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La politica degli Stati Uniti nell'area del pacifico

di Mauro Tozzato - 21/11/2011

LA POLITICA DEGLI STATI UNITI NELL’AREA DEL PACIFICO NEL SUO RAPPORTO CON LA RIDEFINIZIONE DEI NUOVI EQUILIBRI GLOBALI


 

Un accordo per la creazione della più grande zona di libero scambio di tutto il mondo è stato messo a punto il 13.11.2011 a Honolulu nell’ambito del vertice Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation). Membri dell’Apec sono 21 paesi: Australia, Brunei, Canada, Cile, Repubblica Popolare Cinese, Corea del Sud, Filippine, Giappone, Hong Kong, Indonesia, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea, Perù, Russia, Singapore, Repubblica di Cina (Taiwan),Thailandia, Stati Uniti, Vietnam.  Dal punto di vista del diritto, e quindi della politica, internazionale, l’Apec viene definito organismo e non organizzazione internazionale perché, essendo composto da economie e non da Stati, è privo di una piena personalità giuridica. L’evento saliente di questo vertice, come sopra accennato, ha riguardato la proposta americana di costituire una nuova zona di libero scambio, la “Trans-Pacific Partnership” (TPP). Ad essa hanno subito aderito, oltre agli Stati Uniti in qualità di promotore: Australia, Brunei, Cile, Malesia, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam, Giappone e Canada. Il 12.11.2011 i partecipanti avevano raggiunto un accordo sulla “bozza” del progetto, mentre nel 2012 i paesi contano di produrre il testo legale dell’accordo. Il “Trans-Pacific Partnership” (TPP) coi suoi 11 paesi rappresenterà oltre il 37% del PIL mondiale, molto di più di quello dell’Unione europea, che ne rappresenta solo il 26%. Questa mossa mira a mettere in difficoltà soprattutto la Cina, ma parrebbe, in prospettiva, dimostrare la volontà degli Usa di voler rafforzare la propria centralità “globale” anche rispetto ad una Europa che dovrà sempre più accettare i diktat di Washington, per tentare di rimanere a galla nella bufera dell’attuale grande depressione. Il 18 novembre scorso, sull’isola indonesiana di Bali,  si è svolta anche la conferenza dell’Asean (l’Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico). L’incontro dei dieci paesi del blocco regionale è stato poi allargato al vertice dell’Asia orientale (East Asia Summit – Eas), che comprende 18 Stati, tra cui per la prima volta la Russia e gli Stati Uniti con la presenza anche del Presidente Usa, Barack Obama. Per capirci meglio l’Asean risulta composta da dieci stati: Thailandia, Malesia, Singapore, Indonesia, Filippine, Brunei, Vietnam, Laos, Birmania e Cambogia. Il Summit dell’Asia orientale, oltre ai suddetti paesi, comprende anche: Stati Uniti, Russia, Cina, Giappone, Corea del Sud, India, Australia e Nuova Zelanda. Durante la conferenza  Obama e il premier cinese Wen Jiabao hanno avuto un breve incontro faccia a faccia, probabilmente in una atmosfera di tensione – considerando l’accordo  raggiunto pochi giorni prima, e di cui abbiamo appena parlato, tra gli Usa e alcuni paesi dell’Apec – pienamente giustificata  da una mossa politica che tutti i principali organi di informazione hanno interpretato in funzione del contenimento della potenza militare e commerciale cinese. Quasi sicuramente i due leader hanno discusso anche di politica economica viste le continue pressioni della Casa Bianca per una rivalutazione forte dello yuan, che sarebbe, secondo gli Usa alla base degli squilibri che avrebbe alimentato la recente grave crisi dei mercati finanziari mondiali (ed europei in particolare). I cinesi replicano sostenendo di avere già fatto abbastanza e ritengono che sia piuttosto Washington a determinare squilibri con la leva del debito pubblico e di quello privato, retti da politiche monetarie lassiste. La disputa ovviamente non è realmente di carattere economico perché almeno in questo caso nessuno può negare la radice geopolitica del conflitto. Tra l’altro proprio all’inizio del  vertice Asean le tensioni nel Mar Cinese Meridionale – dove si contrappongono le rivendicazioni territoriali di Pechino con quelle di molti altri Paesi della regione (Filippine, Vietnam, Malesia e Brunei) – avevano suscitato la reazione del presidente indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono, evidentemente spalleggiato dagli Stati Uniti. Adesso con l’aumentata presenza di militari Usa, fino a 2.500 unità, nel nord dell’Australia e con le esplicite affermazioni di Obama a Bali – il quale ha ribadito che l’America è una potenza del Pacifico e che rafforzerà gli scambi con gli altri stati dell’area – appare chiaro che gli Usa  puntano al pieno dominio nell’area del Pacifico avendo deciso, quindi, di contrastare le ambizioni cinesi in proposito. Secondo Carlo Jean l’aumento della potenza economica e navale cinese avrebbe creato preoccupazione negli altri paesi del sud-est asiatico. Gli Usa cercherebbero di sfruttare questa situazione per accentuare la loro presenza nel Pacifico dove, di fatto, sono rimasti, comunque, sempre la potenza egemone. Secondo Jean

<<L’impegno Usa nel Grande Medio Oriente ha aperto “finestre di opportunità” che la Russia – in Europa, Caucaso ed Asia Centrale – e la Cina, nell’Asia Sudorientale, hanno sfruttato per aumentare la propria influenza. Con il ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan ed il minore impegno in Europa, gli USA dispongono del tempo, del capitale politico e delle forze necessari per “passare al contrattacco”. La loro strategia è molto articolata e coerente nelle sue componenti.[…] Con un rinnovato sistema di alleanze, gli Usa farebbero rimanere la Cina una potenza regionale. Le impedirebbero di trasformarsi in una globale. Manterrebbero la supremazia americana nel mondo. Il secondo motivo per il quale gli Usa attribuiscono priorità alla regione deriva dall’aumento della sua importanza economica. Essa possiede un terzo della popolazione, un quinto del prodotto, due terzi delle riserve monetarie ed oltre metà della crescita mondiali. Assorbe oltre il 40% dell’export Usa. L’unica possibilità per gli Usa di superare la crisi economica, assorbire la disoccupazione e rendere sostenibile il loro debito sovrano, consiste nell’aumento delle esportazioni. Il presidente Obama ha affermato di volerle raddoppiare in cinque anni. Un simile aumento, che sconvolgerà l’economia mondiale, soprattutto quella europea, è fattibile con nuovi legami economici con l’Asia.>>

Se queste previsioni fossero da ritenere attendibili, si potrebbe parlare di un vero sconvolgimento per le grandi aree “regionali” economiche e geopolitiche del pianeta; ma i fattori in gioco sono talmente tanti da rendere assolutamente aleatoria la direzione e i mutamenti nelle prospettive di cambiamento del sistema globale. Sicuramente l’Europa sta correndo un grande pericolo: rimanendo succube della potenza pre-dominante – attraverso la complicità dei gruppi sub-dominanti che governano i paesi dell’Europa centro-occidentale – ci troviamo davanti al rischio di venire emarginati dal filone principale della crescita e dello sviluppo economico-politico mondiale, con gravissime conseguenze per il tenore di vita di una gran parte degli abitanti del nostro continente.