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Ne «La tempesta» di Shakespeare l’eterno dramma umano di peccato e redenzione

di Francesco Lamendola - 21/11/2011




«La tempesta» di William Shakespeare è ritenuta la penultima opera della sua produzione e, in un certo senso, la si può considerare come il suo testamento spirituale; di qui la sua eccezionale importanza nel contesto dell’itinerario culturale e spirituale del suo autore.
Essa appartiene al gruppo dei “romances”, commedie romanzesche caratterizzate dalla rielaborazione delle tragedie e delle commedie precedenti e arricchite dalla presenza di elementi fantasiosi, fiabeschi, mitici e leggendari di varia origine, ivi compresi il folklore celtico e anglosassone e la stessa Commedia dell’Arte italiana.
Ne fanno parte, oltre a «La tempesta», scritta nel 1611, «Pericle», del 1608, «Cimbelino», composto fra il 1608 e il 1611, e il «Racconto d’inverno», sempre del 1611: tutte opere composte negli ultimi anni; solo «Enrico VIII» e «I due nobili congiunti» - quest’ultimo, però, scritto in collaborazione con John Fletcher, come risulta dalla dicitura sul frontespizio; mentre la collaborazione di questi a «Enrico VIII» è solo congetturale - sono posteriori alla «Tempesta».
In particolare, nei “romances” si assiste a una ricomposizione dei conflitti e dei nodi esistenziali che nel teatro shakespeariano precedente non avevano trovato soluzione e avevano generato ulteriori conflitti, violenze, dolori: il desiderio di vendetta nell’«Amleto», l’ossessione della gelosia nell’«Otello», la smania di potere nel «Macbeth», l’ingratitudine nel «Re Lear», l’amore tragicamente contrastato nel «Romeo e Giulietta».
La ricomposizione avviene in virtù di una superiore saggezza, di una più alta comprensione del fenomeno umano, di una più ampia e generosa tolleranza verso le debolezze e le contraddizioni degli uomini; i temi dello scioglimento e del superamento del male commesso o subito, dell’espiazione della colpa, del perdono, della rinascita spirituale, prendono il posto del cupo e spesso irresolubile groviglio delle passioni, le quali, anche nelle commedie precedenti (come nell’incantevole «Sogno di una notte di mezza estate»), gettano sempre un velo di malinconia e di pensosità perfino sugli aspetti più lieti del sentire e dell’agire umani.
Va notato che la ricomposizione avviene sovente per mezzo della magia e del soprannaturale; e che in molte di queste ultime opere shakespeariane un ruolo assai importante, più di quanto fosse mai avvenuto in passato, è svolto dalle figure femminili - nel caso de «La tempesta», quella di Miranda, capaci di esercitare una funzione moderatrice e benefica.
Si è parlato di commedie della “rigenerazione” perché, in effetti, sembra che la chiave del superamento dei conflitti, trasformati da distruttivi in costruttivi, risieda proprio in una capacità di rinascita morale, di una vera e propria rigenerazione dell’anima, simboleggiata, nel caso della «Tempesta», dal fidanzamento e dalle nozze fra Miranda e Ferdinando, il figlio dell’uomo che aveva contribuito alla rovina e all’esilio di Prospero.
Un altro elemento caratteristico dei “romances” è la ripresa di temi già trattati nelle commedie degli anni Novanta del Cinquecento, ma spostando il punto di vista dai giovani agli adulti, dai figli ai genitori e, in particolare, alle figure dei padri, come appunto avviene ne «La tempesta», con Prospero, che ne è il protagonista assoluto.
La vicenda narrata in quest’opera è relativamente semplice e compatta e presenta le caratteristiche unità di luogo e di tempo (ma non di azione) che erano state il fulcro della poetica aristotelica, ma che Shakespeare, nel suo teatro, non aveva quasi mai rispettato, allargando liberamente i tempi e mutando frequentemente i luoghi.
La storia incomincia anni dopo lo svolgersi dell’antefatto, che si può ricostruire mano a mano che l’azione scenica procede.
