Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Botanica e barocco: il caso di Giovan Battista Ferrari, gesuita

Botanica e barocco: il caso di Giovan Battista Ferrari, gesuita

di Francesco Lamendola - 01/12/2011




Il Seicento, il “gran secolo”, è stato il secolo dello stupore, della meraviglia, della stravaganza; ha visto il sorgere di un nuovo paradigma scientifico e culturale, non più organicistico ed olistico, ma meccanicistico e tendenzialmente materialista; ha assistito all’affermarsi dell’assolutismo, ma anche della monarchia parlamentare; ha salutato i fasti del cattolicesimo tridentino, il rinnovato fervore missionario, ma anche la silenziosa e capillare diffusione di società segrete volte alla radicale scristianizzazione dell’Europa.
Il Seicento, inoltre, insieme al Settecento, ha visto, per usare l’espressione di Serge Latouche, l’”invenzione dell’economia”, nel senso che nel corso di esso si sono affermati i tre capisaldi del moderno assolutismo dell’economia su ogni altra sfera della vita pubblica e privata: l’immaginario economico, l’utilitarismo e il mercato; e, con esso, la superiorità dell’Europa sul resto del mondo, e quella dell’Europa nord-occidentale, che puta sul grande commercio e sulle banche, sul resto del continente, che, invece, attua un vero e proprio ritorno al feudalesimo.
Pienamente conscio dell’importanza dell’economia è, fra i pensatori politici seicenteschi, Giovanni Botero (1544-1617), che, scrivendo i dieci libri del suo trattato «Della ragion di Stato», volle essere l’anti-Machiavelli, ma che, ironia della sorte (o ambiguità del suo pensiero), è passato alla storia come il teorico di quella cinica e prepotente “ragion di Stato” in nome della quale si direbbe che qualsiasi cosa, anche la più turpe, e magari commessa a danno degli stessi cittadini, diventi lecita e possa trovare giustificazione.
L’ossessione della predestinazione pungola, nel Seicento, il cittadino nord-europeo ad accumulare indizi circa il proprio destino dopo la morte: per dirla con Max Weber, lo spirito del capitalismo permea tutta l’etica protestante (e viceversa); mentre il senso del peccato e, contemporaneamente, il senso della tragica labilità delle cose, attanaglia l’uomo sud-europeo: l’uno e l’altro profondamente angosciati e propensi a sfogare le proprie inquietudini attraverso un attivismo e un dinamismo senza precedenti, spesso colorati di utilitarismo.
Nel Seicento l’atmosfera è statura di sensualità: perfino le estasi dei santi e delle sante, come si vede nella scultura di Lorenzo Bernini, sembrano delle estasi sessuali; le descrizioni della flora e della fauna esotiche di un Daniello Bartoli (nella «Istoria della Compagnia di Gesù») sono talmente vivide e corpose, che sembra quasi di vedere, di toccare, di odorare le creature ed i paesaggi esotici rappresentati con straordinario sfarzo linguistica.
La sensualità, faccia nascosta - ma neppure tanto - della religiosità esasperata, fa capolino dappertutto, anche dove meno ci si aspetterebbe d’incontrarla: una donna indemoniata che viene sottoposta, in chiesa, al rito dell’esorcismo, rivela, nella poesia di Claudio Achillini, una dimensione conturbante di erotismo, quale difficilmente si troverebbe in tante donne stilizzate e più o meno angelicate della tradizione stilnovista e petrarchesca.
Il Seicento è anche il secolo della botanica, che sviluppa e porta a maturazione gli stimoli del grande Andrea Cesalpino (Arezzo, 1519-Roma, 1603), il quale, al principio del secolo, nel 1603, con il suo «De plantis», aveva studiato e perfezionato un nuovo schema di classificazione del mondo vegetale.
Giungono, dalle terre e dai mari più lontani, esemplari di piante tropicali; si costruiscono e si ingrandiscono orti botanici, giardini, labirinti vegetali, ora per amore della scienza, ora per la gioia della vista e del’olfatto, ora per il capriccio e la stravaganza di qualche ricco signore, di qualche spirito bizzarro.
La flora esotica (ma anche la fauna, l’abbigliamento, l’architettura esotiche), specialmente se “strana” e vagamente mostruosa, sollecita la fantasia, accende l’immaginazione nella direzione della meraviglia, in quella strana e ambigua regione dello spirito ove il bello confina col deforme ed il sublime trapassa nell’orrido; un sentore di “serre calde” (come dirà, due secoli dopo, Maurice Maeterlinck), un compiacimento di ciò che fermenta, che si espande fuori della norma, che trascolora dall’affascinante al pauroso, si diffonde e soppianta il gusto delle cose ordinate, levigate, armoniose, come lo era il classico giardino all’italiana.
Questa sensualità, che non è necessariamente sinonimo di erotismo, investe ogni aspetto della vita e della cultura; nella pittura, ad esempio, si manifesta nell’immagine di un uomo del popolo che mangia con voluttà, seduto a tavola, servendosi generose cucchiaiate di cibo («Il mangiafagioli» di Annibale Carracci),  oppure nel fasto delle pieghe e nel trionfo coloristico delle vesti delle figure umane, sia nei soggetti sacri che in quelli profani (come nei personaggi femminili del corteo dell’«Aurora» di Guido Reni).
Il gusto della corposità, del colore, delle forme ricercate e inusuali, invade anche l’ambito del mercato librario: il libro seicentesco, con le sue grandi illustrazioni a vivaci colori, curatissime fin nei particolari e sempre caratterizzate dalla sensualità e dall’anticlassicismo, si insinua fin nei trattati botanici, sforzandosi di riprodurre e trasferire sulla carta le forme e le varietà dei giardini, degli erbari, dei vivai e quasi, se ciò fosse possibile, di farne sentire il profumo, sì da avvolgere interamente il lettore nella loro atmosfera ricca di aromi.
Fra i botanici del Seicento spicca, quale interessante figura di poligrafo e linguista, il gesuita toscano Giovan Battista Ferrari (nato a Siena nel 1584 e morto, sempre nella sua città, nel 1655), il quale fu, oltre che un valente grecista e latinista, anche un insigne orientalista, che scrisse un vocabolario di latino-siriaco e tenne la cattedra di ebraico presso il Collegio Romano, per ben ventotto anni.
Pur non avendo la sbalorditiva varietà d’interessi di un altro famoso gesuita del suo tempo, il tedesco, ma trapiantato a Roma, Athanasisu Kircher (1602-1680), Ferrari nondimeno padroneggiò con grande competenza almeno due ambiti culturali: l’antico ebraico e la botanica; ma è in quest’ultimo che ci ha lasciato due opere veramente pregevoli e così rappresentative della curiosità e del gusto estetico seicentesco: «De florum cultura», in quattro libri, del 1633, tradotta e stampata in italiano cinque anni dopo; e le «Hesperides», del 1646.
Quanto al contenuto, il pregio principale dell’opera è quello di aver tracciato una interessante storia della botanica e del giardinaggio, con una particolare attenzione per le specie esotiche; per quanto riguarda l’apparato iconografico - quattordici tavole incise su rame e perfettamente curate dal punto di vista scientifico, per un totale di ottanta immagini di piante e frutti - sono una vera festa per l’occhio del lettore.
Le splendide illustrazioni, in effetti, sono il risultato della collaborazione di alcuni fra i maggiori artisti dell’epoca: i disegni sono opera di Guido Reni, Pietro da Cortona, Nicholas Poussin, Giovanni Lanfranco e Andrea Sacchi, mentre le incisioni sono dovute a Johann Friedrich Greuter, Anna Maria Vaiana e Claudio Mellan, Cornelis Bloemaert.
Così la figura e l’opera di Giovan Battista Ferrari vengono delineate da Massimiliano Rossi (in: Folco Zanobini, «Il presente della memoria», Editrice Bulgarini, Firenze, 1990, vol. 2, p. 546):

