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È così che siamo diventati?

di Francesco Lamendola - 22/09/2011





Le ultime vicende giudiziarie relative al cosiddetto “caso Tarantini”, ovvero al presunto ricatto che sarebbe stato ordito nei confronti del premier Berlusconi, a base di prostituzione di lusso, per estorcere favori, agevolazioni, entrature nelle grandi imprese statali, gettano una luce significativa sulla mutazione antropologica avvenuta in Italia negli ultimi anni.
Lasciamo da parte gli aspetti specificamente giudiziari dell’inchiesta, con tutta la loro rilevanza penale; e lasciamo da parte anche, per il momento, sia l’aspetto politico che quello morale: limitiamoci ad una riflessione sullo spaccato antropologico che emerge da quest’ultimo scandalo e, in particolare, dai personaggi che ne sono al centro.
Tarantini è un tipico figlio del nostro tempo, della cultura del “tutto e subito”, dell’edonismo e dell’utilitarismo rampanti: per lui la vita è una corsa al supermercato delle occasioni e ogni circostanza è buona per piazzare la botta giusta, per sfruttare il momento favorevole, con qualsiasi mezzo, senza scrupoli di sorta e senza badare ad altro che al risultato: il fine giustifica i mezzi, un Machiavelli in sedicesimo uscito dalla “Bari da bere” e animato da ambizioni immense, sproporzionate sia ai suoi mezzi che alle sue capacità.
E allora? Nessun problema, dove non si può arrivare per le vie normali si passa alle scorciatoie; si conquista l’amicizia di un potente sfruttandone le debolezze, gli si riempie la casa di belle ragazze facili e così si entra nel giro utile, si fanno conoscenze importanti, si ottengono fili diretti con pezzi grossi e gente che conta nel mondo degli affari. Perché fare la gavetta come un fesso qualunque, quando si può arrivare al traguardo in un tempo dieci volte più veloce, solo che si sappia pigiare sul pedale dell’acceleratore?
E così Tarantini entra in familiarità con Lavitola, il faccendiere che ha le mani in pasta dappertutto e che si vanta a sua volta, né - sembra - ingiustificatamente, di possedere un rapporto privilegiato con il Cavaliere. Poco importa che Lavitola sia un volpone molto più astuto, che riesce sempre a cadere in piedi e che anche in questa circostanza, abbia evitato di misura il rendez-vous con le autorità inquirenti, trattenendosi all’estero in attesa che il polverone si plachi, come è già successo cento, mille altre volte nel Bel Paese dove tutto viene dimenticato in fretta e dove ogni sorta di reati finisce per andare in prescrizione.
Poco importa, anche, che Lavitola si porti a letto la moglie dello stesso Tarantini - le donne,  in tutta questa vicenda, così come in diverse altre analoghe, non superano mai il livello di semplici strumenti del piacere maschile o, al massimo, di ruffiane ben stipendiate al servizio dei signorotti di turno; del resto, Tarantini a sua volta riempie la moglie di corna, portandosi a letto una gran quantità di amiche di lei: quelle stesse che introduceva tanto volonterosamente nell’entourage presidenziale e negli allegri festini di Palazzo Grazioli.
Qualunque cosa, pur di arrivare alla meta: e la meta sono i soldi facili, i soldi a palate con gli appalti nelle grandi opere pubbliche, ad esempio nella protezione civile: al punto che, quando si verifica il terremoto in Abruzzo, Tarantini al telefono non si fa scrupolo di definirlo una autentica fortuna, perché adesso ci sarà spazio anche per lui nelle opere di ricostruzione, magari con l’amicizia di Bertolaso, l’uomo-chiave della Protezione civile; amicizia che viene sollecitata tramite il solito Berlusconi, con quel fare insinuante che, appunto, spetterà ai magistrati se qualificare come ricatto oppure come semplice cialtroneria e sciacallaggio.
In Italia ci sono i nuovi poveri,  ci sono le vittime del terremoto, ci sono quelli che non ce la fanno a vivere con 1.000 euro di stipendio o con 300 euro di pensione; ma Tarantini si ritiene chiamato dal destino a grandi cose, anzi ad un altissimo tenore di vita, non si sa bene in virtù di quali meriti; e sua moglie non è meno avida di lui: si lamenta che, da avvocato, guadagna appena 2.000 euro al mese e non esita a batter cassa dal Cavaliere, affinché gli sganci qualche migliaio di euro con cui portare le bambine in vacanza, a Cortina d’Ampezzo si capisce, ossia in una delle località turistiche più care d’Europa: ma si sa, loro non son mica gente qualunque, non sono mica dei pezzenti che possano contentarsi di una pensioncina a tre stelle su una spiaggia qualunque o in una vallata alpina senza fama e senza vip.
