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L’unica sostanza, per Fichte, è l’io di ciascuno: folle miscuglio di solipsismo e panteismo

di Francesco Lamendola - 03/10/2011





L’idealismo di Johann Gottlieb Fichte è stato definito idealismo soggettivo perché, dopo aver sgombrato il campo dal noumeno della filosofia di Kant, ossia dalla “cosa in sé”, vista come un limite al dispiegamento della libertà umana, afferma risolutamente che tutta la realtà, in quanto conosciuta dal soggetto, altro non è che una rappresentazione ovvero un atto dell’io.
Con questa impostazione si avvia a culminare quella caratteristica distorsione del pensiero moderno riguardo al giusto ordine delle cose, che prende le mosse dal “cogito” cartesiano e dall’”io penso” kantiano: non è l’essere che crea il pensiero, ma il pensiero che crea l’essere.
Per Kant, l’”io penso” non è il creatore della realtà, ma solo il suo ordinatore; con Fichte esso diventa la sola realtà esistente, al di fuori della quale non c’è nulla.
Fichte afferma che il principio di ogni cosa è l’Io puro, ossia non l’io empirico (che egli chiama “divisibile”) dei singoli individui, ma l’Io “indivisibile”, universale, che entra nella costituzione di questo e quell’individuo; non è sostanza, nel senso spinoziano del termine, ma attività primordiale, incondizionata, vale a dire auto-attività; proprio come lo sono l’Idea di Hegel e l’Assoluto di Schelling.
L’Io puro, ad essere precisi, non è, ma diviene attraverso l’attività dialettica, che si articola in tre fasi (da non intendersi in senso cronologico): tesi, antitesi, sintesi. Nella prima pone se stesso come io empirico, qualcosa di analogo alla forma o attività trascendentale di Kant; nella seconda pone, insieme a se stesso, anche il non-io, l’oggetto o contenuto del proprio pensiero (la materia di Kant); nella terza l’Io puro prende coscienza, attraverso l’urto del non-io sull’io, del proprio limite e, nello stesso tempo, perpetuamente lo supera, attuando - chi lo sa il perché - un incessante progresso morale.
È questa una versione aggiornata e rivista dell’ideologia del Progresso illimitato di illuministica memoria, con la quale condivide il culto per la Ragione scientifica, senza prendersi, peraltro, la pena di spiegare da quale cilindro di prestigiatore salti fuori, dall’Io puro, il non-io; il fatto, però, che la sintesi sia un processo infinito, ci fa sospettare fortemente che l’Io puro sia una specie di surrogato di Dio, reintrodotto surrettiziamente dalla finestra: un Dio che diviene, ma pur sempre un Dio, perché a Lui solo è riconducibile un progresso che si espande continuamente oltre il proprio limite, infinitamente.
Tutte queste magniloquenti fumisterie vengono da Fichte definite come la forma suprema del conoscere, addirittura come Dottrina della scienza, intendendo che ogni vera filosofia deve orientarsi in tal senso e che nessuna potrebbe spingersi oltre: essa è l’unica filosofia veramente critica, mentre ogni altra viene gratificata dell’appellativo di “dogmatica”.
Fichte, dunque, isola l’«io sono» nel suo atto originario e ne fa la base granitica della propria filosofia, che egli, poco modestamente, chiama tout-court Dottrina della scienza: in essa l’unica sostanza è l’io finito e nient’altro; in questo senso,  come egli stesso dice, la Dottrina della scienza non è altro che uno spinozismo sistematico, ossia un panteismo radicale.
Ma siccome, paradossalmente, se l’io non fosse urtato da qualcosa, in esso non vi sarebbe una coscienza reale, anzi non vi sarebbe nemmeno la sua possibilità di determinarsi e di determinarsi, come afferma il filosofo tedesco, all’infinito (che spirito romantico sarebbe se non facesse appello all’infinito?), ecco allora che entra in campo il concetto di non-io che, urtandolo l’io dall’esterno, lo influenza e ne rende possibile l’infinita determinazione.
Ma da dove viene codesto non-io, visto che l’Io è la sola realtà originaria, la sola realtà assolutamente incondizionata? Strana risposta, quella di Fichte: il non-io viene anch’esso dall’Io, solo che viene dall’Io non ancora cosciente di sé; più o meno come dire: è un Dio che ancora ignora di esserlo.
Pasquale Salvucci nel suo libro «La costruzione dell’idealismo: Fichte» (Urbino, Editrice Quattro Venti di Anna Veronesi, 1984, pp. 137-41), bene ricostruisce il passaggi fondamentali della Dottrina della scienza.