Prospero, il buon duca di Milano, tutto preso dai suoi studi, era stato spodestato e cacciato in esilio dal suo invidioso fratello, Antonio, che aveva complottato contro di lui servendosi dell’appoggio di Alonso, re di Napoli. Fuggito a bordo di una barca con la figlia ancora bambina, Miranda, e con i suoi inseparabili libri di magia, Prospero era approdato in un’isola misteriosa e disabitata, che gli studiosi di Shakespeare hanno variamente collocato fra l’Adriatico, le coste francesi e le Isole Bermuda, in pieno Oceano Atlantico, al largo delle coste dell’America Settentrionale; quest’ultima, peraltro, sembra l’identificazione più verosimile.
L’isola, in realtà, non è del tutto disabitata: vi dimora una specie di mostruoso selvaggio, Calibano, figlio della defunta strega africana Sicorace; e uno spirito dell’aria, Ariel, imprigionato da lei nella scorza di un albero e liberato, appunto, da Prospero. Passano gli anni: Miranda è divenuta una giovane donna di meravigliosa bellezza, che, a parte Calibano, non ha mai visto un essere umano, all’infuori di suo padre; quest’ultimo, immergendosi nello studio della magia, ha raggiunto un potere sovrano su ogni creatura dell’isola e sulle stesse forze della natura, che gli obbediscono completamente.
Un giorno - e qui comincia l’azione della commedia, che inizia verso le due del pomeriggio e termina nel giro di appena quattro ore, verso le diciotto - Prospero “vede” che al largo dell’isola sta per passare la nave che riporta in patria, dopo il matrimonio della figlia del re di Napoli, oltre  a quest’ultimo, il fratello ed il figlio di lui, Sebastiano e Ferdinando, ed il suo proprio fratello, Antonio; subito comanda ai venti e al mare di scatenare una terribile tempesta, che fa naufragare la nave sulla costa dell’isola, senza però provocare alcuna vittima.
Sbarcati a terra, i nuovi arrivati si dividono, ignari l’uno della sorte dell’altro; Ferdinando, che crede suo padre perito nel naufragio, s’imbatte in Miranda e subito se ne innamora, ricambiato con pari ardore dalla fanciulla. Prospero, pur vedendo con favore quella reciproca infatuazione, vuole mettere Ferdinando alla prova per sincerarsi dei suoi veri sentimenti e, forte delle sue arti magiche, gli impone una serie di lavori e di fatiche; intanto tiene sottomesso Calibano, che recalcitra, ma che sarà destinato a rimanere l’unico signore dell’isola, e lo spiritello Ariel, cui promette la tanto sospirata libertà in cambio dei suoi ultimi servigi.
Manovrando in modo da restare sempre padrone della situazione, Prospero fa in modo che tutti gli scampati al naufragio giungano a lui e infine, dopo il riconoscimento, concede il perdono sia ad Antonio, sia ad Alonso; benedice le nozze di sua figlia con Ferdinando e si appresta a salpare per tornare a casa con tutti gli altri, iniziando una nuova stagione di pace e armonia e rinunciando per sempre all’uso delle arti magiche (in quest’ultima promessa si suole vedere, tradizionalmente, la rinuncia di Shakespeare al mondo del teatro, almeno in qualità di attore).
Il dipanarsi della vicenda è reso più “leggero” dall’immancabile nota comica, rappresentata in particolare da due marinai ubriaconi, Stefano e Trinculo, che stringono amicizia con il deforme Calibano e architettano una ribellione contro Prospero, cercando di sottrargli i libri di magia, tentativo che miseramente fallisce; essi svolgono una funzione analoga a quella degli attori dilettanti ateniesi nel «Sogno di una notte di mezza estate», i quali si dedicano di notte, nel bosco, alle prove della loro commedia involontariamente buffa, «Piramo e Tisbe».
L’elemento soprannaturale è assicurato, oltre che dalla magia “bianca” di Prospero, dal simpatico personaggio del folletto Ariel; così pure vi è un riflesso della magia “nera” nel personaggio, solo nominato perché già defunto, della strega Sicorace, la madre di Calibano.