E Berlusconi, che è un uomo buono e sempre pronto ad aiutare i bisognosi, colui che già aveva aiutato la povera Ruby che gli aveva presentato la propria tragica situazione esistenziale, subito si commuove per laltrettanto tragica povertà della famiglia Tarantini ed apre generosamente il portafoglio, allungando al baldo marito e alla vispa mogliettina con due creature a carico fasci di banconote nuove di zecca, uno sopra l’altro.
La domanda che ci dovremmo fare, a questo punto, dopo tanti e tanti casi Tarantini - cambiano i nomi, ma le dinamiche sono più o meno le stesse e anche lo squallore è più o meno sempre lo stesso: siamo davvero diventati così, noi Italiani?
 Siamo diventati così cinici, così avidi, così smisuratamente ambiziosi, disposti a qualunque bassezza, anche ad offrire al satrapo di turno le nostre mogli, le nostre amanti e le nostre amiche: a fare qualunque cosa, ma proprio qualunque cosa, pur di dare il via all’arrampicata sociale, alla scalata verso il successo; pur di guadagnare - ma è lecito usare il verbo guadagnare? - tanti bei soldi, tantissimi soldi, senza lavorare, senza aver fatto niente, solo vezzeggiando e incoraggiando i vizi dei potenti, senza disdegnare l’arma del ricatto, esplicito o implicito, qualora i nostri favori non vengano adeguatamente riconosciuti, nonché prontamente ricompensati?
La signora Tarantini è in libertà provvisoria perché, a parere del giudice, ella deve accudire le sue due bambine: benissimo; ma quante donne qualsiasi sono e restano in carcere, figli o non figli; donne che, magari, si sono messe nei guai con la giustizia per assicurare ai loro bambini un minimo di sopravivenza e non per garantire loro le vacanze a Cortina d’Ampezzo, dove i prezzi degli alberghi e degli appartamenti per turisti sono tali da ingoiare in pochi giorni lo stipendio mensile di un onesto lavoratore?
Senza cadere nel facile moralismo, è evidente che qui c’è qualcosa che non quadra: certo che i bambini hanno bisogno della loro mamma, questo vale per tutti i bambini del mondo; ma chi ha sbagliato non è forse giusto che paghi e che paghi fin da subito, senza sconti, se il reato commesso non nasce dalla disperata necessità di soddisfare i bisogni primari dell’esistenza, ma da pura e semplice avidità, da insaziabile ingordigia?
Siamo forse diventati così, noi Italiani: miserabilmente avidi, meschinamente arrivisti, pronti a prostituirci e a far prostituire le persone a noi più care, pur di arrivare al denaro facile e alle posizioni che contano, pur di sfondare nell’alta società, di sfoggiare lo yacht e l’aereo privato, pur di dare le feste nella villa con piscina?
È questo che siamo diventati: uomini e donne senza più dignità, senza più onore, senza alcun senso della famiglia (della quale ci ricordiamo solo per farcene scudo nei momenti critici); persone viziate e superficiali, che badano solo a far colpo sugli altri, ad apparire ricche e potenti, a sfoggiare abiti di lusso e gioielli costosissimi?
Eppure i nostri padri e le nostre madri, i nostri nonni non erano così. C’erano, si capisce, e ci sono sempre sati, anche i cialtroni: ma erano una piccola minoranza e, in ogni caso, tutte le persone oneste li disprezzavano, li tenevano lontani, non avrebbero dato loro confidenza per tutto l’oro del mondo. I nostri genitori e i nostri nonni ci hanno insegnato quasi sempre l’onestà, la laboriosità, la sobrietà; e anche quando riuscivano a fare i soldi, a forza di sacrifici e di lavoro, quasi mai si montavamo la testa, conservavano le abitudini semplici di prima, di quando erano uomini e donne comuni, dei lavoratori come tanti altri.
Come siamo caduti in basso.
Non abbiamo più rispetto per noi stessi; non ci vogliamo più bene nel profondo, ma solo in superficie: inseguiamo il possesso delle cose per mettere a tacere la vergogna, la frustrazione, il sentimento della nostra pochezza o della nostra nullità.