Per seguire il discorso di Fichte, ricordiamo che, in esso, il primo principio fondamentale stabilisce che  l’Io pone se stesso ed è in virtù di questo puro porsi per se stesso; esso è, al tempo stesso, l’agente ed il prodotto dell’azione. Il secondo principio fondamentale afferma che all’io è opposto assolutamente un non-io; la negazione non è intrinseca a ciò che viene posto, ma equivale alla posizione di un altro termine. Infine, il terzo principio fondamentale si può formulare in questo modo: io oppongo nell’io all’io divisibile un non-io divisibile.

«L’essenza della filosofia critica viene individuata da Fichte nel suo porre un “io assoluto come assolutamente incondizionato e non determinabile da qualcosa di più elevato”; e, se questa filosofia conclude in modo conseguente a partire da questo principio fondamentale, allora diventa Dottrina della scienza (DS, p. 95). Nel sistema critico, la “cosa” è ciò che è posto nell’io; nel sistema dogmatico, la “cosa” (Ens) è ciò IN CUI l’io stesso è posto. In questo sistema, il concetto di “cosa” (“Ens”) è il più alto, “il concetto assolutamente supremo”.  Ma ciò accade in modo “assolutamente arbitrario”. Lo spinozismo è il prodotto più conseguente del dogmatismo, nella misura in cui il dogmatismo può essere conseguente. Se si chiede al dogmatismo perché mai esso ammette la “cosa” (Ens) senza nessun fondamento ad essa superiore, mentre esso “richiede all’io questo principio superiore” (per esso la “cosa” vale assolutamente, laddove all’io NON spetta un valore assoluto), emerge che esso “non può vantare nessun diritto per fare ciò” Spinto alle sue estreme conseguenze, il dogmatismo “o nega che il nostro sapere in generale abbia un fondamento e che in generale vi sia un sistema nello spirito umano, o contraddice se stesso”, perché mentre afferma che non si può ammettere nulla senza ragione, agisce proprio così. “Un dogmatismo rigoroso è [dunque] uno scetticismo”, perché esso annulla “l’unità della coscienza e l’intera logica”. Lo scetticismo NEGA la stessa possibilità di un sistema in generale. Ma, poiché esso non può negare “se non sistematicamente questa possibilità, esso contraddice se stesso, ed è interamente contrario alla ragione (vernunftwidrig).” Ma la “natura dello spirito umano” ha preso le sue precauzioni, perché essa ha pensato a rendere impossibile ciò. Infatti, nessun uomo ha mai seguito seriamente un tale scetticismo.  […] Che cosa spinge il dommatico al di là dell’io? Un “dato pratico”. Cioè “il sentimento della dipendenza del nostro io, in quanto è pratico [l’io che agisce] da un non-io assolutamente indipendente dalla nostra legislazione e, per questo riguardo, libero (DS, p. 97).
La “suprema unità” non può essere altro che “l’unità della coscienza”. L’unica sostanza è, per la Dottrina della scienza, “l’io di ciascuno”. Da questo angolo, Fichte può dichiarare che se si guarda alla sua parte teoretica, la Dottrina della scienza è “lo spinozismo ridotto a sistema”. Essa è costruita soltanto sui “due ultimi principi fondamentali”, dacché il primo “ha solo un valore regolativo”. Non altro. La soluzione del problema posto dal terzo principio (quello dei giudizi sintetici a priori, nel linguaggio di Kant) è raggiunta da una decisione incondizionata (il decreto di autorità della ragione), che SUBORDINA IL NON-IO ALL’IO. Questa subordinazione “ed unità di ogni non-io sotto le leggi pratiche dell’io” vano interpretate nel senso che la “unità non è qualcosa che esiste come esiste l’oggetto di un concetto, ma come oggetto di un’idea, qualcosa che deve esistere e deve essere prodotto da noi […] (DS, p. 97). Nel 1797, Fichte preciserà: “Ciò che si oppone alla mia azione - qualcosa io debbo opporre ad essa, perché sono finito - è il mondo sensibile, ciò che deve nascere mediante la mia azione, è il mondo intelligibile” (Zweite Einleitung, S. W., Bid. I, p. 467).
