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L’industria del parto cesareo. Italia, prima…

di Lucia Palmerini - 24/10/2011

Quasi il 40 per cento dei parti avviene con taglio cesareo. Il dato pubblicato dall’organizzazione mondiale della sanità e confermato dal Ministero della Salute è a dir poco inquietante. In Europa l’Italia ha il triste primato nell’uso del cesareo, triste perché nella maggior parte dei casi non è dovuto ad una necessità medica ma a motivazioni economiche, alla scarsa qualità della sanità pubblica ed alla sua mala gestione, nonché alla inesistente informazione ed alla mancanza di supporto psicologico alle donne incinte.

Esaminate le percentuali di complicazioni che possono compromettere la vita o la salute del nascituro o della madre, l’OMS ha individuato un limite massimo pari a 20 parti su 100 in cui si ritiene necessario il cesareo. Se il numero di cesarei supera il 20 per cento significa che all’interno del sistema sanitario vi sono dei problemi o delle inefficienze. Questo limite in realtà è stato rialzato recentemente, in quanto il limite stabilito nel 1985 pari al 15 per cento era irrealizzabile per la maggior parte dei paesi e non teneva conto dell’aumento dei fattori di rischio in seguito all’innalzamento dell’età delle partorienti.

A fare peggio dell’Italia troviamo solo l’Iran, la Repubblica Dominicana, il Brasile e per ultima Cipro che vede il numero di cesarei superare addirittura quelli naturali, mentre la medaglia d’oro spetta all’Ucraina dove troviamo solo 10 cesarei su 100 parti. Nella tabella sono evidenziati in azzurro i paesi che si trovano al di sopra del 20 per cento, come Germania, Stati Uniti e Cina; a cavallo del limite vi sono Francia e Danimarca; sono invece in rosa quelli che rispettano il paletto del 20 per cento individuato dall’OMS, tra questi i paesi all’avanguardia in tema di politiche femminili come Svezia, Norvegia, Finlandia e Olanda.

La percentuale media di tagli cesarei nel mondo risulta del 15 per cento, in Africa sono l’1-2 per cento a causa della mancanza di strutture sanitarie adeguate, mentre in Asia sono circa il 9 per cento; le regioni dell’Est Europeo si attestano ad una media di 15 parti cesarei ogni 100 e risultano essere quindi in linea con la direttiva del’OMS. Genericamente i dati mostrano una proporzionalità diretta tra tagli cesarei e reddito, ovvero all’aumentare di quest’ultimo, vi è anche un incremento dei cesarei.

I rapporti annuali sulle attività ospedaliere italiane, mostrano un incremento costante nell’uso di tagli cesarei, fino a raggiungere quasi il 40 per cento nel 2011, con una situazione molto variegata a seconda della regione d’appartenenza. Nell’Italia settentrionale il ricorso al taglio cesareo è meno frequente mentre è elevato nel meridione: si va dal 23 per cento nella Provincia autonoma di Trento ed in Friuli-Venezia Giulia a quasi il 55 per cento in Sicilia ed il 62 per cento in Campania, con valori che superano il 40 per cento in Abruzzo, Lazio, Molise, Calabria, Basilicata e Puglia. Le motivazioni alla base di queste discrepanze sono di varia natura. In prima istanza la motivazione economica: un taglio cesareo viene considerato e pagato alle singole realtà ospedaliere come operazione chirurgica, cifra nettamente superiore rispetto a quella corrisposta per un parto naturale. Diventa evidente che un numero di parti superiore al 60 per cento in Calabria dipenda anche dalla necessità di fare cassa a spese della salute di donne e bambini. Non è un caso che nelle strutture private il numero di tagli cesarei sia in media il 75 per cento, rappresentando il cesareo un entrata economica maggiore rispetto ad un parto naturale.

Una seconda motivazione è la responsabilità diretta del medico nel caso di danni o morte del bambino o della madre; se infatti si verificano complicazioni, la responsabilità diretta del medico è maggiore in presenza di un parto naturale; inoltre quasi la metà dei punti nascita effettuano meno di 500 parti all’anno, il che implica una minore sicurezza e una maggiore propensione al cesareo da parte dei medici stessi, la cosidetta “medicina difensiva”; non va scordato infatti che un ginecologo ostetrico su quattro in Italia è indagato per responsabilità professionale.

Un’ulteriore spiegazione all’elevato numero di parti cesarei viene data da una ricerca condotta dall’Osservatorio nazionale sulla salute della donna (ONDa), in collaborazione con il Dipartimento di salute materno infantile dell’Oms e con il settimanale IO Donna.