«Possiamo considerare tra le opere più preziose dell’editoria seicentesca  i due trattati di botanica, giardinaggio e floricoltura del Padre gesuita Giovan Battista Ferrari, la “De Florum Cultura” del 1633 e le “Hesperides, sive de malorum aureorum cultura et usu” del 1646.
Il Ferrari iniziò la sua formalistica a Siena, ove era nato nel 1584, ma appena ventenne, terminati gli studi, si trasferì a Roma, dove gi fu affidata la cattedra di ebraico al Collegio Romano. Fu umanista, orientalista, letterato, pubblicò opere a carattere religioso, tragedie, opuscoli su aspetti vari del costume del tempo e coltivò, inoltre, per tutta la sua vita, gli studi botanici.
Il trattato sui fiori (che fu anche tradotto in italiano nel 1646 [sic], col titolo: “La Flora, ovvero la cultura dei fiori” si caratterizza per lo stretto rapporto fra il testo, che denota una circostanziata osservazione botanica, e le illustrazioni delle specie floreali: quattordici tavole incise su rame.
Le essenze vegetali sono rappresentate recise, mentre un cartiglio su cui è apposto il nome scientifico si snoda intorno allo stelo. Sebbene le illustrazioni si caratterizzino per la loro scrupolosità scientifica, l’artista è riuscito a giocare con linee e forme, rendendo l’immagine pienamente godibile anche dal punto di vista estetico. La descrizione dell’ibisco è particolarmente minuziosa ed è arricchita dalla rappresentazione grafica del seme visto al microscopio: prima immagine stampata di un vegetale osservato con lo strumento  che proprio intorno al 1626 iniziava ad essere usato nella cerchia degli Accademici Lincei.
Il testo non si limita alla didascalia scientifica ma si dilunga nella progettazione di giardini, di labirinti vegetali, di aiuole a forma di stella, cerchio, ottagono, svelando “segreti” per la tintura dei fiori e “artifici” per ottenere “fiori crespi” o di dimensioni e fogge strane e bizzarre. Il successivo trattato del Ferrari risulta una esauriente indagine  sugli agrumi, in cui l’autore si sofferma sulla classificazione e descrizione delle specie e sulle regole per la loro sistemazione nei giardini.
Nelle ottanta immagini gli agrumi sono rappresentati a piena pagina, con il peduncolo ancora attaccato al ramo, la foglia ben visibile e il consueto cartiglio a nastro. L’incisore è riuscito a ricreare superfici corrugate  o piene di protuberanze, talora invece ha voluto suggerire la levigatezza e la lucentezza dei frutti.
Il gusto per la rarità, per la stravaganza rintracciabile in natura coinvolge il naturalista senese che indugia compiaciuto nella descrizione  di frutti mostruosi. Ricordiamo, a questo proposito,  che le anomalie naturali erano spesso ottenute a bella posta con sofisticati procedimenti ed isolate sull’albero quasi come pezzi da collezione.
I due trattati, come le analoghe opere contemporanee di scienze naturali e di giardinaggio, si propongono come strumenti di “diletto”, secondo il principio di un apprendimento facile e piacevole proprio della poetica barocca.
Una complessa attitudine intellettuale oscillante tra curiosità scientifica e gusto per la “meraviglia” naturalistica comune a scienziati letterati contemporanei come Francesco Redi e Lorenzo Magalotti.»