Si badi: i concetti opposti di io-non io sono dati dai due primi principi, ma l’esigenza che essi siano conciliati è espressa nel primo principio (DS p. 87). Il modo “come” la conciliazione può essere realizzata non è compreso in essi, perché esso è determinato da una “legge particolare del nostro [stesso] spirito”; legge che, mediante l’esperimento, deve essere sollevata alla coscienza. Ora, il concetto di limitazione reciproca NON È ORIGINARIO, non esprime l’x che deve essere cercato nella sua purezza, perché comprende anche i concetto della “realtà” e della “negazione” che vi sono conciliati. Per cercare l’x nella sua purezza, occorre procedere ad una ulteriore “astrazione”. Si guardi al concetto di “limite”.  Che cosa significa “limitare qualcosa”? Significa sopprimere la “realtà”, mediante la “negazione”, non nella sua “totalità”, bensì solo “in parte”.  Ne viene, quindi, che il “concetto di “limite” comprende in sé non solo “i concetti di realtà e di negazione”, ma anche “il concetto della divisibilità”, cioè il concetto della “quantitabilità in generale”. Questo concetto della divisibilità e/o quantitabilità in generale è l’x nella sua purezza. Mediante un atto peculiare dello spirito umano (Fichte lo definisce atto y), che è, in breve, L’ATTO CHE LIMITA, l’io e il non-io sono posti come divisibili sul fondamento della divisibilità/quantitabilità in generale. Tanto l’io quanto il non-io sono posti come divisibili. Ora, L’ATTO CHE LIMITA (l’atto y) NON PUÒ VENIRE DOPO “l’atto dell’opporre”, nel senso che NON PUÒ essere considerato come “reso possibile solamente da quest’atto”, perché, senza di esso (senza la limitazione reciproca di io-non io) la “opposizione” distrugge se stessa e, per ciò, essa è impossibile. Né, d’altra parte, L’ATTO CHE LIMITA (pur sempre l’atto y) PUÒ PRECEDERE l’atto dell’opporre, dacché esso viene compiuto per “rendere possibile l’opposizione e la divisibilità/quantitabilità è niente senza qualcosa da dividere/quantificare. Ne viene che L’ATTO CHE LIMITA (l’atto y) “sorge immediatamente NELLA e CON LA opposizione”. Queste due azioni (l’atto che limita e l’atto d’opposizione) non sono che un’unica azione e vengono distinte “sola mediante la riflessione”. Non appena all’io è opposto un non-io, l’io, al quale è opposto un non-io, e questo stesso non-io sono posti come “divisibili” (DS, p. 87). La formula del terzo principio fondamentale è proprio questa: “io oppongo nell’io all’io divisibile un non-io divisibile” (DS, p. 88). Fichte aggiunge che NESSUNA FILOSOFIA può andare oltre questa “conoscenza”. Tuttavia ogni filosofia, che voglia essere seria, deve spingersi sino a questa “conoscenza”. E quando procede sin qui, essa diventa Dottrina della Scienza. Per il filosofo trascendentale (Fichte) tutto ciò che si presenterà “nel sistema dello spirito umano” dovrà potersi “dedurre” da questa “conoscenza” ormai stabilita. Nel prosieguo, Fichte arriva sino a dichiarare che è “impossibile filosofare […] senza penetrare nel terreno della Dottrina della scienza. Ogni avversario dovrà combattere sul terreno di essa e con le armi di essa. Potrà, certo, bendarsi gli occhi per combatterla nel suo proprio terreno e con le sue proprie armi, ma sarà sempre “facile strappargli la benda dagli occhi e fargli vedere il [vero] terreno sul quale si trova [quello della Dottrina della scienza]” (DS, p. 225).»

Tutto il sistema della Dottrina ella scienza, dunque, nasce dalla preoccupazione di Fichte si salvaguardare l’unità della coscienza; perché, se Spinoza pone il fondamento dell’unità della coscienza nel concetto di sostanza, Fichte gli ribatte che avrebbe dovuto ritenersi soddisfatto dell’unità che a lui era data nella coscienza e non cercare un unità ancora più alta, verso la quale proprio nulla lo spingeva.
Per Fichte, dunque, nulla v’è di più alto dell’unità della coscienza: unità che coglie se stessa nel cogliere l’unità del soggetto e dell’oggetto: non si tratta di una sostanza, come per Spinoza, ma di una attività inconscia.
Una attività senza sostanza? Una attività indifferenziata che coglie se stessa anteriormente ad ogni differenziazione di soggetto e oggetto, di spirito e natura? Proprio così: e non c’è da stupirsi se ad Hegel, che riprende e porta alla sistematizzazione definitiva e grandiosa una tale “dottrina”, Kierkegaard osserva che ciò «ha introdotto la pazzia nel mondo».
È pazzesca l’idea di un pensiero che crea l’essere, così come lo è l’idea di una attività che non ha un soggetto né un oggetto, bensì una unità indifferenziata di questo e di quello: perché il pensiero è sempre pensiero di qualcosa che pensa qualcosa; e la coscienza è sempre coscienza di qualcosa che avverte qualche cosa; né potrebbe avvertire se stessa, se non avvertisse, contemporaneamente ma anche distintamente, se stessa e altro da se stessa.
