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Quella scienza genetica malvagia che vuol fabbricare una nuova razza artificiale

di Francesco Lamendola - 05/12/2011






Lo stanno facendo.
Nei laboratori di una scienza malvagia, stanno già facendo esperimenti mostruosi, volti alla fabbricazione di ibridi e chimere, con l’obiettivo finale di produrre una “super-razza” dominatrice, al cui confronto i sogni hitleriani del superuomo ariano appaiono come i balbettamenti goffi e quasi ridicoli di un bambino inconsapevole.
E mentre ciò avviene, non mancano i volonterosi pensatori disposti ad avallare in anticipo (ma, in realtà, a posteriori), in nome di un’etica, come essi dicono, “non sentimentale”, qualunque aberrante esperimento genetico, sia sulle piante e sugli animali, sia sull’uomo stesso.
Uno di questi signori razionali e non sentimentali, tipico rappresentante della flemma britannica, è il filosofo John Harris, classe 1945, docente di Filosofia applicata nel centro di Etica e Politiche Sociali dell’Università di Manchester, ove attualmente ha l’incarico di Direttore di Ricerca, nonché professore di Bioetica presso la stessa università. È anche uno dei direttori dell’istituto di Medicina, Legge e Bioetica dell’Università di Manchester e di quella di Liverpool. Fra i suoi libri più noti si ricordano «Violence and responsibility» (1980), «The value of life» (1985), «Wonderwoman and Superman» (1993, tradotto in Italia nel 1997).
In nome del sangue freddo anglosassone, Harris rifiuta l’etica sentimentale con l’argomento che non sempre lo sdegno o la ripugnanza che le persone provano nei confronti di una determinata cosa è, di per sé, sdegno morale. A riprova di ciò, ricorda quante pratiche, socialmente accettate in determinati tempi e luoghi, perché conformi a determinati pregiudizi, appunto, sentimentali, sono, in effetti, decisamente brutali e crudeli.
Veramente si tratta di un argomento un po’ debole: sia perché, come tutti gli argomenti per esclusione, mostra che l’etica sentimentale può essere discutibile, ma non che il suo contrario, vale a dire un’etica puramente razionale, sia migliore; sia perché trae delle conclusioni maggiori della premessa: dal fatto che, in alcune circostanze, l’etica sentimentale sia capace di giustificare e perpetuare comportamenti crudeli, non deriva che essa sia da rigettare “in toto”: non più di quanto una medicina, che talvolta non sia riuscita a guarire alcuni pazienti, sia da gettare nel cestino, a dispetto del fatto che ne abbia risanati parecchi altri.
Ma tant’è: specialmente nel suo ormai famoso libro «Wonderwoman e Superman», Harris si compiace non solo di uno stile, ma di un complessivo modo di ragionare che punta continuamente al paradosso, allo scandalo, allo stupore e allo sconcerto: se non stessimo parlando di filosofia, o almeno di qualcosa che vorrebbe assomigliarle, ci verrebbe spontaneo fare un paragone con la poetica marinista della meraviglia, nella quale la cosa più importante era quella di stupire il pubblico, a qualsiasi costo e con qualunque mezzo.
Harris si compiace, con una vena di narcisismo appena dissimulata (e che ricorda certi gigionismi perfino imbarazzanti di Bertrand Russell), di fare letteralmente a pezzi tutte le certezze del lettore, mostrandone l’inconsistenza logica e l’insufficienza conoscitiva; nel suo furore iconoclasta non si ferma davanti a nulla e a nessuno, conservando però quella inossidabile imperturbabilità e, peggio, quella caratteristica forma di “humour” britannico, che si manifesta nella risata a denti stretti e che suona semplicemente fuori luogo, in quel contesto bioetico in cui essa viene tanto disinvoltamente  adoperata.
Per fare un esempio dell’anticonformismo di Harris, si può citare la sua posizione circa la questione della clonazione umana: quello che lo stupisce è che ci si stupisca; di fatto, egli argomenta, in natura già esiste la situazione di cui tanto si fa rumore quando si tratta di un risultato prodotto dalla bioingegneria: quella dei fratelli gemelli. Quanto al pericolo che la clonazione umana venga utilizzata per assecondare filosofie aberranti, come quella del nazismo, Harris se la cava con una battuta: si tratta di fantasticherie dovute alla suggestione di qualche film spettacolare.
Quando, poi, passa alla questione della creazione di ibridi e chimere, Harris oppone, come obiezione numero uno, che tali creature spaventerebbero i cavalli: e qui verrebbe già voglia di chiudere il libro, per almeno due ragioni: perché chi pensava di stare leggendo un libro di filosofia si sente preso in giro e perché non è mai piacevole seguire l’umorismo di chi è l’unico a trovare divertenti le proprie barzellette.
Tuttavia, se si riesce a vincere il fastidio e a proseguire la lettura, si scopre che le altre due obiezioni sono che  tali creature mostruose potrebbero “disturbare” il prossimo e che, probabilmente, sarebbero infelici esse stesse. Lasciamo perdere la seconda obiezione e consideriamo la terza: qui viene a galla il substrato filosofico di tutti quelli che, come Harris, si pongono in maniera “spassionata” e “non emotiva” davanti ai giganteschi problemi della bioetica: l’utilitarismo e l’edonismo, entrambi di marca squisitamente anglosassone.
Una cosa è buona e lecita se risulta utile (ma per chi?) e se produce “felicità”, illuministicamente intesa come benessere cumulativo; se non è utile e se non produce felicità, allora vi sono le condizioni sufficienti e necessarie per non farla o per non prolungarla. Inutile dire quali siano le dirette conseguenze di una tale filosofia nei confronti di una vita umana che non risponde a tali requisiti…
Harris, dunque, distingue fra i diversi tipi di manipolazione genetica, diversi quanto alle intenzioni e agli scopi; quella migliorativa, a suo avviso, non si pone in un’ottica diversa da quella, universalmente ammessa, dell’educazione del bambino da parte degli adulti, basata suo principio che alcuni mutamenti devono essere incoraggiati, altri scoraggiati, allo scopo di migliorare l’intelligenza e le prestazioni fisiche dell’individuo.
Era inevitabile che ciò accadesse.
Una volta stabilito il principio della liceità della manipolazione genetica a fini di eugenetica negativa, in particolare per prevenire la nascita di bambini con gravi patologie, era logico che prima o poi qualcuno avrebbe spostato la frontiera un po’ più in là, sino ad includervi le finalità migliorative: perché non agevolare la nascita di bambini più intelligenti e più prestanti fisicamente? Qualcuno doveva dirlo e così è stato.
Che ciò comporti la selezione di una super-razza di individui dotati al di sopra della media, è solo la logica conseguenza. Del resto, Tommaso Campanella non aveva proposto, nella sua «Città del Sole», che i sacerdoti-scienziati-ministri selezionassero gli uomini e le donne destinati ai rapporti sessuali, ad esempio stabilendo che i magri si accoppiassero con le donne grasse e viceversa, affinché la procreazione desse luogo ad una razza più sana e robusta?
È interessante notare che, sul terreno della bioetica, la discussione su questi temi è rimasta finora limitata all’interno di un numero ristretto di persone, senza coinvolgere il vasto pubblico; e che, fra quanti hanno mosso obiezioni alle spregiudicate posizioni sostenute da John Harris, molti si sono mantenuti sul terreno kantiano del Logos calcolante e strumentale, reagendo cioè in nome non della persona umana, ma del bene irrinunciabile della sua “ragione”.
Roberto Satolli, per esempio, in un articolo apparso a suo tempo sulla rivista «Bioetica» (U. Satolli, «Che bella scoperta: la razza», in «Bioetica. Rivista interdisciplinare», Editore Zadig, Milano, 1998, n. 1, pp. 81-86), osservava:

