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Il respiro della notte

di Francesco Lamendola - 29/10/2011


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Taci, ascolta: senti come respira la notte?
Per tutto il giorno una pesante coltre di umidità è rimasta sospesa sopra la terra, rendendo faticoso il respiro e facendo scorrere il sudore lungo la schiena degli uomini.
Sembrava di essere immersi in una piscina, tanta era la concentrazione di vapore acqueo presente nell’atmosfera: una piscina azzurra, dai contorni vagamente lattiginosi.
La pioggia incombeva, ma non scendeva mai: il tempo sembrava sospeso, la natura sembrava come incerta e dubbiosa se erompere in un violento acquazzone o trascinare l’umidità strisciante lungo le ore del giorno, fino al tramonto; e così è stato.
Mano a mano che la luce impallidiva e gli uccelli del bosco tacevano, l’ uno dopo l’altro - il codirosso, l’usignolo, la rondine e, da ultimo, l’airone cinerino - l’atmosfera di sospensione si addensava e si incupiva, come se un sortilegio incombente si fosse posato sopra la valle e presenze acquattate nell’ombra avessero trattenuto il fiato, in attesa.
Era come se qualcosa fosse stato sul punto di accadere, ma nulla accadeva; era come se si fosse instaurato un tempo fuori del tempo, uno spazio fuori dello spazio.
Ora le luci isolate dei casolari e della strada brillano in cima alle colline, come sciami di lucciole immobili, al di sopra del velo di nebbia.
Hanno qualcosa di irreale, benché siano le solite luci che si accendono ogni sera, dopo il tramonto del sole; le cose sono le stesse di sempre, eppure non sembrano più le stesse.
Non si ode un uccello, né un grillo e nemmeno il fruscio veloce e furtivo delle ali d’un pipistrello; non un alito di vento, non una fronda che sussurri nel buio.
La polvere si è posata sulla strada e sulle foglie degli alberi e sembra impossibile che l’irruzione lucente di un gioioso acquazzone potrà mai spazzarla via.
Anche la Luna piena, velata e stupefatta, sembra in ascolto di qualcosa, lontana, come una creatura apparsa da un’altra dimensione.
La notte respira nell’oscurità attraverso il fogliame e la luce lunare brilla sui fili argentati delle ragnatele, tessute in silenzio fra l’edera dei giardini.
Si direbbe che un incantesimo sia sceso sulla valle e che ogni cosa sia stata trasformata come dall’interno, quasi obbedisse a un altro ordine di realtà, alle leggi di una nuova e differente modalità del proprio essere.
Le luci sulla collina paiono uno sciame di lucciole immobilizzate da una parola magica; la polvere sulle foglie fa pensare a un vecchio solaio che da anni non viene più aperto; il raggio di Luna che si posa sulla ragnatela fa risplendere quest’ultima di una luce irreale, che pare evocata dal sogno di una fata addormentata.
Tutto tace, tutto trattiene il fiato; persino la sciacquio delle acque del fiume questa notte non giunge all’orecchio, come se un sortilegio lo avesse portato via con sé, chissà dove.
La notte respira.
Se tendi tutti i tuoi sensi, forse la puoi sentire: inspira ed espira, proprio come qualunque essere vivente; inspira ed espira: con lenta, possente regolarità.
Perché la notte è animata; la notte è viva.
Non lo sapevi?
Adesso lo sai; e, se trattieni il fiato anche tu, potrai scoprire molte altre cose, che credevi di sapere già benissimo e delle quali, invece, non sai nulla.
In verità, noi conosciamo soltanto la superficie delle cose, non la loro anima segreta; per penetrare fino ad essa, bisogna attendere la quiete della notte.
La notte è amica e parla a chi la sa ascoltare, a chi le sa porre le domande giuste.
La notte è amica del silenzio; è amica dei gatti che scivolano furtivi, con sovrana eleganza, senza produrre il benché minimo rumore, anche quando spiccano il balzo per saltare su un muretto o per arrampicarsi lungo il tronco di un albero.