Dall’indagine emerge che l’80 per cento di donne intervistate preferisce il parto naturale al cesareo ma poi sceglie il cesareo principalmente per paura del dolore. Nel dettaglio le donne preferirebbero il parto naturale in primis per motivi affettivi nel 63 per cento dei casi (per non perdere le prime ore di vita del bambino), quindi per un’ospedalizzazione più breve (il 53 per cento considera importante un’inferiore durata del ricovero ed il 49 per cento un veloce recupero fisico), inoltre il 48 per cento desidera escludere un’operazione come metodo per dare alla luce il proprio figlio e l’assenza di cicatrici (47 per cento). Tra le ulteriori motivazioni che spingono le donne a preferire il parto naturale troviamo il minor dolore post operatorio (44 per cento), la possibilità di avere al proprio fianco il padre del bambino (41 per cento), poter avere gravidanze future illimitate (47 per cento) e allattare con più facilità (35 per cento).

Le motivazioni che spingono le donne al taglio cesareo destano maggiore curiosità e confermano che l’aumento di questa pratica è dovuta a motivi diversi dell’aumentare dell’età delle partorienti. Quasi il 54 per cento lo preferisce per paura del proprio dolore o di quello del bambino (40 per cento); il 46 per cento sceglie il cesareo per poter pianificare la data di nascita, il 28 per cento perché lo considera più sicuro, il 22 per cento perché consigliata da un’amica o perché pensa che i tempi per tornare ad una vita sessuale ordinaria siano più veloci; il 17 per cento perché nella struttura sanitaria non era prevista l’epidurale.

Le motivazioni addotte sono frutto della scarsa informazione e di scelte dettate più da luoghi comuni e dall’inconsapevolezza di rischi e alternative.

In prima istanza è scientificamente provato che un bambino nato con parto naturale non soffra di più rispetto ad un bambino nato con cesareo; va sottolineato invece che la probabilità di complicazioni post-parto sono maggiori per chi partorisce con il cesareo, tra queste febbre puerperale, infezioni della ferita, perdite ematiche, problemi nell’allattamento, tempi di ospedalizzazione più lunghi e conseguente uso di analgesici e antibiotici. Inoltre il rischio di mortalità materna è di ben tre volte superiore per chi partorisce con il cesareo rispetto al parto naturale e nella gravidanza successiva i rischi gravi si duplicano.

La motivazione data dalle donne intervistate riguardo ad una più veloce ripresa della vita sessuale con parto cesareo si dimostra falsa, smentita dalla scienza, e conseguenza della mancanza di un’informazione corretta.

La paura della sofferenza, che è il primo motivo per cui si sceglie il cesareo, è stato risolto nei paesi nordici attraverso un adeguato e personalizzato supporto psicologico alla donna nelle fasi di preparazione al parto.

La mancanza dell’epidurale come alternativa al cesareo all’interno della struttura ospedaliera è invece una motivazione valida e fondata che trova riscontro nei dati, infatti in Italia solo il 16% delle strutture ospedaliere ha la possibilità di offrire gratuitamente il servizio di analgesia epidurale alle proprie pazienti. Questa tecnica sicura e indolore consente di ridurre al minimo le sofferenze durante il parto permettendo alla donna di rimanere cosciente e di respirare autonomamente e di sentire ugualmente le contrazioni. Il 90% delle strutture esaminate dall’ONDa offrono l’epidurale 24 ore su 24, ma solo il 35 per cento delle strutture hanno un anestesista dedicato esclusivamente al parto, questo significa che in caso di emergenza l’anestesista non è più disponibile e non è possibile ricorrere a tale tecnica. Inoltre i dati mostrano la quasi totale assenza dell’epidurale nelle regioni del Sud Italia, confermando la scelta del cesareo come risposta alla paura del dolore.

La sempre maggiore medicalizzazione, la presenza di strutture non idonee e poco sicure che eseguono meno di 1000 parti all’anno, la necessità di fare cassa di alcune strutture ospedaliere, l’assenza dell’epidurale, la mancanza di informazione e assistenza alla donna nelle fasi pre-parto hanno fatto lievitare il numero di cesarei. Diventa necessario quindi rimuovere timori e credenze ingiustificati migliorando l’informazione e l’educazione con corsi di preparazione al parto ed assistere psicologicamente le donne durante la gravidanza. Diventa altresì d’obbligo una riorganizzazione delle strutture sanitarie per offrire un servizio migliore, efficiente e più sicuro; servono infine investimenti per garantire l’epidurale a tutte le donne.