Far sparire l’alterità, o persuadere ciascuno che è poca cosa rispetto allo Stesso, provocherà la loro attenuazione, se non addirittura la loro scomparsa.
Questi due presupposti sono erronei. Probabilmente, nel passato, il razzismo ha potuto funzionare come ideologia di legittimazione di un complesso, ad esempio coloniale, di dominio e sfruttamento. Nelle società moderne, appare piuttosto come un prodotto patologico dell’ideale ugualitario, ossia come una via d’uscita obbligata (il “solo modo di distinguersi”) in una società che, acquisita alle idee ugualitarie, avverte ogni differenza come insopportabile o fuori della norma. “Il discorso antirazzista”, scrive a questo proposito Jean-Pierre Dupuy, “considera evidente che il disprezzo razzista per l’altro va di pari passo con un’organizzazione sociale che gerarchizza gli esseri in funzione di un criterio di valore… [Ora,] questi presupposti sono esattamente contrari a ciò che ci insegna lo studio comparativo delle società umane e della loro storia. L’ambiente più favorevole al reciproco riconoscimento non è quello che obbedisce al principio di uguaglianza, ma quello che obbedisce al principio di gerarchia. Questa tesi, illustrata in molteplici modi dai lavori di Louis Dumont, può essere compresa solo alla condizione preliminare di non confondere gerarchia e ineguaglianza, ma al contrario di opporle… In una vera società gerarchica,… l’elemento gerarchicamente superiore non domina gli elementi inferiori, è differente da essi nel senso in cui il tutto ingloba le parti, o nel senso in cui una parte ha la precedenza su un’altra nella costituzione e nella coerenza interna del tutto” 4.
Jean-Pierre Dupuy mostra, allo stesso modo, che la xenofobia non è definita soltanto dalla paura dell’Altro, ma forse ancor di più dalla paura dello Stesso. ”Ciò di cui gli uomini hanno paura”, scrive, “è l’indifferenziazione, e questo perché l’indifferenziazione è sempre il segno e il prodotto della disintegrazione sociale! Perché? Perché l’unità del tutto presuppone la sua differenziazione, ossia la sua messa in forma gerarchica. L’uguaglianza, negatrice per principio delle differenze, è causa del reciproco timore. Gli uomini hanno paura dello Stesso, qui è la fonte del loro razzismo” 5.
La paura dello Stesso suscita rivalità mimetiche senza fine, e nelle società moderne è proprio l’egualitarismo a costituire il motore di queste rivalità in cui ciascuno cerca di divenire “più uguale” degli altri. Ma al contempo, la paura dell’Altro si aggiunge alla paura dello Stesso, producendo giochi di specchio all’infinito. Si può così dire che gli xenofobi sono allergici tanto all’identità altra degli immigrati (alterità reale o fantasticata) quanto a ciò che, al contrario, c’è in essi di non differente e che appare loro come una potenziale minaccia di indifferenziazione. L’immigrato, in atri termini, è giudicato minaccioso al contempo come assimilabile e come non assimilabile. L’Altro diventa allora un pericolo in quanto portatore dello Stesso, mentre lo Stesso è un pericolo in quanto sollecita il riconoscimento dell’Altro. E questo gioco di specchi funziona tanto più in quanto la società è essa stessa atomizzata, composta di individui sempre più isolati e, dunque, sempre più vulnerabili a tutti i condizionamenti.
Si comprende meglio, quindi, il fallimento di un “antirazzismo” che, nel migliore dei casi, accetta l’Altro solo per ricondurlo allo Stesso. Più erode le differenze nella speranza di facilitare l’integrazione, più in realtà la rende impossibile. Più crede di lottare contro l’esclusione, volendo trasformare gli immigrati in individui sradicati “come gli altri”, più contribuisce all’avvento di una società in cui la rivalità mimetica sfocia nell’esclusione e nella disumanizzazione generalizzate. Alla fin fine, più crede di fare opera di “antirazzismo”, più si avvicina, al punto di non distinguersene più, a un razzismo classicamente definito come negazione o svalutazione radicale di un’identità di gruppo che ha da sempre opposto un’unica norma obbligatoria, giudicata esplicitamente o no “superiore” (e superiore perché “universale”) a modi di vita differenziati la cui esistenza gli sembrava incongrua o detestabile.
