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Sono stati i cacciatori dell’era glaciale a provocare la scomparsa dell’orso delle caverne?

di Francesco Lamendola - 23/11/2011




Verso la fine dell’ultima era glaciale (glaciazione di Würm), circa 10.000 fa, scomparvero anche gli animali che avevano fatto delle caverne la loro dimora abituale o temporanea: l’orso delle caverne (“Ursus spelaeus”), il leone delle caverne (“Panthera leo spelaea”), una sottospecie di leone del Pleistocene superiore, la iena delle caverne (“Crocuta crocuta spelaea”), così come la tigre dai denti a sciabola (“Smilodon fatalis”), dai canini mostruosamente sviluppati, ed il grande cervo irlandese, (“Megaloceros giganteus”), dalle corna di smisurate dimensioni.
L’orso delle caverne era più grande di qualunque specie di orso oggi vivente, compreso il gigantesco orso Kodiak, tanto che un esemplare maschio poteva sfiorare i 900 kg. di peso; era diffuso in tutto il continente eurasiatico durante il Pleistocene e ne sono stati trovati i resti ossei in numerosissime caverne, specialmente dell’arco alpino, dalla Francia, alla Svizzera, alla Germania, all’Austria, alla Slovenia, all’Italia; ma anche nelle montagne di altri Pesi europei, come la Romania e la Gran Bretagna.
La domanda che gli studiosi di paleozoologia si pongono è la seguente: ci o che cosa provocò l’estinzione dell’orso delle caverne, un mammifero che non temeva rivali, con la sola eccezione del leone delle caverne e... dell’uomo?
È possibile che l’uomo, anche in questo caso, abbia provocato, direttamente o indirettamente, la sua scomparsa, così come, forse, è da ritenersi responsabile dell’estinzione di numerosi mammiferi lanosi dell’America Settentrionale, quali il rinoceronte lanoso, il mammut, per non parlare del cavallo; e senza dimenticare il bradipo gigante, un mammifero talmente grosso, che avrebbe fatto apparire piccolo, al suo fianco, persino un moderno elefante (cfr. il nostro articolo «Fu l’uomo a causare l’estinzione dei grandi animali lanosi del Nord America?», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 25/03/2008);  così come, probabilmente, avvenne per il milodonte sudamericano (cfr. «Il milodonte della Patagonia e il mistero della sua scomparsa», sempre sul sito di Arianna Editrice, in data 25/03/2008).
Non possediamo alcuna certezza in proposito, ma esistono diversi indizi che sembrano indicare proprio la specie umana come la principale indiziata di tutte queste estinzioni e, in particolare, di quella del pur temibile orso delle caverne.
Li riassumiamo qui brevemente: la coincidenza temporale fra la diffusione degli uomini della specie “Homo sapiens” e la scomparsa dell’”Ursus spelaeus”; il fatto che entrambi, in un’epoca prolungata di freddo intenso, fossero in competizione per il medesimo habitat, quello delle grotte naturali; il fatto che l’uomo primitivo abbia lasciato numerose testimonianze del suo interesse per il plantigrado - specialmente pitture rupestri - non solo di tipo venatorio, ma anche magico-religioso; il numero impressionante di ossa del grande mammifero in alcune caverne, che può spiegarsi col fatto che queste ultime fossero abitate da più generazioni di orsi, ma anche con l’accumulo degli avanzi del pasto degli uomini primitivi; la circostanza che l’uomo, padrone del fuoco e di armi di legno appuntito, fosse teoricamente in grado di trasformarsi da preda in cacciatore del suo pauroso avversario e, per mezzo di una sapiente organizzazione collettiva delle battute di caccia, godesse di un evidente vantaggio rispetto all’animale; infine l’analogia con altre specie animali recenti, ritenute nocive (anche se l’orso delle caverne, a giudicare dalla dentatura, doveva essere quasi esclusivamente vegetariano), quali il leone, la tigre, il lupo, che l’uomo ha cacciato spietatamente e sistematicamente, fino a condurli vicino all’estinzione.
Bisogna anche considerare che, quando un orso cade in letargo, diviene pressoché inerme e quindi è possibile, anzi probabile, che i cacciatori primitivi abbiano approfittato di un tale vantaggio per penetrare nelle caverne abitate dal plantigrado per ucciderlo, quasi senza rischi, mentre era immerso nel sonno.
