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Secondo noi l’attacco all’euro non è per la sua debolezza ma per la sua forza potenziale

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi - 03/10/2011

 

 

In una recente intervista, l’ex presidente della Commissione Europea, Jacques Delors, ha affermato che purtroppo gli stati possono ancora farsi guerra, anche se non più come nel ’39-’45. “Oggi  ci si può fare la guerra in altri modi, con l’economia, con la frode fiscale, il dumping sociale, l’immigrazione”, ha precisato.

 

Delors parlava dei rischi sulla tenuta dell’Europa “che è stata un esempio formidabile nel mondo per la capacità di comprendersi”.

 

Dopo gli sconquassi finanziari europei degli ultimi mesi bisognerebbe riflettere a voce alta sui nomi e sugli interessi mobilitati negli assalti contro l’euro.

 

Dall’inizio del 2011 ad oggi le borse europee sono state devastate. Hanno avuto perdite in valori capitalizzati per centinaia di miliardi di euro. Ma a Wall Street stranamente non si è verificata la stessa cosa. Il listino Mib di Milano ha perso quasi il 30%, il Dax tedesco e il Cac francese circa il 20%. Per le banche e per i settori finanziari in media la perdita è stata più secca. Unicredit e BancaIntesa sono emblematici.

 

Wall Street ha inaugurato l’anno con l’indice guida dei listini S&P 500 a quota 1.257 punti, oggi viaggia intorno ai 1.200 punti, cioè con una perdita di circa  4%. Eppure ci sono stati il rischio di default federale, una recessione economica molto forte, una disoccupazione accentuata e la paralisi politica del Congresso americano. Questi sono gli ingredienti che vengono portati dagli analisti di corte come le ragioni di sfiducia sulla solvibilità di un paese che poi determinano i crolli dei valori di borsa e dei titoli di stato.

 

Nel 2011 a differenza dall’Europa la Fed immise 600 miliardi di nuovi dollari per sostenere artificialmente il sistema decotto. Se i mercati fossero stati così “sovrani ed indipendenti” come si autodefiniscono e come alcuni ritengono, avrebbero dovuto sanzionare la borsa americana più duramente di quelle europee.

 

Perché non è successo? E’ una domanda legittima e doverosa.

 

Naturalmente non ci auguriamo che gli Usa siano maltrattati come la Grecia e neanche come l’Italia. Ma si vorrebbe sapere chi e perché applica “due pesi e due misure” rispetto a situazioni di crisi differenti ma molto simili nella loro gravità.

 

Oggi si parla più insistentemente anche di crisi di liquidità delle banche europee. Certo l’effetto dei salassi delle settimane passate non sono stati salutari, anche se tale difficoltà in verità è da tempo avvertita.

 

Sembra che le banche dell’eurozona abbiano da mesi crescenti maggiori difficoltà nel procurarsi sul mercato interbancario americano i dollari necessari per le operazioni internazionali e commerciali dei propri clienti. In altre parole le banche americane mettono in discussione l’affidabilità e la solvibilità delle banche europee esposte sui titoli di paesi in grande stress finanziario come la Grecia e altri Stati europei.

 

Sappiamo infatti che le banche tedesche e francesi hanno titoli ellenici rispettivamente per 45 e 75 miliardi di dollari. Ma che dire della JP Morgan Chase che da sola conta derivati finanziari per un valore nozionale di oltre 81.000 miliardi di dollari?

 

Anche il più sprovveduto operatore la metterebbe in cima alla lista delle “sistemically important financial institutions” a rischio default.

 

In questa luce va letto quindi l’intervento del segretario del Tesoro Usa, Tim Geithner, al vertice dell’Ecofin tenutosi in Polonia quando ha sollecitato l’Europa ad allargare l’Efsf, il fondo salva-stati “usando l’effetto leva per moltiplicarne le dimensioni come fecero nel 2008-9 gli Stati Uniti”. Questo spiega anche la posizione del presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, che ha risposto “di essere in grado di fornire liquidità a tasso fisso su base illimitata”.

 

In altre parole, in assenza di una riforma di sistema finanziario globale la Fed sta pressando la Bce per una politica monetaria di “quantitative easing”, tanto richiesta dalla grande finanza e quanto temuta da chi conosce i rischi di una inflazione manipolata.

 

A simili operazioni si affiancano le perfide agenzie di rating che imperterrite continuano a declassare le banche e gli Stati d’Europa. Ieri usavano dati economici magari manipolati, oggi fanno invece valutazioni politiche sui governi e sulle manovre. Come ha fatto Standard & Poors nei confronti dell’Italia. Quella stessa agenzia che un mese prima che esplodesse il caso Parmalat dava giudizi altamente positivi!

 

Secondo noi l’attacco all’euro non è per la sua debolezza ma per la sua forza potenziale. L’Ue rappresenta la parte tecnologica e industriale più forte dell’economia mondiale con un Pil di circa 10.000 miliardi di euro.

 

Si ricordi che è leader nella produzione di macchine utensili; ha la rete più potente di pmi altamente specializzate e innovative. E’ poi il mercato tecnologicamente più avanzato con quasi 500 milioni di produttori e consumatori.

 

Un euro stabile è anche la moneta indispensabile per creare, insieme ai paesi del Bric, quel paniere di valute necessario per una soluzione multi polare alla crisi monetaria ed economica globale. Il dollaro avrà sempre un ruolo importante in un simile nuovo ordine. Ma non sarà più la sola moneta di riferimento di tutte le operazioni commerciali e finanziarie internazionali.

 

La politica italiana nel suo complesso non sembra tener conto di questi dati e di questi scenari e non vuole, o non riesce a comprendere, il senso dei moniti del presidente della Repubblica che a nostro avviso è il più consapevole del baratro cui ci stiamo avvicinando.