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La postmodernità liquida e le categorie politiche

di Marco Tarchi - Michele De Feudis - 27/10/2011

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La postmodernità liquida ha progressivamente allentato in Italia le categorie ideologiche. Dissolti i partiti di tradizione novecentesca, in quali forme si manifesta la richiesta di partecipazione politica?

«Non esagererei nel considerare marginale l’influenza ideologica sulla politica italiana. In forme residuale, le vecchie appartenenze continuano a pesare su una parte consistente dell’elettorato, che ha allentato il rapporto con i partiti ma tiene ben stretto quello con le aree di riferimento. Benché i loro contenuti siano sempre più vaghi e tendano a volte a confondersi, al pubblico più vasto le categorie di destra esinistra continuano ad apparire indicatori di posizione utili.

Per taluni, sono feticci a cui aggrapparsi per continuare a seguire una tradizione familiare o locale in declino. Pensi alle tendenze elettorali apparentemente insradicabili di certe regioni rosse o bianche. Certo, oggi la richiesta di partecipazione politica trova altri canali di sfogo, a partire da internet e, più specificamente, dai social networks. Ma anche qui gli slogan e gli sfoghi di astio verso il “nemico” predominano largamente sul confronto delle idee.»

L'attuale sistema tendenzialmente bipolare mostra crepe e genera frequenti cortocircuiti per conflitti tra poteri dello Stato. Oltre le enunciazioni di rinnovamento istituzionale, cosa c'è dietro la prospettiva riformista sbandierata dai due poli?

«A giudicare dai fatti, pochissimo. Il bipolarismo crea la necessità, per vincere le elezioni, di conquistare gli elettori di centro, e dunque di avvicinare, smussare, rendere vaghi i programmi, evitando di sbilanciarsi e di proporre progetti e riforme nettamente connotati, che potrebbero dividere i potenziali sostenitori piuttosto che unirli. Per coprire questa continua diluizione dei contenuti, che sono ormai quasi completamente sbiaditi, ci si sforza di apparire diversi dai concorrenti alzando la voce, scambiandosi insulti, sbandierandopromesse di riforme epocali. Ma una volta vinte le elezioni, si annega nella routine del piccolo cabotaggio.»

I partiti della Prima Repubblica sono estinti con tutto il bagaglio di simboli e lotte popolari, sostituiti da partiti coalizione. Che bilancio si può tirare dell'omologazione italiana alle liturgie delle democrazie anglosassoni?

«Tutt’al più del sistema statunitense, perché in Gran Bretagna, malgrado i cambiamenti di rotta e gli annacquamenti ideologici, dietro a conservatori, liberaldemocratici e laburisti ci sono comunque tradizioni consolidate, mentre da noi gli pseudo partiti “pluri-identitari”, come ha azzardato definirli uno dei fondatori del PDL, sono aggregazioni raccogliticce ed eterogenee tenute insieme soltanto dalle circostanze e da interessi di bottega. Il bilancio di questa trasformazione è nettamente negativo: è cresciuta enormemente la distanza tra classe politica e cittadini, i programmi di governo sono stati complicati e  intralciati dai dissensi interni fra le varie anime, i gruppi d’interesse hanno acuito le loro possibilità di condizionamento tessendo ancor più solidi rapporti clientelari con gli esponenti delle varie correnti o potentati, spesso per  g u a d a

g n a r s i favori in ambito amministrativo. Ea giovarsene è stata soltanto l’antipolitica

Il saggio «Suburra» di Filippo Ceccarelli ben descrive la parabola decadente dei costumi del Palazzo. Morbosità per le abitudini amorose disordinate dei politici e tintinnare delle manette, idolatria consumistica e «web» radicalismo sono le nuove tendenze che hanno preso il posto delle ideologie?

«Quando la politica perde il motore delle passioni (magari destinate a degradarsi in illusioni, ma comunque capaci di spingere alla dedizione disinteressata e al sacrificio), delle visioni del mondo che si vorrebbe veder sorgere, dell’ambizione a disegnare e porre in atto modelli di società, e si tramuta in mera professione a fini di lucro, la sua privatizzazione non può che condurre a risultati di questo tipo. La retorica dell’impegno per il bene comune non inganna più. È sempre più evidente che la motivazione di gran lunga prevalente nel ceto politico è il desiderio di conquistare una porzione di potere per goderne i benefici materiali di vario genere. Fra i pochi che non seguono questa direttrice furoreggia invece uno zelo puritano che non di rado assume i tratti del fanatismo. E sappiamo dove conducono i capipopolo che si propongono di purificare il mondo in nome della Verità.»

Lo scioglimento di Alleanza Nazionale nel «PDL», dopo quello del «MSI», ha sostanzialmente ratificato l'omologazione al pensiero unico liberalcapitalista ed occidentalista dell'area politica e culturale che dal 1945 in poi era collocata «a destra». Cosa resta di quella tradizione «anticonformista» nell'attuale «PDL»?

