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L’uomo senza Dio, per Pascal, diviene incomprensibile a se stesso

di Francesco Lamendola - 17/11/2011




Pochi filosofi hanno saputo delineare, con maggiore chiarezza e acume di Blaise Pascal, l’incongruenza e l’infelicità del destino dell’uomo che, accecato dalla superbia della ragione, crede di potersi fare Dio di se stesso e volge le spalle al soprannaturale; e questo nel secolo della ragione trionfante, della ragione cartesiana e galileiana, matematica e scientifica.
Per Pascal, l’uomo possiede una duplice natura: istinto e ragione; il primo gli dà lo “spirito di finezza”, la seconda “lo spirito di geometria”; egli ha bisogno di entrambi, ma né l’uno né l’altro possono aiutarlo a divenire ciò che egli deve, cioè a oltrepassarsi, realizzandosi pienamente; per cui è necessario l’intervento di un terzo ordine, superiore tanto a quello materiale, quanto a quello del pensiero: la Grazia.
La Grazia viene da Dio, è un dono di Dio, libero e gratuito; senza di essa l’uomo rimane rinchiuso nella prigione della propria finitezza, prigione doppiamente dolorosa perché in lui vi è l’aspirazione a librarsi verso più ampi orizzonti, a slanciarsi verso un altrove che trascende le limitazioni del contingente e del finito.
Vi è infatti, nell’uomo, una consapevolezza della propria miseria, ma anche una aspirazione al Cielo della felicità e della verità: e da dove potrebbe venirgli, se non avesse conosciuto quelle realtà che ora gli mancano e delle quali sente la bruciante nostalgia?
Così come l’anima dell’uomo, per Platone, portata in alto dalla biga alata, intravvede il Cielo dell’Iperuranio e ne riporta poi, tornata sulla terra, un oscuro ricordo, che lo pungola e lo sprona verso le cose celesti, analogamente, per Pascal, l’uomo ha conosciuto, in origine, uno stato di perfetta pienezza e felicità, poi perduto a causa della Caduta, ossia del peccato originale; eppure conserva, in qualche modo, il ricordo, o almeno la nostalgia, di quella pienezza e di quella felicità e ambisce a riconquistarle.
Il peccato originale riguarda non il singolo uomo, ma l’umanità; i suoi effetti, però, si ripercuotono su ciascun individuo, sicché ogni essere umano è come un re decaduto, che non riesce a scordare la propria passata grandezza.
Due grandi pesi lo trascinano verso il basso, lo piegano fino a terra: il peso della ragione, che lo fa inorgoglire e lo spinge a negare ogni debito verso l’alto; e il peso della materia, che lo sospinge a cercare la felicità sul terreno della concupiscenza. Il primo produce un peccato di arroganza, il secondo un peccato di abbrutimento: ed entrambi sono l’effetto di un atteggiamento di chiusura verso la dimensione superiore, di autorelegazione e autolimitazione nel carcere delle cose finite (ancora Platone, dunque!).
In breve, allorché l’uomo decide di essere autosufficiente e di non dovere niente a nessuno, inevitabilmente finisce per non comprendere più nemmeno se stesso: perché l’aspirazione a Dio è parte essenziale della sua natura.
L’uomo che volge le spalle a Dio, pertanto, l’uomo che decide di vivere senza Dio, fidandosi unicamente della propria ragione, è un uomo mutilato, sradicato, alienato; è un uomo impazzito di superbia, dimentico delle proprie radici e dei propri autentici bisogni.
Per Pascal, l’uomo non è, propriamente parlando, ma diviene: è la creatura che diviene, perché è la creatura che pensa («una canna che pensa», dirà in un celebre aforisma) e se anche, davanti alla grandezza materiale dell’universo, è quasi niente, nondimeno possiede una dignità e una grandezza morale che lo pongono molto al di sopra di ogni altro ente, poiché egli ha coscienza di sé.
Eppure, senza Dio, senza la ricerca di Dio e senza l’abbandono a Dio, l’uomo è la più miserabile di tutte le creature, perché la sua ansia di assoluto gli si ritorce contro: ovunque egli si volga, infatti, non può vedere realizzata alcuna delle sue aspirazioni supreme: né la bellezza, né la verità, né la giustizia, niente trova quaggiù il suo vero compimento e nessuno sforzo che egli compia, per quanto tenace, riesce a far coincidere l’ideale con il reale.
Bisogna dunque concludere che tutta la vita, che l’intera condizione umana, altro non sono che una beffa, una tragica ironia?