Anche se Shakespeare non dice in modo esplicito che la vicenda si svolge nelle Isole Bermuda, fa però un misterioso riferimento a «the still vex’d Beermothes»; una allusione, forse, alla fama un po’ sinistra che circondava quelle isole tropicali, chiamate in alcune atlanti «Isole dei Diavoli» (da cui la strega Sycorax?), celebri per alcuni spettacolari naufragi, come quello, avvenuto appena due anni prima della composizione dell’opera, della nave di Sir John Somers; “vexed”, si può tradurre, infatti, con “tormentate”, ma anche con “discusse”, come se vi fosse qualche cosa di poco chiaro in quel paradiso corallino perso in mezzo all’oceano.
Un ulteriore elemento di varierà è rappresentato dalla sofferta dialettica fra Prospero e Calibano, cioè fra il padrone e lo schiavo di pelle scura; molti commentatori vi hanno visto una prefigurazione del dibattito sul colonialismo e, più in generale, sul “diritto”, o meno, degli Europei di sottomettere e dominare le popolazioni degli altri continenti.
Sembra quasi certo che Shakespeare abbia letto Montaigne e specialmente il suo saggio «Dei cannibali», pubblicato nel 1603, nel quale peraltro, viene esaltata la natura schietta e “felice” degli indigeni caraibici, contrapponendola alla natura alienata ed infelice degli uomini che si autodefiniscono “civili”; tanto che si può vedere in quelle pagine l’antecedente diretto del mito illuminista e pre-romantico del “buon selvaggio”.
Infine va segnalato che alcuni studiosi hanno creduto di ravvisare nelle arti magiche di Prospero un riferimento al potere illusionistico del teatro stesso: il drammaturgo, proprio come il mago, è colui che sa evocare una realtà fittizia, una vita di fantasia che, sulle scene, sembra vivere di vita propria e, rispetto alla quale, la vita reale appare non solo come la matrice originaria, ma, a sua volta, come una occasione per riflettere sulla labilità di tutte le cose.
In questo senso, «La tempesta» rappresenterebbe, davvero, la riconciliazione finale con la vita da parte del drammaturgo Shakespeare; colui che, nell’«Amleto», aveva malinconicamente definito la vita umana come «un’ombra che cammina; un povero attore, che si agita e si pavoneggia per un’ora sul palcoscenico e che poi scompare nel silenzio».
Ha scritto l’anglista Aurelio Zanco nella sua «Storia della letteratura inglese», a torto oggi dimenticata (Vincenzo Bona, Torino, 1946, vol. I, pp. 377-79):

«”The Tempest” (“La tempesta”) ha la sua origine nella “commedia dell’arte” italiana, come è stato dimostrato dalle ricerche di Ferdinando Neri che stampò alcuni “scenari” ove la somiglianza del soggetto è palese (F. Neri, “Scenari delle Maschere in Arcadia”, 1913), particolarmente in “Li tre Satiri”, in cui troviamo che gli straneri sbarcati sull’isola vengono scambiati per divinità, e Zanni e Pantalone rubano il libro del Mago, proprio come Stephano e Trinculo progettano di trafugare il libro magico di Prospero. Il Neri, tra l’altro, fece notare che il tema del naufragio e del mago si trova già in una commedia pastorale italiana (“Fiammetta”, 1584) di Bartolomeo Rossi. Lo Shakespeare conobbe anche le vicende di Sir John Somers, il quale fece naufragio nelle isole Bermude il 25 luglio del 1609 con la nave ammiraglia, la “Sea-Venture”. La ciurma riuscì a prender terra e quindi fabbricò due scialuppe col legname della nave, raggiungendo per mezzo di esse la costa della Virginia, da cui ottenne un passaggio in Inghilterra. Nel 1610 apparve un volume di Sylvester Jourdain, uno degli scampati, intitolato “A Discovery of the Bermudas, otherwise called the Ile of Divils”: molti passi del libro ricordano particolari della “Tempest”, onde la derivazione pare, almeno, probabile. Il poeta può essersi  servito anche di libri di viaggi, quali la “History of Travayle” (1577) di Richard Eden, e forse di altri fonti secondarie.