Gran secolo davvero, il Seicento, nel bene come nel male, nelle sue luci sfarzose come nelle sue ombre inquietanti; secolo di trapasso e perciò di crisi, ma anche di laboriosa e ardita sperimentazione, di affannosa ricerca d nuovi punti d’appoggio, di nuove strade da battere, di nuove certezze in cui credere.
L’uomo seicentesco ha scoperto che il mondo è molto più grande di quello che si era per l’innanzi creduto; che è molto più misterioso, molto più problematico, molto più contraddittorio: o, per dir meglio, è lui che incomincia a vederlo così, dopo che le sue antiche sicurezze sono state scalzate, una dopo l’altra, dal progresso inarrestabile (ma è vero progresso?) della scienza, della tecnica, dell’economia, della finanza, del “libero pensiero”; dopo che il fiducioso movimento del Rinascimento si è spento e nuove inquietudini, nuove insoddisfazioni, nuove curiosità lo hanno sospinto lontano dai vecchi lidi, alla ricerca di qualcosa che lui stesso non saprebbe definire.
Così, tra fremiti di ribellione, come in molta parte della lirica marinista, e inattese nostalgie classiciste, come nella pittura di Claude Lorrain e Nicholas Poussin, c’è spazio anche per i dotti e pur affascinanti trattati di botanica di Giovan Battista Ferrari, orientalista di professione e naturalista a tempo perso, che uniscono l’acribia scientifica dello studioso e il vigoroso senso estetico di un gruppo di eminenti pittori ed incisori, fra i maggiori del tempo.
Anche se non viaggiò in paesi lontani, Ferrari si fece una eccellente cultura floristica occupandosi dei giardini privati del cardinale Francesco Barberini, gli Horti Barberini, in una Roma che, del resto, conservava fin nel suo cuore più antico ampi squarci di verde “selvatico” (si pensi che, ancora nella prima metà dell’Ottocento, il Foro Romano era noto come Campo Vaccino e utilizzato per il pascolo delle mucche); pur entro spazi ristretti, l’uomo seicentesco sognava orizzonti sconfinati…