Certamente no, perché la via d’uscita dall’apparente vicolo cieco esiste ed è a sua disposizione, purché egli sappia utilizzare la propria ragione non per inebriarsi del finito, ma per farsi piccolo e umile davanti all’infinito.
Così riassume la questione lo storico inglese della filosofia Alban Krailsheimer, nel suo libro sul filosofo francese, facendo riferimento soprattutto alla «Apologia» (in: A. Krailsheimer, «Pascal»; titolo originale: «Pascal», Oxford University Press, 1980, pp. 63-72):

«… La categorica asserzione che l’uomo è un essere miserabile, costituisce la base di tutta l’argomentazione del Pascal; e mentre le definizioni di tale miserabilità sono aperte a discussione, non così è la tesi, se vogliamo proseguire nel cammino. Che moltissimi individui siano spessissimo scontenti della loro vita, è assai probabile; che tale scontento sia un tratto essenziale della natura umana, in conseguenza della naturale infelicità di questa, è invece un’asserzione a cui s’oppongono  con veemenza, per svariatissime ragioni, perfino i più scontenti. Oscuramente si sente che il diritto alla felicità fa parte del retaggio umano; e la ricerca, per quanto vana, ne è incessante. Anche tra quanti si sentono felici, però, pochi mancano di riconoscere che la perdita della salute, della prosperità economica, o dei loro cari potrebbe da un momento all’atro precipitarli nell’infelicità. Se quasi tutti quindi son d’accordo che la sicurezza e l’appagamento  sono componenti della felicità, l’insicurezza e la frustrazione fanno chiaramente parte di ciò che Pascal  direbbe “miseria”; ma il punto in discussione è, quale dei due stati - felicità o miseria - sia, in ogni senso, naturale dell’uomo. […]
Anche il Pascal, seguendo Montaigne e Socrate, comincia dalla necessità, per l’uomo, di conoscersi. La condizione dell’uomo è di “incostanza, noia, inquietudine”, e molto spesso egli è menato per il naso dai “poteri ingannevoli” dell’immaginazione, della vanità, ecc., che si mascherano da realtà.  Il dualismo della sua natura è affermato chiaramente: “Istinto e ragione, indizi di due nature”. […] L’uomo è appena un giunco, il più debole della natura, ma è un giunco che pensa”. […]
Il Montaigne, una volte demolite le pretese della ragione, s’accontentava di vivere la propria vita così come veniva; ma nel “Colloquio col signor Saci” il Pascal aveva manifestato il suo assoluto disaccordo da tale rotta. Naturalmente si doveva abbandonare l’orgoglio; ma rimaneva il problema dell’inerzia che, smorzando l’infelicità, ammortiva anche ogni rimpianto della grandezza perduta, per non parlare della speranza di rimeritarla. La reazione del Pascal al rifugiarsi del Montaigne in un’amaca d’ignoranza e d’indolenza, è di scuoterla, così vigorosamente, da far sembrare preferibile perfino , al di sotto, il nudo terreno di infelicità. Egli ricorre a tutte le figure stilistiche, per stillare nel lettore un senso di disperata insicurezza; ma nel medesimo tempo non cessa mai d’insistere che c’è un rimedio a disposizione, purché l’uomo voglia cercarlo fuori di sé e della propria debole ragione: “L’uomo trascende l’uomo”. Se invece resta nell’ordine naturale, sia d’istinto sia di ragione, o d’ambedue, l’uomo non potrà mai oltrepassare la propria miseria. […]
Sena una qualche corruzione precedente, l’uomo godrebbe della verità e della felicitò che adesso cerca invano; ma se non le avesse mai conosciute, non avrebbe l’idea di cercarle. Una volta di più, “l’uomo trascende infinitamente l’uomo, e senza l’ausilio della fede rimarrebbe incomprensibile a se stesso.”. la chiave dell’enigma è il peccato originale; il dualismo così rivelato è quello di grazia e corruzione, corrispondenti a grandezza e infelicità. La Caduta, del tutto inaccessibile a ragione o a istinto, taglia il nodo: l’uomo non  è né solo bestiale né solo divino, ma è l’uno e l’altro: divino, per opera della grazia, bestiale per opera della corruzione. […]
L’uomo è una creatura paradossale, divisa tra miseria e grandezza o, in altro senso, divisa tra istinto e ragione; l’origine della sua infruttuosa ricerca di felicità sta nella storia passata dell’umanità, non del singolo; tutti i valori umani, anche la giustizia, sono relativi, la vita è fugace, e futili e distrazioni. L’unico suggerimento esplicito è, che dovremmo ascoltare Dio, e riconoscere che il nostro stato presente rappresenta una caduta dalla nostra vera natura originaria, che era di grazia. Così, una volta di più la teoria onnipresente degli ordini fornisce la direzione; il dualismo puramente umano d’intelletto e materia, dev’essere trasceso, il che può avvenire solo per opera della grazia, terzo ordine che non è sotto nostro controllo, ma che ci viene dato come un libero, immeritato dono di Dio. Finché rifiutiamo d’ammettere che l’uomo trascende l’uomo - dice il Pascal - resteremo  serrati nella origine dei limiti umani. Peggio ancora: il naturale egoismo d’ogni individuo lasciato a sé stesso significa condanna all’isolamento Il prezzo imposto collettivamente a tutta l’umanità per la caduta (finora non specificata) nella corruzione, dev’essere pagato da ognuno di noi individualmente fino alla fine dei tempi, a meno che noi usiamo il dono del pensiero per adottare l’umiltà che porta sollievo,  invece dell’arroganza che ci chiude in cella. […]»

La concezione antropologica di Pascal, dunque, presenta alcune evidenti convergenze con il pensiero dei giusnaturalisti del XVII secolo.