Ha scritto Ernst Bauer nel libro «Mondo senza sole» (titolo originario: «Welt Ohne Sonne»., Schreiber, Esslingen, 1970; traduzione italiana di Francesco Saba Sardi, Rizzoli, Milano, 1972, pp. 48-50):

«…Ma che fine hanno fatto i grandi animali abitatori delle grotte, le iene, i leoni, gli orsi delle caverne?
Verso la fine del’era glaciale, circa ventimila anni fa, è suonata l’ultima ora anche per l’orso delle caverne, del quale si sa assai di più che non di parecchie specie oggi viventi.
In alcune grotte della Francia meridionale, il cacciatore dell’era glaciale ha raffigurato l’orso delle caverne con tale icastica acutezza, che è possibile farsi un’idea precisa non soltanto del suo aspetto esteriore, ma anche della sua maniera di muoversi; in base alle ossa rimaste si può, inoltre, risalire alla struttura corporea e alle abitudini di vita del grosso plantigrado. L’orso delle caverne era grande circa una volta e mezzo l’orso bruno, e cioè di dimensioni maggiori persino del “grizzly” (“Ursus arctos horribilis”), l’orso grigio dell’America settentrionale. A differenza degli orsi attuali, si nutriva quasi esclusivamente di vegetali, come risulta dai poderosi molari, utili a triturare frutti, erbe nonché germogli.
Oltre all’uomo e al leone delle caverne, l’orso delle caverne non temeva alcuno. Può darsi che si sia abituato a vivere sottoterra per sfuggire ai suoi persecutori, ma è assai più probabile che vi si sia introdotto spontaneamente per ripararsi dal freddo e dalla pioggia, e per trascorrervi il periodo di letargo invernale.
In molte delle grotte abitate dall’orso delle caverne, sono individuabili rocce contro le quali l’animale si strofinava, e sovente sono riconoscibili i luoghi riservati alle femmine che vi si recavano per partorire, e infatti più volte è capitato di trovare, tra gli ossami di esemplari adulti, gli scheletri di orsi cuccioli. Accanto a questi reperti, si possono rinvenire grandi teschi con creste craniche fortemente sviluppate e con denti appiattiti e consunti, mentre le restanti ossa dello scheletro, soprattutto le articolazioni, appaiono deformate, sembrerebbe da artrosi e affezioni reumatiche; evidentemente si tratta di animali vecchi e solitari, che si ritiravano nelle caverne per morirvi.
Impossibile dire quanti scheletri di orsi giacciano nelle grotte tra gli Urali e i Pirenei.  Si pensi che nella sola Drachenhhöhle [gotta del Drago] di Mixnitz nella Stiria, ne sono stati rinvenuti cinquantamila. È certo che i plantigradi non sono morti in seguito a una catastrofe: la grotta costituiva un luogo prediletto dagli orsi, per cui nel corso di diecimila anni vi si sono accumulati i resti di innumerevoli generazioni.
Nel periodo immediatamente successivo alla Prima guerra mondiale, quando le cose in Austria andavano tutt’altro che a gonfie vele, era difficile procurarsi il concime per i campi, che fu surrogato con la fanghiglia delle grotte che, contenendo grandi quantitativi di frammenti ossei e di sterco, presentava una percentuale di fosfati anche del 15 per cento; complessivamente ne furono estratti e venduti ai contadini sessanta treni, ognuno di cinquanta vagoni. Anche in Romania, in Cecoslovacchia, in Germania e in Austria, si sono sfruttati allo stesso scopo gli strati ad alto contenuto fosfatico dei detriti delle grotte. Ma, per quanto indispensabile possa apparire, specialmente in momenti di crisi, l’approvvigionamento di concime fatto a spese dei resti ossei delle caverne ha comportato a perdita, per  scienza, di materiale preziosissimo e irrecuperabile.
In un’altra grotta abitata da ori, il Drachenloch [buco del Drago], nella zona di San Gallo in Svizzera, è stata reperita un’importante testimonianza degli stretti nessi che intercorrevano tra i cacciatori paleolitici e i plantigradi: dietro un muro di lastre di calcare, si sono trovati soltanto teschi e ossa lunghe articolati  di orsi delle caverne, e quasi tutti mostravano tracce di lesioni procurate dall’uomo. Degno di nota anche quanto è stato rinvenite nel pavimento della grotta: in un cassone di lastre di pietra, si trovavano sette teschi d’orso, tutti col muso rivolto verso l’ingresso della caverna. La singolare collocazione testimonia, forse, una sorta di culto funerario di cui gli orsi sarebbero stati fatti oggetto da parte dei nostri antenati. Ritrovamenti de genere sono annoverati in Austria e in Francia, oltre che in Svizzera, e tutto sembrerebbe deporre a favore di un culto dell’orso, risultato di atteggiamenti che in larga misura trascenderebbero la semplice magia venatoria.