Questo antirazzismo, universalista e ugualitario (“individuo-universalista”), prolunga una tendenza secolare che, nelle forme più diverse, e in nome degli imperativi più contraddittori (propagazione della “vera fede”, “superiorità” della razza bianca, esportazione mondiale dei miti del “progresso” e dello “sviluppo”), non ha cessato di praticare la conversione cercando di ridurre ovunque la diversità, ossia, precisamente, riconducendo l’Altro allo Stesso. “In Occidente”, osserva l’etnopsichiatra Tobie Nathan, “l’Altro non esiste più nei nostri schemi culturali. Noi non consideriamo più il rapporto con l’Altro che da un punto di vista morale, ossia non soltanto in modo inefficace, ma altresì senza darci i mezzi per comprendere. La condizione del nostro sistema d’educazione è che pensiamo che tutti sono simili… Dirsi: ‘Devo rispettare l’altro’ non ha senso. Nelle relazioni quotidiane, questo genere di frase non ha alcun senso se non possiamo integrare nei nostri schemi il fatto che la natura, la funzione dell’Altro è appunto di essere Altro… La Francia è il paese più folle al riguardo… La struttura del potere in Francia sembra incapace di integrare persino quelle piccole fluttuazioni che sono le lingue regionali. Ora, è a partire da questa concezione del potere che si è costruita la teoria umanista, fino alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”. E conclude: “L’immigrazione è il vero problema di fondo della nostra società che non sa pensare le differenza” 6.
È dunque tempo di riconoscere l’Altro e di ricordare che il diritto alla differenza è un principio che, in quanto tale, non vale che per la sua generalità (si è autorizzati a difendere la propria differenza solo nella misura in cui si riconosce, rispetta e difende anche quella altrui), e che prende anch’esso posto nel più generale quadro del diritto dei popoli e delle etnie: diritto all’identità e all’esistenza collettive, diritto alla lingua, alla cultura, al territorio e all’autodeterminazione, diritto di vivere e lavorare nel proprio paese, diritto alle risorse naturali e alla protezione del mercato, ecc.
L’atteggiamento positivo sarà allora, per riprendere i termini di Roland Breton, “quello che, partendo dal riconoscimento totale del diritto alla differenza, ammette il pluralismo come un fatto non soltanto antico, durevole e permanente, ma anche positivo, fecondo ed auspicabile. È quello che volge risolutamente le spalle ai progetti totalitari di uniformazione dell’umanità e della società, e che nell’individuo differente non vede né un deviante da punire, né un malato da guarire, né un anormale da aiutare, ma un altro se stesso, semplicemente dotato di un insieme di tratti fisici o di abitudini culturali generatori di una sensibilità, di gusti e aspirazioni propri. Su scala planetaria, vuol dire ammettere, dopo il consolidamento di alcune sovranità egemoniche, la moltiplicazione delle indipendenze, ma anche delle interdipendenze. Su scala regionale, vuol dire riconoscere, di fronte ai centralismi, i processi di autonomia, di organizzazione autocentrata, di autogestione… Il diritto alla differenza presuppone il reciproco rispetto di gruppi e comunità e l’esaltazione dei valori di ciascuno… Dire ‘viva la differenza’ non implica alcuna idea di superiorità, dominio o disprezzo: l’affermazione di sé non deve crescere attraverso l’abbassamento dell’altro. Il riconoscimento dell’identità di un’etnia non può portar via alle altre che ciò che hanno indebitamente accaparrato” 7.
L’affermazione della differenza è il solo modo per sfuggire a un duplice errore: quello, diffuso a sinistra, consistente nel credere che la “fraternità umana” si realizzerà sulle rovine delle differenze, l’erosione delle culture e l’omogeneizzazione delle comunità, e quello, diffuso a destra, consistente nel credere che si farà “rinascere la nazione” inculcando ai suoi membri un atteggiamento di rifiuto di fronte agli altri.


Note

1“Vraie et fausse intégration”, in Le Monde, 29 gennaio 1992.
2“La timidité ne paie jamais”, in Le Nouvel Observateur, 26 marzo 1992, pag. 15.
3Sulla critica del “neorazzismo differenzialista”, fondata sull’idea che “l’argomentazione razzista si è spostata dalla razza alla cultura”, cfr. in particolare Pierre-André Taguieff, La force du préjugé. Essai sur le racisme et ses doubles, Découverte 1988 e Gallimard 1990 [ed. it. La forza del pregiudizio, Il Mulino, Bologna 1994]. Questa critica riposa, a nostro avviso, su un doppio sofisma. Da una parte, il diritto alla differenza, quando è posto come principio, conduce necessariamente a difendere anche la differenza degli altri; e dunque non potrebbe legittimare l’affermazione incondizionata di una singolarità assoluta (non c’è differenza che in rapporto a ciò da cui si differisce). Dall’altra parte, le differenze culturali e le differenze razziali, non essendo dello stesso ordine, non possono essere strumentalizzate allo stesso modo: questo equivarrebbe paradossalmente a porre natura e cultura come equivalenti. Per una discussione su questo tema, cfr. Alain de Benoist, André Béjin e Pierre-André Taguieff, Razzismo e antirazzismo, La Roccia di Erec, Firenze 1992.
4“La science? Un piège pour les antiracistes!”, in Le Nouvel Observateur, 26 marzo 1992, pag. 20.
5Ibidem, pag. 21.
6L’Autre Journal, ottobre 1992, pag. 41.
7Les Ethnies, PUF 1992, pagg. 114-115.