Come per loro, anche per Pascal l’uomo era, originariamente, una creatura buona e felice, dotata di libertà e dignità; quello che resta da chiarire è se, nella natura umana, la parte essenziale sia la miseria che vediamo al presente, o la grandezza alla quale incessantemente essa aspira.
Che la miseria non sia l’elemento essenziale, risulta chiaro proprio dal fatto che essa contraddistingue non l’uomo in quanto tale, ma l’uomo dopo la Caduta: egli è miserabile e infelice proprio perché è decaduto e perché non riesce a trovare il coraggio dell’umiltà: l’umiltà di farsi piccolo davanti a Dio e di ascoltare la voce del Suo richiamo.
La sua infelicità, dunque, non è dovuta alla civiltà, come lo sarà per Rousseau, e meno ancora a una natura ferina originaria, come lo era per Hobbes, ma alle conseguenze del peccato originale e della successiva Caduta; anche se quella Caduta è stata indubbiamente una “felix culpa”, perché ha aperto la strada al mistero dell’Incarnazione e alla Passione e Resurrezione di Cristo (rimandiamo il nostro lettore ad un nostro articolo di due anni e mezzo fa: «Se non ci fosse stato bisogno della Redenzione, vi sarebbe stata egualmente l’Incarnazione?», apparso sempre sul sito di Arianna Editrice in data 29/04/2009).
La cosa notevole è che Pascal non è stato un mistico né un pensatore che tenesse in scarsa considerazione la ragione; è stato un grande matematico, così grande da brillare pur nel secolo in cui la matematica celebrava i suoi massimi trionfi.
Pertanto non vi è, in lui, ombra di disprezzo e nemmeno di condiscendenza verso la ragione; egli ne è, al contrario, un grande ammiratore («una canna che pensa!»); ma non fino al punto da inorgoglirsene e da pensare che essa possa spiegare tutto; che possa riempire, nell’uomo, quel grande vuoto, quel bisogno di assoluto, cui solo Dio può dare appagamento.
La grandezza di Pascal sta proprio in questo ammirare la ragione, ma considerandola come uno strumento che deve essere posto al servizio della vera natura dell’uomo e non già adoperato in modo da fuorviarlo; nel riconoscere che essa è molto, ma non è tutto; e, più ancora, nell’attribuirle non la gelida autosufficienza del solo “spirito di geometria” (come fa, invece, Spinoza, che vuol dimostrare geometricamente perfino le verità dell’etica), ma anche lo “spirito di finezza”, che rende la ragione veramente umana e la colloca nella giusta prospettiva e nella piena consapevolezza del suo ambito e, quindi, anche del suo limite.
In omaggio alla scienza sperimentale, Pascal è convinto che sia sempre necessario «inchinarsi davanti ai fatti»; ma, appunto, egli vede che la miseria dell’uomo è un fatto, così come è un fatto la sua aspirazione alla verità: e ne trae le logiche conclusioni.
Se, dunque, l’uomo senza Dio è un essere incompleto e infelice, l’uomo con Dio è l’uomo ristabilito nella sua autentica natura e, perciò, nella sua gioiosa pienezza e perfezione. Ma, perché ciò avvenga, egli deve aprirsi con umiltà al mistero ineffabile della Grazia divina…