Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L’abito è un’estensione della pelle che cela ed esibisce il corpo al tempo stesso

L’abito è un’estensione della pelle che cela ed esibisce il corpo al tempo stesso

di Francesco Lamendola - 27/09/2011



Il vestito, certamente, serve a coprire il corpo; almeno nella società occidentale e specialmente in quella moderna.
D’altra parte, una volta abbandonata la nudità come condizione naturale, il vestito è anche l’elemento che permette di evidenziare il corpo, le sue forme; di accentuare, insieme al trucco, alcune sue parti.
Così come lo smalto e la pittura sulle unghie servono a richiamare l’attenzione sulle dita delle mani e dei piedi, allo stesso modo una gonna molto corta, o con un profondo spacco, serve a richiamare l’attenzione sulle gambe, o una generosa scollatura del vestito serve a richiamare l’attenzione in prossimità del seno.
La funzione dell’abito, pertanto, è duplice: celare ed esaltare; e, per sua stessa natura, lo statuto ontologico dell’abbigliamento è più che ambiguo, addirittura bifronte, nel senso che svolge simultaneamente due funzioni diametralmente opposte.
Molto si è detto e molto si è arzigogolato a proposito dell’innocenza della nudità presso i popoli nativi, ovviamente quelli che la praticavano per ragioni climatiche; e, naturalmente, molto si è detto e molto si è pontificato a proposito dell’atteggiamento repressivo adottato verso di essa dai colonizzatori europei e, in particolare, dai missionari cristiani e specialmente cattolici (ma anche quelli protestanti non scherzavano quanto a pruderie moralistica, valga per tutti il caso dei pastori riformati nelle Isole Hawaii durante il XIX secolo).
Si è anche voluto tirare in ballo il racconto veterotestamentario del peccato originale e la scoperta improvvisa, da parte di Adamo ed Eva, della propria nudità, con il relativo senso di vergogna e il loro frettoloso coprirsi, tanto da spingere alcuni antropologi in vena di filosofeggiare, o meglio di teologizzare, a supporre che il “vero” peccato originale non sia stato quello di voler diventare simili a Dio, mediante l’acquisizione della conoscenza del Bene e del Male, ma quello di natura sessuale, a dispetto del fatto che Dio avesse creato Eva precisamente come compagna di Adamo e non solo per fargli da amica o da sorella.
La verità è che di simili cose poco o nulla possiamo onestamente affermare, per la semplicissima ragione che nessun documento attendibile ci permetterà mai di sapere quel che pensassero, della propria nudità, i nostri antichissimi progenitori, né quel che ne pensavano le culture tribali prima di venire a contatto con la civiltà occidentale moderna, perché tutto ciò che sappiamo in proposito risale a tempi alquanto successivi; oppure, nel caso dei popoli tradizionali, appartiene ad una fase storica in cui era impossibile separare ciò che era proprio delle culture originarie dagli apporti e dagli influssi dei navigatori, degli esploratori, dei commercianti bianchi, per non parlare dei conquistatori, dei colonizzatori e, ovviamente, anche dei preti cristiani, desiderosi di convertite nuove anime.
Pertanto la percezione del corpo naturale, così come doveva o poteva essere prima dell’introduzione dell’abbigliamento, non può essere che oggetto di congetture più o meno fondate, più o meno ragionevoli; non di autentica conoscenza e meno ancora di effettiva e concreta esperienza; in questo senso, le varie forme di nudismo e naturismo non sono affatto un ritorno all’innocenza originaria, ma una scelta deliberata da parte di una cultura, come la nostra, che, fin dove giunge la nostra memoria storica, non l’ha mai conosciuta oppure, se l’ha conosciuta, ne ha irrimediabilmente perduto il ricordo, insieme alle modalità culturali attraverso le quali l’aveva elaborata.
Ha scritto Ugo Volli nel suo libro «Contro la moda» (Milano, Feltrinelli, 1988, pp. 40-43):

