Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Andiamo verso un nuovo genere di femminilità o verso la scomparsa della femminilità?

Andiamo verso un nuovo genere di femminilità o verso la scomparsa della femminilità?

di Francesco Lamendola - 23/10/2011



La rivista «Time» del 19 aprile 2010 ha dedicato la copertina al primo piano di una soldatessa: il cadetto Prunella Ellwood, di ventuno anni, fotografata in casco e tuta mimetica, mentre è impegnata in esercitazioni militari a Druid’s Ridge, nel Galles.
È quasi inutile aggiungere che l’hanno scelta bella e alquanto fotogenica: bionda, con gli occhi azzurri, come nelle migliori cartoline; con in più i colori mimetici sulla faccia, quasi una nuova versione del look della donna moderna, sportiva ed emancipata: quanto basta per evidenziare la linea elegante delle sopracciglia sottili, lo splendore un po’ glaciale dello sguardo fisso in modo innaturale, il profilo regolare del nasino ben proporzionato; e, naturalmente, quel filo di rossetto sulle labbra che non guasta mai, guerra o non guerra.
Se si voleva offrire l’immagine di una ragazza tosta, che sa molto bene quel che vuole dalla vita e che arde dall’impazienza di entrare a vele spiegate nella società tecnologica postmoderna per far vedere quanto è bava, scavalcando un bel po’ di maschietti meno tosti e meno motivati di lei sulla linea del film «Soldato Jane», girato dal regista Ridley Scott nel 1997 e adornato con le grazie più o meno conturbanti dell’attrice Demi Moore), ci si è riusciti; anche con la complicità del titolo a caratteri cubitali posto accanto all’immagine, che recita: «Why Britain’s Election Should Be About Her».
Di fatto, sono ormai legione le donne che hanno scelto la carriera militare come sbocco professionale o che vi si dedicano per alcuni anni; la copertina di «Life», non che essere anticonformista, non fa altro che confermare una tendenza già in atto da alcuni decenni in tutte le società occidentali, fatta solamente la tara ad una caratteristica specifica del carattere nazionale britannico, vale a dire il nazionalismo esasperato e lo spirito marziale: e lo sa bene chi ricorda, ad esempio, il tripudio di folla che accompagnò la flotta inglese, nel 1982, in partenza per la guerra delle Falkland/Malvinas, con tanto di ragazze che scoprivano il seno sui moli del Tamigi per allietare lo sguardo dei baldi giovanotti destinati al pericolo, ma anche alla gloria.
Solo negli Stati Uniti il livello del nazionalismo e dello spirito marziale supera quello britannico; anche in questo caso, chi ha abbastanza memoria da ricordare l’orgia di euforia bellicista che accompagnò la sconsiderata guerra di aggressione contro l’Iraq, nel 2003, sa bene di cosa stiamo parlando; e, quanto alle donne soldato, come dimenticare l’immagine di quelle soldatesse americane che, dopo l’invasione armata dell’isola di Grenada, nel 1983, si godevano il bel sole dei Tropici per farsi l’abbronzatura, posando il fucile automatico accanto alla crema solare, sulla sabbia finissima di quel piccolo Paradiso del Mar dei Caraibi?
Fatto salvo, dunque, il fatto che in nessun Paese occidentale esiste l’equivalente del nazionalismo e dello spirito marziale anglosassone (qualcuno si immagina un gruppo musicale tedesco, francese o italiano che si drappeggia nella bandiera nazionale, come facevano volentieri e con assoluta naturalezza le Spice Girls?), resta da chiedersi se la scelta della carriera militare, così come quella di altre professioni considerate, fino a pochi anni fa, prettamente maschili, dall’avvocato al camionista, e, più ancora, se lo stile esistenziale ad esse sotteso, debba configurarsi come la ricerca di una nuova espressione della femminilità o come la fine della femminilità stessa.
Domanda scomoda; domanda politicamente scorrettissima e, ne siamo consapevoli, quasi impronunciabile, nel contesto di una cultura che ha talmente introiettato gli slogan e i luoghi comuni del femminismo, da considerare come semplicemente inconcepibile che qualcuno osi rimettere in discussione le “sacre” acquisizioni della cosiddetta emancipazione femminile e avanzare dei dubbi sull’assoluta giustezza delle scelte oggi compiute da un numero crescente di donne, giovani e meno giovani, anzi, sulle feconde possibilità di ulteriore sviluppo che tali scelte necessariamente porteranno; e, inoltre, sul fatto che sia cosa naturalissima, per una donna, coniugare la grinta, la determinazione, insomma la virilità psicologica, con il mantenimento di una forte e seducente femminilità.