La notte è una donna velata e incredibilmente affascinante, che acconsente a scoprirsi non a chi cerca di afferrarla con brama impaziente, ma solo a chi la guarda negli occhi con serena fermezza, aspettando che lei decida di lascarsi amare.
E non ha mai fretta; mai tradisce un moto d’impazienza.
La notte non ha fretta, perché essa è un tempo fuori del tempo, simile a un fiume dimenticato che corre nelle sabbie del deserto e vi si perde, senza mai giungere al mare.

*   *   *
Nella quiete della notte senza tempo si odono voci che altrimenti non si udirebbero, si vedono cose che altrimenti non si vedrebbero.
Tornano fuori dalle pieghe del passato, freschi e vivi, ricordi che si credevano dimenticati; volti di persone care, parole amiche, immagini remote dell’infanzia.
Emergono dall’ombra e si affacciano, tremolando, nella luce argentea della Luna; prendono forma mescolandosi al chiaroscuro della notte estiva.
Ora sul muro bianco della casa, sotto il balcone chiuso, si proietta l’ombra, ingigantita, delle fronde del melograno; e quelle fronde, immobili nell’aria senza vento, diventano le fronde di un altro albero, di un altro giardino, di un’altra stagione della vita.
E con esse si diffonde anche il profumo di un’altra notte d’estate, di tanto tempo fa, sullo sfondo delle montagne di un altro luogo, di un luogo amato e sempre rimasto in fondo al cuore, anche quando pareva pressoché dimenticato: perché il mistero della vita è che il cuore, invece, conosce sempre tutto e non dimentica mai niente.
Noi possiamo anche credere, talvolta, di esserci dimenticati delle cose; ma sono le cose a non dimenticarsi mai di noi; più fedeli e più costanti di quanto il nostro io cosciente sarebbe mai capace di esserlo, quand’anche lo volesse.
Le cose ci sono sempre fedeli, siamo noi a non essere fedeli ad esse, e a noi medesimi; questo non significa che dobbiamo vivere immersi nei ricordi, ma piuttosto che dobbiamo procedere e guardare avanti, ma ricordando e mai procedere, invece, dimenticando.
E se le cose ci sono fedeli, allora vuol dire che noi siamo più ricchi di quanto non crediamo; che siamo più forti, più radicati, più aperti ad infinite possibilità; che portiamo in noi stessi un mondo intero d’incomparabile splendore.
Le fronde del melograno che si disegnano nitide sulla superficie chiara del muro sono, allo stesso tempo, le fronde di un sambuco di quel giardino di tanti fa, ai piedi delle montagne; e sussurrano ancora le medesime parole di allora.
Ma sono anche quelle d’una betulla della steppa, di una felce arborea dei Tropici, di un abete della taiga: portano con sé la struggente nostalgia dell’Assoluto; non sono delle fronde, ma sono LE fronde; non appartengono ad un albero, ma ALL’albero: sono tutte le fronde che furono, che sono e che saranno, e in esse si concentra l’essenza di ogni albero del mondo.
Nella notte, nel silenzio, nella quiete, più chiaro si rivela il grande arcano: che ogni cosa è in ogni altra cosa e che nulla è separato, nulla vive per se stesso, ma tutto è parte di una grandiosa vita universale, della Vita in quanto tale; e che tutto, quindi, è vivo, non c’è nulla di morto o di scomparso, nemmeno il passato, neppure la morte.
Ogni cosa, ogni pensiero, ogni ricordo, ogni odore, ogni gusto, ogni sensazione tattile, non sono che le diverse facce di un unico poliedro, di un’unica realtà, alla quale apparteniamo insieme a tutto il resto; e tutto pulsa di vita, tutto freme di vita, tutto non è che un unico, immenso inno alla vita, una infinita celebrazione della bellezza della vita.
E noi siamo parte di questa celebrazione, di questo inno, di questo fremito; noi siano lui.