«… Il contenuto di tutto l’abbigliamento, anche di quello più apparentemente pudico, è doppio, AMBIVALENTE. In pratica, si tratta sempre di esibire e celare il corpo allo stesso tempo, insomma di soddisfare (René König, “Il potere della moda”, Napoli, Liguori, 1976, , p. 52 “due esigenze diametralmente opposte: da una parte adornarsi, farsi notare, dall’altra coprirsi,  passare inosservati. Il vestito cerca dunque  di conciliare due tendenze inconciliabili, valorizzare il nostro fisico e proteggere il nostro pudore. Sul piano sessuale, tuttavia, queste due tendenze si basano sullo stesso desiderio istintivo, accettato nel primo caso,  respinto nel secondo”.
Che anche o soprattutto abiti monacali possano suscitare attrazione erotica lo sanno da sempre pornografi e spogliarelliste; e però la maggior parte dei vestiti che storicamente sono stati popolari ha forme sessuali molto più esplicite, tanto da consentirne non solo una ricca interpretazione psicanalitica, ma anche facili accostamento ai segnali di riconoscimento sessuale che l’etologia ha riconosciuto nelle diverse specie animali.  È importante rendersi conto che tale ambivalenza del pudore, motivata quanto si vuole da ragioni psicanalitiche o etologiche, funziona però secondo una modalità linguistica, anzi retorica. IL PUDORE È LA FIGURA RETORICA DELLA PRETERIZIONE APPLICATA ALL’ABBIGLIAMENTO. Annunciando il suo silenzio, MOSTRANDO cioè di coprire ciò che copre, inevitabilmente lo sottolinea. Ci può essere naturalmente il pudore ingenuo come quello malizioso: non è questo che conta, ma l’effetto di senso che comunque vi soggiace.
“Il Cristianesimo sosteneva la rigorosa opposizione fra corpo e anima, e insegnava che un’eccessiva attenzione al corpo  pregiudicava la salvezza dell’anima. Uno dei modi più facili per sviare l’attenzione dal corpo era quello di nasconderlo, e di conseguenza qualunque tendenza a mostrare il corpo nudo divenne segno di immodestia. Ma l’aumento del numero e della complessità degli indumenti, causato da questa tendenza, creava le premesse per un nuovo sfogo degli impulsi esibizionistici repressi. L‘interesse per il corpo nudo in certa misura si spostò sugli abiti, cosicché si rese necessario un nuovo sforzo per combattere la nuova manifestazione delle tendenze cui la modestia si opponeva; e così avvenne che la disapprovazione da parte delle autorità ecclesiastiche per la stravaganza e il lusso dell’abbigliamento fu espressa tanto vigorosamente quanto la disapprovazione per il culto del corpo. Non bisogna attribuire un’eccessiva influenza alle critiche morali della chiesa , che probabilmente non erano più efficaci dei sermoni su altri argomenti. Quali che siano le cause, comunque, è chiaro che nella storia dell’abbigliamento europeo ci sono state successive ondate di pudore che condannavano ciò che le precedenti generazioni avevano tollerato, sia in relazione all’esposizione del corpo,  sia alla ricercatezza dell’abbigliamento” (John Carl Flügel, “Psicologia dell’abbigliamento”, Milano, Franco Angeli, 1986, pp. 70-71).
“Estensione della pelle”, ha definito il vestito Marshall McLuhan (“Gli strumenti del comunicare”, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 129), VERA E PROPRIA PROTESI, che può essere oggetto dello stesso tipo di passione che desta la nudità, moltiplicata per una serie di spostamenti metaforici e metonimici di cui il feticismo è campione, e lo spogliarello un esercizio sapiente. Proprio per questa ragione non è possibile de-erotizzare l’abbigliamento: ogni copertura è l’inverso di uno svelamento, ogni atto di nascondere suppone la possibilità di scoprire, ogni cosa che cela è pericolosamente in contatto con ciò che è coperto e contagiato da esso, reso partecipe per metonimia della sua sessualità.  Se hanno ragione gli antropologi quando dicono che tutta la nostra cultura strumentale è fatta di protesi e estensioni materiali di parti del nostro corpo, realizzati per compiti specifici; e se dunque  il martello è un pugno rafforzato e distaccato, come il cannocchiale è un occhio potenziato, allora l’abito convoglia le proprietà di protezione, ma soprattutto quelle di sensibilità e di seduzione della pelle. […]
Di fatto, una delle costanti nelle oscillazioni della Moda femminile è una sorta di equilibrio: quanto si scopre di sopra si deve nascondere di sotto, quel che si esibisce da dietro  si deve occultare davanti, e viceversa. Non solo il brutto e il bello, dunque, il “giusto” e lo “sbagliato”, ma anche il pudico e l’immodesto, l’osceno e il lecito sono questioni di moda. Ancora una volta, è l’abbigliamento che fa il pudore e non viceversa.»