Ma, direbbe Fichte, la coscienza originaria, primordiale, è altro dalla coscienza del singolo individuo; benissimo: e allora come va che l’una diventa l’altra, si incarna, per così dire, nell’altra, ossia che l’Io puro pone se stesso come io empirico?
Se l’Io puro è identità indifferenziata di io e non-io, in che modo, a un certo punto, e perché mai si differenzia in un soggetto e in un oggetto, o meglio, nella coscienza che distingue un soggetto ed un oggetto?
Se bastasse “porre” le cose, come fa disinvoltamente Fichte - e come poi farà Hegel -, senza prendersi il disturbo di spiegarle, sarebbe veramente troppo facile fare filosofia: che cosa vuol dire, esattamente, affermare che l’Io puro pone se stesso come io empirico e, così, dà origine all’unica sostanza degli io di ciascun individuo, incarnandosi nella coscienza dei soggetti concreti?
Non basta “porre”, bisogna spiegare come ciò accada: e certo non contribuisce a fare chiarezza il fatto che Fichte chiami l’Io puro anche con il titolo altisonante di “immaginazione produttiva”: perché l’immaginazione è sempre immaginazione di qualcosa, che s’immagina qualche cosa e non certo immaginazione indifferenziata.
Fichte distingue poi i due livelli  del processo dialettico: quello dell’attività teoretica, consistente nella Dottrina della scienza, e quello dell’attività pratica, da cui scaturisce la libertà morale, che egli riassume nelle due formule: «Non cedere mai all’istinto, ma darsi sempre una legge» e «Agisci secondo la tua coscienza».
Anche se l’attività pratica è idealmente preceduta da quella teoretica, in pratica quest’ultima le è subordinata, perché da essa scaturisce la rappresentazione di un mondo oggettivo, nel quale, attraverso lo sforzo infinito della coscienza, l’Io pratico, agendo sul non-io, realizza margini sempre più ampi di libertà morale.
Fedele discepolo di Kant, dunque, Fichte sostiene il primato della Ragion pratica sulla Ragion pura: solo che mentre, nel maestro, tale primato si giustificava (si fa per dire) con l’abolizione della metafisica, il che è già fare filosofia tagliando i concetti con la mannaia, in Fichte tale primato scaturisce dal fatto che, dovendo dare una ragione dell’eterno urto del non-io sull’io, il padre dell’idealismo crede di poterla trovare nella sfera morale.
Insomma: se il non-io e l’io eternamente lottano nella coscienza, una ragione ci deve pur essere: e quale ragione più nobile potrebbe esservi, che quella di porre all’uomo sempre più alti compiti morali?
Però, a ben guardare, non vi è alcun motivo per cui le cose debbano stare così: sembra piuttosto una interpretazione a posteriori, che una intrinseca necessità del processo dialettico. E questo è l’altro versante della pazzia idealista: prima si pone un infinito processo dialettico e poi ci si domanda a che cosa mai debba servire; e si risponde, più o meno, col “tu devi!” kantiano, che fa pur sempre la sua bella figura, come un abito per tutte le stagioni.
Basti dire che Fichte, a un certo punto, è costretto a distinguere un Io teoretico, che conosce il non-io come un proprio limite e poi si auto-supera, prendendo coscienza piena ed intera di sé, da un Io pratico, che agisce sul non-io e che lo oltrepassa, conquistando un grado sempre più elevato di libertà morale.
Sono davvero due Io distinti, o sono due lati di una stessa cosa? Sembrerebbe verosimile la seconda risposta, in quanto l’attività teoretica e l’attività pratica altro non sono che due facce di una stessa medaglia, considerata sotto due differenti punti di vista. Ma è lecito usare un tale linguaggio, formulare siffatti concetti? È lecito non limitarsi a parlare di sfera dell’attività teoretica e sfera dell’attività pratica, ma di un Io teoretico e di un Io pratico?
Il fatto è che il linguaggio e i concetti adoperati da Fichte rispecchiano perfettamente l’autoesaltazione del pensiero soggettivo, che caratterizza tutta l’impalcatura dell’idealismo; ed è perfettamente logico: se è il pensiero che crea l’essere, perché meravigliarsi se il pensiero della singola coscienza individuale, a un certo punto, diventa il Pensiero con la “P” maiuscola; se l’io di ciascuno fonda una sedicente “scienza” dell’Io con la “I” maiuscola? Ed ecco che il panteismo radicale si sposa e si confonde con il solipsismo più estremo: nulla esiste al di fuori della coscienza pensante individuale; ma allora, donde viene l’Io puro che, poi, si “pone” come io empirico?