A questo punto, ovviamente, bisognerebbe definire quale sia l’essenza della femminilità; e, senza perder tempo in definizioni più o meno teoriche ed astruse, o senza rifugiarci nella comoda scusante che  si tratterebbe di un “quid” assolutamente indefinibile, ci limiteremo a dire che essa è l’esatto contrario della virilità, ossia che è ciò che caratterizza l’esser donna in quanto tale, senza altre precisazioni o aggettivazioni.
La virilità, a sua volta, la definiremo, semplicemente, come l’insieme delle caratteristiche che sono pertinenti all’uomo in quanto maschio, senza ulteriori specificazioni; e a quanti obiettassero che “femminilità” e “virilità” sono delle mere ipotesi, non dei dati certi e oggettivi, rispondiamo semplicemente che o essi barano al gioco, per amore di un pregiudizio ideologico, oppure non hanno mai conosciuto una vera donna e un vero uomo in tutta la loro vita.
È chiaro che la femminilità varia da donna a donna, così come la virilità varia da uomo a uomo; ed è chiaro che vi possano essere delle donne quasi totalmente sprovviste di femminilità, così come vi sono uomini quasi totalmente sprovvisti di virilità.
Inoltre non si deve mai dimenticare che in ogni personalità femminile vi è una componente maschile e che in ogni personalità maschile vi è una componente femminile e che, pertanto, un certo grado di mescolanza delle caratteristiche di genere non solo non è cosa eccezionale, ma, anzi, del tutto normale: Jung parlava di “animus” e di “anima” proprio per designare tale presenza secondaria delle caratteristiche del sesso opposto.
Che poi, oggi, tanto la femminilità, quanto la virilità, siano in declino, questo è un altro discorso: ma ciò non autorizza a trarne la conclusione che non esistono affatto e che si tratta di categorie “inventate” dal bieco potere maschilista, per mantenere sottomesse e sfruttate milioni di donne nel corso della storia mondiale.
Tornando alle donne soldato e, più in generale, alle donne che vogliono sviluppare al massimo la loro componente virile, non solo per le cose che fanno, ma per il modo in cui le fanno e, più ancora, per l’atteggiamento complessivo che assumo, la domanda è se tutto questo possa conciliarsi con la vera femminilità o se non ne rappresenti inevitabilmente la scomparsa.
Il mondo moderno vive di stridenti contraddizioni che ci vengono contrabbandate, e pazientemente spiegate da legioni di  critici, di sociologi e di tuttologi, come cose naturalissime e perfino come verità lampanti: per dirne una fra mille, da un paio di secoli almeno, ossia da Hegel in poi, ci è stato detto e ripetuto che l’arte bella è finita, ma che questo non significa la fine dell’arte, bensì solo la fine dell’idea greca dell’arte; e in tal modo ci si induce ad accettare come moneta buona qualunque sgorbio, qualunque stramberia, qualunque provocazione, passino per la testa di questi sedicenti artefici dell’arte non bella.
Abbiamo l’impressione che la stessa cosa stia accadendo nell’evoluzione del costume femminile delle società occidentali (altre società, non dimentichiamolo mai, conservano tuttora una diversa idea della femminilità e di quel che si debba intendere per una donna vera, e vi si attengono con ammirevole coerenza).
Si vogliono contemporaneamente due cose inconciliabili: la mogie ubriaca e la botte piena; si vuole una femminilità grintosa, spregiudicata, aggressiva e al tempo stesso si vorrebbe che fosse irresistibilmente attraente dal punto di vista erotico: se c’è riuscita, in qualche modo, la bella soldatessa Demi Moore e se ci riescono tante donne in carriera dei serial televisivi americani, perché non ci dovrebbero riuscire le donne in carne ed ossa, le donne della vita di ogni giorno, che non sono attrici famose e che non hanno uno stuolo di truccatori al seguito, anche quando devono interpretare le scene d’azione più avventurose e concitate?
