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Patrioti armati: il volto "buono" dei guerriglieri

di Michele De Feudis - 28/09/2011



«Amando com'io amo la vita, la poesia e il popolo / come non offrire le mie ossa?»: i versi di Haroldo, un guerrigliero salvadoregno, rivelano la potenza della poesia che, pur relegata ad arte minore nel diluvio digitale dei nostri giorni, conserva intatta la forza mitopoietica di immortalare le motivazioni che spingono un uomo a imbracciare un fucile e a difendere la propria terra. Le guerre di liberazione, l'irredentismo, i conflitti etnici a geometrie variabili non sono scomparsi con l'avvento della società liquida. La progressiva transnazionalizzazione dei poteri istituzionali a danno delle sovranità popolari ha generato come contraltare il riemergere nello spazio pubblico di pulsioni identitarie o localiste. Guerriglieri (Fandango, pp. 431, euro 18) è un mosaico di cinque viaggi "nel mondo in rivolta" - Palestina, Birmania, San Salvador, Afghanistan e Sahara occidentale - assemblato con ritratti pieni di umanità da Jon Lee Anderson, reporter di guerra, firma del New Yorker, testimone con il suo taccuino dei conflitti più roventi nel globo.

C'è un filo rosso che lega le lotte per la Palestina con quelle del popolo Karen, l'attivismo del Fronte Polisario con l'inquietudine irriducibile dei mujaheddin afghani e l'inafferrabilità dei combattenti sandinisti: i gruppi in armi assemblano in un manifesto-icona istanze religiose, territoriali, spirituali, rigenerano il fiume carsico alimentato dai fuochi "volkish" e soprattutto danzano al di là del bene e del male, oltre la ragion di Stato su un intreccio che alimenta il romanticismo guerrafondaio come educazione sentimentale.
«Se ci sono le condizioni giuste, la guerriglia può nascere all'interno di qualunque società. Se le persone si vedono irrimediabilmente private dei loro diritti dal proprio governo, o oppresse nel proprio paese, allora è inevitabile che compaia la violenza»: Anderson, nell'introduzione del volume, fa intendere che non ha un approccio "morale" al tema della guerriglia. Attraverso i suoi occhi è possibile immedesimarsi nelle ansie, nei sogni e nelle paure dei combattenti, senza alcun manicheismo. «Essendo tutti i popoli del mondo pervasi dal senso di identità tribale, culturale e nazionale, l'impulso ad espellere l'intruso rappresenta una reazione intrinsecamente umana - spiega ancora l'autore americano - e niente come una invasione militare da parte di una potenza straniera può scatenare lo spirito di ribellione». Il riferimento del giornalista è all'attualità: «L'occupazione americana dell'Iraq è una sorta di esperimento chimico andato male: tutti gli ingredienti utili a produrre un'insurrezione sono stati messi in pentola». Il cortocircuito è sempre a un passo in questi contesti di guerra.
In Italia certi scenari sembrano distanti ma lo stesso spirito di ribellione di cui parlano i protagonisti del libro di Anderson si ritrova ad esempio nella testimonianza di Paolo Signorelli il quale, durante l'occupazione americana a Roma, era un giovanissimo con il cuore infiammato dalla rabbia per "le urla delle donne stuprate dai marocchini" (componenti il contingente degli occupanti angloamericani). La sua narrazione di quelle giornate nella Capitale può ricordare lo stato d'animo di un "ragazzino dei Territori": «Io qui sono uno dei primi studenti che ha costruito intifade. La prima - rivela Signorelli - l'abbiamo organizzata insieme ad altri coetanei contro gli americani, all'Augusto sulla Tuscolana. Dal montarozzo sopra via Noto tiravamo sassi contro le jeep degli americani. Lì vicino c'era la military policy, c'erano gli sciuscià che gli rimediavano le puttanelle, noi non ci stavamo, avevamo ancora le ferite della seconda guerra mondiale...».
Tornando al libro, Anderson evidenzia anche, nell'epilogo, che i suoi viaggi sono «coincisi con una serie di eventi storici che hanno alterato profondamente il panorama politico mondiale», precisazione che consente di non avvicinarsi al fenomeno dell'irredentismo armato con un sentimentalismo romantico figlio del secolo scorso. Soffiare sul fuoco del fanatismo ideologico o religioso, negli ultimi due decenni, ha generato mostri, ma accanto ai totalitarismi che bussano sempre alla porta della storia restano le ingiustizie. Che Guevara in Scritti, discorsi e diari di guerriglia definiva il guerrigliero «un riformatore sociale, che prende le armi rispondendo alla protesta carica d'ira del popolo contro i suoi oppressori».
L'edizione italiana è arricchita da una preziosa postfazione nella quale l'autore traccia una mappa dei cinque movimenti ribelli descritti nel libro, insieme a un aneddoto sul leader della resistenza afghana, il mullah Omar. A Kandahar il reporter conobbe un capo antitalebano, Naquib, che lo portava per la città su un lussuoso Toyota Land Cruiser, appartenuto al capo dei ribelli pashtun. «Come oltre passammo le macerie di quello che un tempo doveva essere il suo quartiere (...) - scrive Anderson - Naquib prese ad armeggiare coi tasti di un lettore cd istallato nel cruscotto. Non appena una melodia romantica riempì la macchina, Naquib rimase soddisfatto. Gli chiesi se il cd era già nell'automobile quando ne aveva preso possesso. "Sì", rispose. "Quindi", dissi, "mi stai dicendo che lo stesso uomo che ha proibito la musica nel suo paese ama ascoltarla?". Naquib scrollò le spalle e disse: "Così pare". Rimase in silenzio per un po', poi, con sguardo ammiccante disse in tono scherzoso: "D'altronde cos'è la vita senza musica?"».