Ora, se l’abbigliamento è una protesi della pelle e un prolungamento del corpo, va da sé che tale protesi e tale prolungamento esprimeranno il modo di essere fondamentale della cultura di cui sono espressione; e, se tale modo di essere fondamentale è, per la cultura occidentale europea, l’avere, il possesso, il dominio sulle cose, ecco che l’abbigliamento diventerà automaticamente uno strumento finalizzato alla strategia dell’avere, del possesso e del dominio.
Ci si veste, dunque, oppure ci si sveste più o meno parzialmente, tenendo sempre d’occhio non tanto la necessità di coprirsi per ragioni climatiche e nemmeno soltanto per ragioni di pudore, ma anche per catturare l’attenzione altrui, per sedurre, per dominare l’altro, attraverso il gioco di coprire o scoprire, allusivamente e simultaneamente, il proprio corpo; e, una volta adottata questa linea di condotta, si autorizza socialmente tutto ciò che è conforme a una tale strategia, con qualunque mezzo, senza lasciarsi condizionare da alcun genere di considerazioni pratiche, economiche o morali.
Dunque si sfiderà il freddo dell’inverno, per esporre la maggior superficie possibile di pelle nuda; si affronteranno i più duri sacrifici, pur di acquistare e indossare gli abiti giudicati socialmente più carichi di potere seduttivo; e si esibirà, mediante essi, il proprio corpo, in qualunque occasione e circostanza, a qualunque età: che si tratti del corpo di una donna in stato avanzatissimo di gravidanza, oppure quello impubere di una bambinetta, magari per volontà della cara mammina che vorrebbe farne una Lolita; così come, all’opposto, del corpo di una donna decisamente anziana e nondimeno ben decisa a sfruttare ogni possibile strategia per renderlo non solo attraente e desiderabile, ma anche brutalmente provocante.
Davanti a che cosa, ormai, si è disposti a fermarsi, quando si tratti di valorizzare al massimo la nudità e l’erotismo del proprio corpo, allo scopo di costringere gli altri a voltarsi a guardarlo, ad ammirarlo, a fantasticarci sopra in maniera oscena? Perché non è che una tale esibizione suggerisca pensieri casti e rispettosi; e colui o colei che se ne rende protagonista lo sa benissimo; anche se, il più delle volte, spinge la propria ipocrisia fino al punto di voler convincere gli altri, e magari anche se stesso, che lo fa soltanto per il proprio piacere, per una esigenza di libertà, perché semplicemente gli va di fare così, senza secondi fini e senza altre intenzioni…
Questo si chiama scagliare il sasso e nascondere la mano: ed è un modo di fare proprio delle persone poco consapevoli di sé e degli altri, dato che non hanno nemmeno il coraggio e l’onestà per guardarsi dentro sino in fondo; ma che sono solite agire con leggerezza, se non addirittura con incoscienza, guidate unicamente dal proprio narcisismo e dallo sfrenato desiderio di richiamare l’ammirazione del prossimo su di loro.
L’abito, dunque, non è quella cosa innocente che si potrebbe immaginare; e, anche se non tutti sono così maliziosi e scaltriti da utilizzarlo come un’arma di seduzione e da sfruttarne le potenzialità erotiche ad ogni minima occasione, magari simulando distrazione o finta innocenza, non si può nemmeno sottovalutarne le implicazioni sessuali e l’uso spregiudicato che molte persone ne fanno, magari proprio le stesse che, quando hanno raggiunto l’intento di provocare gli altri, si mostrano offese per una presunta indelicatezza degli sguardi o delle parole loro rivolti.
Certo, anche in questo ambito è proprio il caso di dire: «omnia munda mundis», come osserva frate Cristoforo nell’ottavo capitolo de «I promessi sposi»; ma tant’è: da quando i loro progenitori hanno mangiato la mela, gli esseri umani non sono quasi mai del tutto privi di malizia, così come non sono quasi mai del tutto privi d’innocenza; e l’ambiguità dello statuto ontologico del vestito è un riflesso, a ben guardare, dell’ambiguità della stessa natura umana.
Una educazione bene intesa, pertanto, dovrebbe evitare entrambi gi eccessi: sia quello di suggerire ai bambini una percezione negativa e peccaminosa del corpo, insistendo ossessivamente sulla necessità di coprirlo; sia quello di incoraggiarli ad esibirlo continuamente, in maniera impudica e lasciva, come cosa assolutamente naturale e perfino encomiabile.
Invece, si può dire che la società odierna è passata dall’uno all’altro di tali eccessi, quasi senza transizione: basta confrontare quel che veniva insegnato ai bambini solo un paio di generazioni or sono e quello che viene loro insegnato oggi; con quali effetti, è sotto gli occhi di tutti…