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La modernità ha credato il mito dell'esordio

di Franco Cassano - 26/09/2011

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Ogni inizio è una porta che varchiamo, ma ora c´è una perpetua coazione al nuovo
Cosa significa debuttare, nella vita o nelle piccole cose? Il sociologo spiega come oggi l'esperienza nuova sia un obbligo

La prima volta è sempre un esordio. Esordire però non vuol dire, come vorrebbe l´etimologia, ex-ordiri, disegnare in anticipo l´ordito, ma al contrario ex ord(ine)ire, uscire dall´ordine, tuffarsi in un mondo che non si conosce per esperienza diretta, ma solo per sentito dire. È una porta che varchiamo da soli, trattenendo il respiro, e che va difesa dalla folla di coloro che, ovviamente per il nostro bene, vorrebbero sostituire la nostra prima volta con l´edizione riveduta e corretta della loro. Nessuno vuole vivere una vita di seconda mano, anche se la maggior parte lo fa. La prima volta, infatti, è la bellezza dell´in-esperienza, l´aver alle spalle poco passato, l´essere ancora così innocenti da poter fare liberamente i nostri errori. Una vita che ha ancora davanti a sé tante prime volte è un libro che abbiamo appena cominciato a leggere: non sappiamo se è bello o brutto, ma non vogliamo che nessuno ce lo racconti in anticipo, anche perché lo stiamo ancora scrivendo. Gli uomini delle ultime volte pensano di sapere tutto, di poter varare consuntivi, ma spesso la saggezza, che ritiene di poter evitare gli errori, non è che la rivalsa di chi è vecchio nei confronti del tempo in cui poteva permettersi il lusso di sbagliare. Tra il tempo del «prima» e quello del «poi» non è solo una differenza di ora, ma di prospettiva. Nessuno storico riuscirà a cancellare la splendida e terribile cecità di chi va incontro al suo avvenire, quella forza misteriosa del presente che gli fa credere di essere interamente nuovo, il primo che non commetterà gli errori che sta già facendo. Poi, quasi sempre a cose fatte, arriva il logos, che pretende di spiegare a tutti che cosa è successo, ma quando incomincia a parlare il pubblico si è diradato perché la vita è già andata altrove. La spiegazione logica è quasi sempre la versione di chi è arrivato dopo.
Ma la prima volta non è solo l´impulso che spinge in avanti e brucia l´ostacolo, è anche la sua attesa, la vigilia, ovvero il tempo che precede, il lavorio della nostra immaginazione, il suo fantasticare nella penombra e in silenzio su ciò che accadrà, il tempo ricco e prezioso in cui la realtà è ancora solo uno dei tanti possibili che ci aspettano. L´attesa conosce piccole o grandi speranze, possiede quella ricchezza immaginaria che nessun presente, neanche il migliore, sarà mai capace di possedere. Quando finalmente arriva, la prima volta è, infatti, un valico di frontiera, una porta stretta attraverso la quale non è possibile far passare tutto ciò che abbiamo immaginato. Come un doganiere, la realtà trattiene all´ingresso i sogni senza documenti, anche se qualcuno di essi, nascondendosi dietro quelli che sono in regola, riesce clandestinamente a passare. È questa eccedenza del possibile, questa sua ricchezza rispetto alla realtà che fa dell´attesa l´eterno tempo della rivalsa, che ha fatto attendere il regno dei cieli, quello dell´avvenire e, oggi, più modestamente, quando il lotto ha sostituito la lotta, la cinquina su tutte le ruote. Il tempo nostro, quello del tutto e subito, non è riuscito ad impiccare l´attesa e il futuro, ma li ha confinati nel miracolo e nella fortuna (...).
Siamo tutti un po´ come l´oca Martina di Lorenz: c´è un imprinting che fissa le prime immagini che riceviamo e le rende indelebili nel bene e nel male, una corrente che solo l´analisi, quando le ferite sono profonde e rendono difficile la vita, prova a risalire, ben sapendo che si può fallire, che la cura arrivando dopo, fa quel che può.
Ma la prima volta si dà anche quando due idee che pensavi fossero destinate a non incontrarsi, le sorprendi all´improvviso, come amanti clandestini, attraversare abbracciate la tua strada, quando afferri una follia per i capelli, ed essa innesca un´accelerazione del cuore o un corto circuito del cervello, che spezza la giornata e ti chiede di farle il vuoto attorno.
Del resto la prima volta è anche la schiera di coloro che debuttano, quando le opere, individuali o collettive, si buttano nel mondo, precedute da notti insonni di lavoro, dalla paranoia dell´imprevisto, dalla paura dell´errore irrimediabile, dalla lotta tra il desiderio di fuggire e quello di raccogliere tutte le forze per la sfida che viene. Ma è proprio qui, sulla soglia che fa passare dal buio alla luce, che si avverte sulla pelle l´attrito della prima volta: essa significa provarsi, uscire allo scoperto, esporsi al giudizio, agli applausi, alla freddezza, all´ostilità, alla distrazione, ai battimani isolati degli amici.