“La tempesta” è una delle più affascinanti opere dello Shakespeare e quella in cui il profondo cambiamento degli ultimi anni si rivela meglio. Una clemenza tanto illimitata pervade queste scene che Victor Hugo non si peritò di affermare essere tutto il dramma null’atro che il ricercato simbolo dell’espiazione umana del peccato originario, il supremo “dénoûment” del sanguinoso conflitto della Genesi, ove la riconciliazione è assicurata attraverso l‘amnistia per il fratricidio. Anche non accettando tale interpretazione a dir vero poco persuasiva, è sempre interessante risalire al motivo che l’ha originata, ossia a quel particolare spirito di tolleranza esalante dalle pagine d quest’opera originalissima in cui, ancora una volta, elementi tragici e comici si accoppiano. Prospero è lo Shakespeare stesso che incatena nel cerchio della sua isola nemici, mostri, folletti, uomini onesti e uomini malvagi, e, con il tocco della sua bacchetta magica, conduce le situazioni più intricate a buon fine, conciliando i contrasti dei caratteri e risolvendo tutto nella comprensione e nel perdono. “It is the study - dice il Masefield - “of a man of intellect, who has been forced from power by a teacherous brother. Living alone with his bright, unspoiled daughter, he attains, by intellectual labour, to a power over destiny. Like the wise man of the proverb he learns to master his stars. He uses this power nobly to put an end to ancient hatred and old injustice” (“È lo studio di un uomo d’intelletto, costretto ad abbandonare il potere da un fratello traditore. Vivendo solo con la sua intelligente e non viziata figlia egli conquista, col travaglio dell’intelletto, il dominio del fato. Come il savio del proverbio egli impara a dominare le sue stelle, ed usa di tale potere nobilmente per porre un fine all’odio antico e all’antica ingiustizia”; J. Masefield, “Shakespeare”, London, 1911, p. 234). Famose, in questo dramma, le canzoni di Ariele, specialmente Full fathom five thy father lies” (I,2) di cui qualche verso fu inciso sulla tomba di Percy Bisshe Shelley a Roma:
“Nothing of him that doth fade
But doth suffer a sea-change
Into something rich and strange" .
(“Nulla di lui è perito che il mare non abbia trasformato in qualcosa di ricco e strano”).»

Certo è che, ne «La tempesta» di Shakespeare, si respira un’atmosfera nuova e diversa rispetto alle opere shakespeariane precedenti: più fresca, più luminosa, ma, al tempo stesso, più pacata e consapevole di ciò che è essenziale alla vita umana.
Ed essenziale è il perdono: è questa la parola definitiva che Shakespeare rivolge al suo pubblico e agli uomini tutti, poco prima di accomiatarsi dal gran teatro del mondo (morirà pochi anni dopo, il 23 aprile 1616), dopo una vita di incessante riflessione sulla condizione umana.
Ma, per saper perdonare gli altri, è necessario prima imparare a perdonare a se stessi: di qui la necessità di assumersi la responsabilità dei propri errori, delle proprie colpe, ed espiarli, rigenerandosi; solo così sarà possibile spezzare il cerchio perverso del rancore, dell’odio e del desiderio di vendetta.
Ed è per questo che, ne «La tempesta», vi è un’atmosfera azzurra, rarefatta e dolcemente pensosa, che ricorda un poco - e sia pure in una diversa prospettiva e con alcune sostanziali differenze morali e religiose - quella del «Paradiso» dantesco.
Espiazione, perdono, rinascita: questo è l’itinerario dell’anima dalla colpa verso la pace, dal male verso il bene, dal buio verso la luce.
Anche perché la vita umana, con tutti i suoi drammi, le sue brame, i suoi timori, non merita di essere presa troppo sul serio, se considerata come un fine in se stessa; in questo, l’ultimo Shakespeare è rimasto fedele al Shakespeare delle opere giovanili, al platonismo un po’ malinconico del «A midsummer night’s dream”» (cfr. il nostro precedente articolo «Malinconia e platonismo nel Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 28/05/2007).
Come dice Prospero nell’atto quarto de «La tempesta»: «Noi siamo della sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra stessa vita non è altro che un sogno».