Ecco, questo è il punto: l’immaginario televisivo, cinematografico e pubblicitario, è riuscito a penetrare fino ad un punto tale nel comune sentire delle persone, in questo caso delle donne, da aver fatto loro perdere di vista la sostanziale differenza che esiste fra realtà virtuale e realtà “vera” e da confondere in un unico pasticcio quel che si vede al cinema e quel che si dà effettivamente nella vita quotidiana.
Non è un problema limitato all’ambito della presente riflessione, ossia alla elaborazione di una nuova, supposta forma di femminilità, più “moderna” e al passo coi tempi; al contrario, questo è un problema che investe complessivamente tutti gli ambiti del costume e che si sta riverberando, con strane e preoccupanti conseguenze, in tutti gli aspetti della vita quotidiana.
Alcuni medici e infermieri di un ospedale newyorkese, recentemente, esprimevano il loro sconcerto per il fatto che le vittime di aggressioni con armi da fuoco, portate in sala operatoria con procedura di massima urgenza, manifestano sovente una sorta di stupore perché le loro ferite provocano un autentico ed intenso dolore fisico.
All’inizio, quando il fenomeno si è manifestato nei primi casi, essi pensavano di aver a che fare con dei soggetti affetti da una qualche forma di idiozia congenita: chi non sa che ricevere una scarica di proiettili in corpo produce un vivissimo dolore fisico?
Poi, poco a poco, e osservando il ripetersi della stessa situazione, essi sono giunti ad una conclusione che, per quanto possa apparire stupefacente, sembra però la sola capace di rendere conto di un atteggiamento così strano da parte dei feriti: abituate a vedere migliaia di sequenze di aggressioni con armi da fuoco alla televisione e al cinema e assuefatte, in questo modo, alla banalizzazione della sofferenza, molte persone hanno finito per vedere la realtà attraverso la lente deformate dello schermo televisivo o di quello cinematografico;  e come si sa che gli attori di un film o di un telefilm, benché crivellati di colpi, in effetti non provano alcun dolore, ma fingono soltanto di provarlo, così anche loro s’immaginano che venire ferite non comporti alcun dolore fisico, ma solo, poniamo, una difficoltà di reggesi in piedi, di compiere dei movimenti con le braccia o, magari, di parlare.
Ebbene, crediamo che una cosa molto simile si verifichi nell’immaginazione di molte donne, dopo aver visto numerosi film, telefilm e spot pubblicitari in cui compaiono ragazze soldato o  donne comunque impegnate, per loro scelta, in prestazioni estremamente dure e “maschili”, le quali tuttavia conservano nondimeno tutto il loro irresistibile sex-appeal, anzi se possibile lo aumentano, tracciando una nuova frontiera dell’erotismo femminile e diventando, così, addirittura delle superdonne, particolarmente attraenti e desiderabili.
Ma desiderabili da parte di chi, visto che, nel medesimo tempo, la controparte maschile sembra sempre più in difficoltà, sempre più timida e incerta di se stessa, fino a sprofondare in una vera e propria insicurezza circa la propria identità di genere? Questo è un particolare sul quale le aspiranti superdonne, generalmente, sorvolano, almeno nelle loro fantasticherie.
Nei film, del resto, come pure nella pubblicità, ad ogni superdonna che si rispetti viene incontro, come legittimo premio e ricompensa delle fatiche da lei sostenute per affermarsi, uno straordinario esemplare di supermaschio; ma siamo proprio sicuri che, nella realtà, le cose funzionino in  questo modo?
Non è forse vero, al contrario, che un vero uomo si sente istintivamente attratto non già da una pretesa superdonna, vale a dire da una donna che pare una caricatura dell’uomo, ma da una donna autentica, ivi comprese la sua tenerezza, la sua dolcezza e, perché no, anche un certo grado di fragilità, almeno quanto basta per risvegliare in lui l’istinto di protezione?
E così, per correre dietro al miraggio di un potenziamento di sé che corrisponde, in realtà, ad una abdicazione alla propria parte essenziale, molte donne finiscono per non raggiungere né la tanto agognata autostima, né l’interesse del maschio; e si trovano doppiamente sconfitte e frustrate, a rimestare tristemente fra le ceneri spente della propria femminilità.
Del resto, la cultura femminista ha sempre sostenuto che la donna non sa che farsene dell’istinto di protezione dell’uomo; che ci pensa da sola a proteggersi; che non vuole neppure un segno formale di omaggio cavalleresco: dunque di che lamentarsi, adesso?