C´è anche la prima volta dei forti, di quelli che «scoprono» e battezzano terre, come se le avessero create loro, cancellando i nomi che ad esse erano stati dati da chi le abitava da secoli o millenni, fondando nuove città sulle rovine di quelle sconfitte, scrivendo calendari che bruciano tutte le vecchie date.
Altre prime volte sono invece le password segrete di ciò che teniamo nascosto, frasi su diari di adolescenti, date circondate da cuori e punti esclamativi, versi rubati a una poesia o a una canzone e annegati in quello strano delirio che fa sì che un´altra persona all´improvviso inizi a toglierci il fiato, diventando per noi unica ed insostituibile, innescando un´arsura di lei. E poi c´è la prima volta febbrile degli sguardi, la segnaletica complessa dell´intimità con i suoi stop e le sue precedenze, la prima volta del toccarsi e del respirarsi addosso, ma anche, appena dietro l´angolo, la prima volta del malinteso e delle sconfitte, quella dei bruschi risvegli, quando chiamiamo senza risposta e scopriamo che chi era, fino a poco prima, vicino è andato via, e comincia a diventare un ricordo, la prima volta dello scomparire.
Ogni tanto, molto spesso solo per caso, ci accade di ricordarci che al mondo non ci siamo solo noi. E allora, per un attimo, riusciamo a guardarci attorno e rimaniamo storditi e sommersi dallo spettacolo del fiume infinito delle prime volte, dalla loro immensa successione, a partire dalla prima di tutte, dal venire al mondo del mondo. Nessuno del resto può sottrarsi alla prima volta: atomo, molecola, pianeta o stella, albero, cavallo o uomo. Anche la nostra morte sarà per noi la prima, un´ultima volta che porrà fine a tutte le nostre volte. Dopo di noi il lavorio silenzioso di tante altre prime volte continuerà implacabile, il fiume continuerà a scorrere. Eppure, per ogni microscopica singolarità dell´universo, per minuscola e modesta che sia, la prima volta rimane sempre un evento speciale, quella che conta di più e annebbia il peso di tutte le altre (...). È una «bella illusione quella degli anniversari», diceva Leopardi, è la nostra piccola illusione personale, quel frammento di universo tolemaico che, mettendoci al centro, sopravvive in ognuno di noi.
Ma il nostro modo di guardare la prima volta è profondamente cambiato e dipende anche dal nostro mondo sociale. La società tradizionale si appoggiava al valore del sapere tramandato e aveva creato dei meccanismi precisi per neutralizzare l´angoscia della prima volta. Essa combatteva l´incertezza codificando e predisponendo le risposte, disegnando percorsi rituali per evitare che i passaggi aprissero varchi al caos. Con l´avvento della società moderna, le cose sono radicalmente cambiate. La modernità non teme la prima volta, anzi la cerca, affermandosi orgogliosamente come il tempo della discontinuità e della novità. Nella modernità tutto deve sempre ri-cominciare (...).
Il progresso è un cammino in avanti, un formidabile rinnovamento ascendente: andare avanti significa avventurarsi in un territorio dove non ci si era mai spinti, vederlo per la prima volta. Il mondo della perpetua innovazione, il mito fondativo della modernità, non è che una continua e pressante coazione al nuovo, una fabbrica a ciclo continuo di prime volte, una successione di primati, ognuno dei quali divora e cancella quello precedente. Ma proprio perché è diventata un imperativo di sistema, la prima volta nella modernità diventa banale. Certo, essa è sempre l´inizio di un´inebriante libertà, della rincorsa continua dell´esploratore, dello scienziato e dell´artista, è il mito dell´andare oltre, del superare il limite. Ma è proprio qui, in questa ossessione espansiva, che si addensa il problema, è lì che alligna l´angoscia. Non stiamo pensando agli effetti che la passione dell´andare oltre produce nell´ambiente naturale, ma ad un´insidia interna, molto più sottile, quella della ripetizione. L´ossessione della prima volta spinge a ripetere sempre lo stesso gesto, facendo della prestazione una sorta di dovere nell´oceano della competizione universale. Don Giovanni conquista sempre nuove donne, ma si rivela prigioniero di una coazione a ripetere, finisce in un catalogo. Egli, infatti, ripete in modo ossessivo lo stesso atto e questo suo continuo ricominciare gli fa dimenticare il passato. La condanna ad una perpetua innovazione è una forma di ripetizione, una professione: se ci si pensa bene Don Giovanni è molto più ripetitivo delle sue amanti, per le quali cedere al grande seduttore mantiene invece il sapore dell´avventura e della prima volta.
La prima volta è molto più vera quando non figura nel programma.