«Quasi niente. Soltanto qualche illusoria ambizione di continuità in ambienti giovanili. Ma il percorso verso questo esito viene da lontano, e si è svolto in parte già all’interno del MSI. C’è ormai un’abbondante e seria letteratura sul tema. Il neofascismo ha ben presto perso ogni ambizione di conquistare alle proprie idee originarie settori cospicui della società italiana e si è appiattito nell’anticomunismo, nell’atlantismo, in un vago e velleitario conservatorismo. Se ha lasciato un po’ di spazio nelle sue pubblicazioni ad autori, filoni di pensiero ed esperienze politiche in odore di zolfo (Evola, Schmitt, Jünger, Drieu La Rochelle, i frondisti del ventennio, la Nouvelle Droite, i “fascismi sconosciuti”…), lo ha fatto soltanto per offrire un contentino a una base militante giovanile che avrebbe altrimenti preso altre strade.»

L'area postfascista ha avuto e soltanto in parte conservato nel Paese un immenso patrimonio immobiliare, oltre ad un popolo di credenti - soprattutto nella base - che non ha né una casa né una direzione per il futuro. Quale prospettiva c'è all'orizzonte per quelli che su «Il Giornale» Pietrangelo Buttafuoco ha definito «un milione e mezzo di Italiani, gli elettori del “MSI”, tutta gente per bene»?

«Quanti ne siano rimasti oggi, di quei “credenti” a distanza di sedici anni dalla scomparsa del MSI, non ci è dato sapere. In ogni caso, per le loro speranze di un tempo non c’è più alcun futuro. Spenta la fiamma e abiurate molte delle credenze del passato, i loro ex dirigenti hanno imboccato la via della “rispettabilità” per giocarsi al meglio le carte di cuidisponevano. E non torneranno indietro.»

Spesso sono state accostate sensibilità e intuizioni della Nuova Destra alle attività di intellettuali raccolti prima intorno a Fare Futuro, poi confluiti in «FLI», guidato da Gianfranco Fini. Ci sono elementi di contatto tra le due esperienze?

«Nessuno, sebbene questa presunta affinità o addirittura primogenitura sia stata sbandierata, all’unico scopo di nobilitarsi culturalmente, dagli ambienti finiani. Come ho più volte argomentato, la Nuova Destra aveva fatto scelte opposte a quelle di FLI in quasi tutti i campi. Volendo ricorrere a una schematizzazione, con tutti i limiti del caso, aveva guardato a sinistra negli ambiti in cui FLI si è collocato a destra (politica internazionale, questione sociale, tematiche ecologiche), e a destra laddove il FLI ha assunto posizioni orientate a sinistra (temi etici, questioni connesse alle ondate migratorie.Ho documentato questa totale discontinuità, punto per punto, nel libro La rivoluzione impossibile. Dai Campi Hobbit alla Nuova Destra, che ho curato lo scorso anno per Vallecchi.»

Cosa resta attuale della elaborazione politica della «ND» e degli scritti di Alain de Benoist su partecipazione e geopolitica? Che ruolo può svolgere nella «guerra delle idee» a cui ha dedicato l'editoriale del numero 304 di «Diorama»?

«Gran parte delle elaborazioni metapolitiche della “Nuova Destra” restano attuali, e de Benoist sforna di continuo analisi e spunti intelligenti e suggestivi. Purtroppo, l’isolamento massmediale decretato dai custodi dell’ideologia dominante nei confronti dei dissidenti ha ridotto i canali di espressione non-conformisti a flebili voci. Per resistere, nella guerra delle idee, occorrerebbero ben altri mezzi, che nessuno pare disposto a fornire. La semina, quindi, c’è, ma quando arriveranno i frutti è difficile prevedere. Sempre che poi qualcuno li vada a raccogliere.»

Il Mediterraneo in fiamme per le rivolte popolari ha riaperto il dibattito sulla politica estera, relegata sempre nelle pagine interne dei quotidiani. Che ruolo sta svolgendo l'Italia nello scacchiere internazionale?

«Un ruolo di assoluta subordinazione ai voleri degli USA, che alla distanza non gioverà né a lei né all’Europa. Il mondo è avviato verso un assetto multipolare articolato su “grandi spazi”, dove conteranno sempre di più la Cina, l’India, l’America latina ed altri attori. Fare la parte dei servidel progetto imperiale nordamericano e insistere nell’appiattirsi nell’esaltazione di un Occidente che ne è una mera appendice strumentale avrà effetti controproducenti quando si saranno definiti i nuovi scenari geopolitici.»

Trattati ed equilibri sovranazionali spesso non coincidono con gli interessi dell'Italia e l'aspirazione a persegui- re un profilo di indipendenza e autonomia nazionale. Rivedere l'adesione dell'Italia alla «NATO» è considerato un tema da bollare come sterile antiamericanismo. L'attuale diritto internazionale, dalla crisi serba all'Afghanistan, dall'Iraq alla Libia, presenta interpretazioni sempre più soggettive. Non è arrivato il momento di iniziare una nuova codificazione delle relazioni internazionali, sottoponendo i trattati al vaglio della sovranità popolare?