Presso alcune popolazioni siberiane come pure presso gli antichissimi Ainu, abitanti delle  isole più settentrionali dell’arcipelago giapponese, ancora oggi gli orsi sono insieme oggetto di caccia e di culto religioso. Per gli Ainu, l’orso è qualcosa di più di un semplice animale: lo si considera un dio stregato, prigioniero in un corpo villoso, da quale il suo spirito sarà liberato dalla morte. Il culto in questione tocca in particolare gli orsi catturati da piccoli, che vengono nutriti e allevati amorosamente dagli Ainu, per essere uccisi e mangiati durante n’apposita festa a carattere religioso.
Non è da escludersi che anche i cacciatori dell’era glaciale tenessero prigionieri orsi delle caverne, come un tempo i Patagoni del Cile meridionale facevano con il bradipo gigante, specie nel frattempo estinta. E si può anche supporre che a provocare la scomparsa del bradipo siano stati i Patagoni e quella dell’orso delle caverne i cacciatori dell’era glaciale.
Il plantigrado in questione non era un animale completamente cavernicolo, non trascorreva cioè, sotto terra tutta la propria esistenza; l stesso vale per i leoni e le iene delle caverne, come per i tassi, le volpi ei ghiottoni, le ossa dei quali sono state rinvenute in molte grotte…»

Rimane l’enigma di come una specie animale non solo così possente, ma anche così numerosa, sia andata incontro ad una estinzione irreversibile e totale, benché sembrasse perfettamente attrezzata per resistere nel clima dell’era glaciale - e, alla fine di quest’ultima, teoricamente fosse capace di migrare insieme alle nevi in ritirata, verso l’estremo Nord dell’Eurasia o lungo le pendici dei grandi sistemi montuosi, a cominciare dalle Alpi.
Gli scheletri dell’orso delle caverne, infatti, sono stati trovati non a decine o a centinaia, ma addirittura a centinaia di migliaia d’esemplari, disseminati nelle grotte alpine: a Tischofer, presso Kufstein, nei Kaisergebirge del Tirolo; a Wildkirchli; al di sopra del lago  di Vier Waldstatt; nelle Alpi meridionali francesi; e in molte altre località (cfr. Edith Ebers, «La grande  Era Glaciale», Sansoni, Firenze, 1963, p. 126).
L’ipotesi avanzata da Ernst Bauer, che gli uomini preistorici tenessero prigionieri gli orsi delle caverne nelle stesse grotte in cui li avevano sorpresi, per farne oggetto di un vero e proprio culto che culminava nella loro uccisione, è oltremodo suggestiva, ma niente affatto campata in aria; il richiamo al culto dell’orso da parte degli Ainu del Giappone settentrionale, perdurato fino ai tempi moderni, costituisce un credibile elemento a sostegno di essa.
Del resto, è una opinione molto diffusa, ma sicuramente errata, che soltanto l’uomo moderno, per le stesse caratteristiche della civiltà industriale, sia stato in grado di provocare seri danni agli equilibri ecologici del nostro pianeta e, in particolare, di causare l’estinzione di numerose  specie viventi, sia vegetali che animali.
La verità è che tutte le società umane, e dunque anche quelle primitive, hanno rappresentato un fattore di squilibrio ecologico: tanto è vero che a causare l’estinzione del gigantesco “Moa” della Nuova Zelanda non è stato l’uomo bianco, che ancora non vi era giunto, ma i Maori, popolo tecnologicamente arretrato; per non parlare dell’uro o del bisonte europeo e di tanti altri animali, dalla foca monaca alla lince, un tempo frequenti nelle terre e nei mari del nostro continente, ma da secoli divenuti rarissimi o definitivamente scomparsi.
Quando si dice di una società pre-moderna, come quella dei Pellirosse delle Grandi pianure nordamericane, che essa è “ecologica”, ad esempio perché si limitava a cacciare la quantità di bisonti che le erano necessari (mentre l’uomo bianco li avrebbe condotti rapidamente all’estinzione per pura avidità di guadagno), non si intende dire altro che essa riuscì a ritardare di un certo tempo, magari di secoli, gli effetti distruttivi della caccia o di altre attività. Alla fine, però, l’impatto della presenza umana, e specialmente quello causato dalla pastorizia e dall’agricoltura - per non parlare, certo, dell’industria - finisce per rivelarsi ecologicamente insostenibile…