L’infedeltà a se stessi è credersi separati; credere che il presente si altra cosa dal passato e dal futuro; credere che noi siamo qui mentre il mondo è là, fuori di noi, intorno a noi, come se fosse altra cosa da noi o come se noi fossimo altra cosa da lui.
E invece no: il mondo è in noi e noi siamo in lui; e in noi vi sono tante cose, quante ve ne sono in  esso; e in esso, quante ve ne sono in noi.
Perciò noi non viviamo solo per noi stessi, ma per tutto ciò che esiste, che è esistito e che esisterà: siamo parte di un immenso fiume e sfoceremo insieme ad ogni altra cosa in un unico mare cosmico, il mare dell’Essere.

*   *   *
La pioggia non viene.
È stata un’attesa vana; anche gli animali, che ora dormono con l’occhio sotto le ali o sotto le zampe, l’hanno attesa invano; e così le piante assetate.
Domani sarà una giornata afosa come lo è stata ieri; il sollievo dell’acqua e la fragranza del vento non verranno a disperdere la pesante cappa di umidità.
Vi è un profondo insegnamento in questo: le cose non vengono quando lo vogliamo noi, ma quando sono mature per accadere.
E non è detto che quando ciò accadrà, noi le sapremo riconoscere: forse ci verranno incontro e noi le lasceremo passare, senza degnarle neppure di uno sguardo.
Infatti, non solo vorremmo che le cose venissero a noi ad ogni nostro richiamo; ma abbiamo anche già in mente come vorremmo che fossero: sicché, se aspettiamo, poniamo il caso, un tesoro in monete d’argento, qualora ci venisse incontro un tesoro in monete d’oro, noi saremmo capacissimi di lamentarci oppure, addirittura, di non farvi caso, come se nemmeno l’avessimo scorto.
Siamo strani. Non è la realtà a fare i capricci, siamo noi che non sappiamo vederla e accettarla per quella che è, ma sempre inseguiamo qualcosa che non c’è più o che non c’è ancora; o, anche, fuggiamo da qualcosa che non c’è ancora o che non c’è più, che forse non c’ è mai stato.
Non siamo veramente qui e adesso; chissà dove siamo per la maggior parte della nostra vita, chissà di quali fantasmi ci stiamo avvolgendo.
E così anche questa notte strana, immobile, immersa nel silenzio e nell’attesa.
Quando saremo capaci di comprendere che anche la siccità ha uno scopo e che anche l’attesa è bella, allora la pioggia ci verrà incontro: non prima.
Ogni cosa ha la sua ragione, ogni cosa ha il suo incanto; si tratta solamente di imparare a vederla e a riconoscerla, invece di guardare distrattamente e lasciarsi portare da mille desideri incoerenti e da mille passioni disordinate.
Quando avremo imparato ad apprezzare il silenzio, ci verrà data la parola; quando avremo imparato ad amare la solitudine, ci verrà data la dolcezza dell’altro: purché il nostro apprezzamento ed il nostro amore non siano diventati gretti, compulsivi, ma siano rimasti freschi ed elastici, come un trampolino dal quale tuffarci verso le profondità del reale.
Reale è l’Essere, l’incanto dell’Essere, la perfezione dell’Essere; tutto il resto non è che apparenza, miraggio, illusione.
Anche noi diventiamo illusori, allorché ci crediamo separati dall’Essere; anche noi finiamo per diventare opachi, quando ci allontaniamo dalla sua luce.
Siamo veramente reali, siamo magicamente luminosi, solo fintanto che restiamo nell’Essere e ne possediamo la piena, intensa consapevolezza.
È una consapevolezza che dovrebbe darci alla testa, che dovrebbe spingerci a piangere, a saltare, a ballare, come se fossimo ebbri.
Come si può accogliere sino in fondo l’idea di trovarsi nella luce e nel calore dell’Essere, senza sentirsi invadere da un senso di pienezza, di esultanza irrefrenabile?
Ecco, questo è vivere realmente la propria vita: esultare in ogni poro, in ogni fibra, in ogni piega della coscienza, sino al centro insondabile dell’anima.