«Certo, sarebbe una svolta cruciale ed opportuna. Ma chi se ne assumerà l’onere? Non vedo candidati all’orizzonte.Domina un piatto conformismo allo stato di cose esistenti.»

Il tema dell'autodeterminazione dei popoli una volta era un cardine dell'impegno politico a destra. Ora è appannaggio di sparute frange leghiste. Non sarebbe il caso di rileggere tanti conflitti sulla tavolozza del «Grande Gioco » secondo questa chiave?

«“A destra”, direi proprio di no. In alcune frange degli ambienti giovanili missini e in settori più radicali della destra estrema, semmai. Certo, il tema andrebbe ripreso, declinandolo però nella più adeguata e produttiva prospettiva della rivendicazione del diritto all’affermazione delle specificità culturali di popoli e nazioni. Per il resto, come ho detto, ci si dovrebbe orientare verso la costituzione di grandi spazi autonomi fondati su comuni interessi geopolitici.»

Il politicamente corretto su questi argomenti genera scomuniche. Il saggio di Massimo Fini «Il Mullah Omar» è considerato una sorta di propaganda talebana sul «Corsera», mentre il coinvolgimento dei Fratelli Musulmani nella transizione «post» primavera araba appare il primo passo verso un pericoloso fascismo islamico. Esportatori di democrazia all'estero e sacerdoti della censura totalitaria sul proprio territorio nazionale?

«È così. La censura delle idee sgradite attraverso il silenzio ha raggiunto quasi lo stadio della perfezione, e internet non è un rimedio efficace, perché nel suo oceano sterminato tutto si disperde, se non ha il traino dei giornali, delle radio e delle televisioni che ne rilanciano i messaggi. Il controllo sull’immaginario collettivo che i governanti totalitari si sforzavano di ottenere mediante l’irreggimentazione e la repressione, oggi viene garantito dal potere seduttivo del consumismo e degli apparati comunicativi. Lo spirito del tempo detta i suoi modelli, che le classi dirigenti - intellettuali mediatizzati in testa - si incaricano di portare ad affermazione.»

Gramscismo di destra. Oltre gli «slogan» e gli articoli, dal 1994 ad oggi, cosa è cambiato rispetto alle egemonie pre-esistenti?

«Quella marxista si è sgretolata, producendo nuove mode di pensiero di forte presa, dal cosmopolitismo all’ideologia dei diritti umani, passando per un’onnipresenza del materialismo pratico e individualista liberale. La destra d’ogni coloritura, tradizionalista, conservatrice o neofascista, è arretrata su tutti i fronti. Non poteva che finire così, dato l’assoluto disinteresse degli ambienti che la componevano per la battaglia delle idee, scioccamente considerata secondaria se non inutile. Il “gramscismo di destra” di Alain de Benoist e di chi ne seguiva la lezione di metodo era sconfinatamente ambizioso, ma avrebbe potuto conquistare spazi preziosi se fosse stato assecondato da chi veniva ingenuamente considerato un alleato potenziale(leggi, in Italia, gli ambienti missini). Invece, proprio da lì sono venuti gran parte dei sabotaggi, delle scomuniche, delle mistificazioni.»

Nichi Vendola, animando una nuova sinistra di estrazione libertaria,ha puntato tutto sulla «web» propaganda. «PDL» e Lega, invece, trascurano l'adozione di strumenti politici legati alla rete. A cosa si deve questo ritardo?

«Ancora una volta, a una mentalità incapace di accettare le sfide cruciali della modernità. Anche se, per le ragioni che ho citato, non ci si deve illudere che internet sia la panacea di tutti i mali per chi non ha contenuti efficaci da comunicare.»

Su «Diorama» ha denunciato come nessuna forza politica sia impegnata nel costruire nuove classi dirigenti attraverso la formazione. A destra dove si allenano le nuove «élite»? Quali fondazioni o case editrici forniscono strumenti per la crescita di avanguardie culturali libere daglistereotipi dell'«american way of life» e dell'edonismo di stampo liberalcapitalista?

«Di progetti coerenti e consistenti, non ne vedo. Solo fermenti sparsi. Frammenti ricchi di contraddizioni. C’è chi proclama di voler sfidare il futuro e per farlo assume a modello di stile stereotipi che risalgono a novanta anni fa. E chi pensa di creare “destre nuove” andando al traino di soggetti come Cameron o Sarkozy, che sono agli antipodi del pensiero critico che Lei richiama. A destra prospera il deserto culturale.»

Il movimentismo giovanile degli ultimi anni ha generato a destra e sinistra soggetti politici originali e fuori dal perimetro liberista e occidentalista?

«Non direi. L’opposizione agli effetti più nefasti della globalizzazione avrebbe potuto portare ad un simile risultato, ma l’occasione è andata sprecata.»