Abbiamo adorato il Vitello d’Oro del denaro e ora stiamo raccogliendo i frutti: c’è una logica in tutto questo, una consequenzialità, perfino una giustizia, nel senso più ampio del termine: l’albero si riconosce dai frutti e nessun frutto cattivo può nascere dall’albero buono; se i frutti sono cattivi, anzi pessimi, si vede che l’albero era malato, godeva di buona salute solo in apparenza, ma - in realtà - le sue radici erano corrose e marce.
Siamo arrivati a questa degradazione un po’ alla volta, per gradi, insensibilmente, diremmo quasi dolcemente: sicché non abbiamo avuto modo di contemplare la nostra bruttezza, né di scandalizzarci e inorridire per la nostra metamorfosi.
Abbiamo trovato normale, un po’ alla volta, ciò che normale non era: una serie di comportamenti quotidiani, di piccole abitudini, di minuscole infedeltà verso noi stessi, di impercettibili tradimenti verso la nostra parte migliore e più vera.
Siamo diventati altro da ciò che eravamo quasi senza rendercene conto, magari conservando l’illusione che poco o niente fosse cambiato, così da tacitare la nostra coscienza inquieta e da poterci contemplare in uno specchio deformante, che ci restituisse un’immagine truccata di noi stessi.
Bella furbizia: una furbizia da quattro soldi, che ci si ritorce contro; come sarebbe quella del malato che sputi di nascosto le medicine e che si creda furbo, solo perché è riuscito a fare fessi quanti si prendono cura della sua salute.
Sì, forse è stato soprattutto questo a fregarci: l’eccesso di furbizia, di machiavellismo spicciolo, di misera astuzia da cialtroni.
E adesso siamo ridotti in cocci.
Il sistema Italia fa acqua da tutte le parte, è ormai come una nave alla deriva, senza pilota né ufficiale di rotta; l’equipaggio pensa solo ad accaparrarsi le scialuppe di salvataggio, senza nemmeno aver lottato seriamente per mantenerla a galla; e i passeggeri, terrorizzati e abbandonati a se stessi, altro non sanno fare che correre gridando avanti e indietro, mettendosi le mani nei capelli, lanciando imprecazioni e bestemmie; mentre una parte di essi appare rassegnata al destino e un’altra parte ancora continua a sgomitare per assicurarsi i posti migliori nel salone delle feste, mentre già le onde stanno lambendo il ponte.
È una nave di pazzi: la medievale nave dei folli, rappresentata in tante incisioni e pitture, simbolo di tutto quanto è assurdo, grottesco ed incosciente nella dimensione umana.
Solo che questa volta non è un’allegoria, non è un monito più o meno generico: è la realtà di questi nostri anni, di questi nostri giorni; stiamo andando a fondo.
A questo punto, domandarsi se un improvviso ravvedimento dei responsabili, se un ritorno di coraggio e di speranza nei comuni cittadini potrebbero ancora salvarci, benché alla tredicesima ora, sembrerebbe un puro esercizio di retorica o, peggio, un facile concessione alla moda del lieto fine, come usa immancabilmente in ogni telenovela che si rispetti.
Eppure…
Eppure, forse c’è davvero ancora un filo di speranza; forse possiamo realmente ancora farcela, contro tutte le più fosche previsioni.
Dobbiamo solo ritrovare la fierezza e la serietà dei nostri genitori e dei nostri nonni; dobbiamo solo tirar fuori la nostra parte migliore, le energie che possediamo ma non abbiamo utilizzati sino in fondo o che non abbiamo utilizzato affatto, sedotti dal miraggio disonesto delle scorciatoie, delle scalate facili al facile benessere.
Dobbiamo rimboccarci le maniche e ritornare in noi stessi, dopo la grande ubriacatura consumista; e ricordarci la semplice verità che solo il lavoro, il sacrificio, la tenacia, la pazienza, il risparmio, sono il mezzo per raggiungere dei risultati utili e durevoli.
Che non saranno, forse, la ricchezza da film pubblicitario, con lo yacht privato e l’aereo personale; e nemmeno, probabilmente, la villa con piscina: ma una coscienza netta, la possibilità di guardarsi allo specchio senza arrossire e una preziosa eredità da lasciare ai nostri figli: non quella del denaro, ma della serietà, dell’onestà e dello spirito di sacrificio.
È troppo poco?
Allora vuol dire che meritiamo di andare a fondo, senza remissione.
Delle due, l’una: o rinsavire, o affondare; perché la salvezza è di chi se la merita.