«Se è lecito cercare il miglioramento della prestanza fisica e dell’intelligenza mediante l’educazione, “perché questi scopi non dovrebbero poter essere perseguiti dalla scienza medica?” si chiede il filosofo [Harris].
Arrivati a questo punto cruciale il lettore critico può avere l’impressione di scoprire un punto debole importante: l’idea di educazio0ne che Harris propone come analogia assomiglia assai più alla formazione di buoni soldati in una severa accademia militare (ove è predeterminato il risultato che si vorrebbe ottenere e sono leciti tutti i mezzi per raggiungerlo, anche violenti) che ai metodi di una buona pedagogia rispettosa dell’autonomia dell’educando.
Ancora una vota Kant può essere una guida. Nelle sue “Lezioni di pedagogia” sostiene che l’azione educativa (con qualsiasi strumento venga perseguita) soddisfa criteri di eticità solo se persegue la promozione del consapevole esercizio della ragione in ogni campo; in altri termini le istituzioni educative sono eticamente accettabili solo se si pongono l’obiettivo del massimo sviluppo dell’autonomia dei soggetti educati. La predeterminazione genetica dei risultati non sembra soddisfare queste condizioni.
Forse tutto il mondo futuro vagheggiato da Harris (compresa la nuova stirpe umana, i cui membri sarebbero indotti, anche se non costretti, a riprodursi tra loro) assomiglia a una gigantesca caserma. Nella quale ci si ingegna a produrre quelle differenze di razza umana che non esistono in natura, come hanno definitivamente dimostrato gli studi del genetista italiano Luigi Cavalli Sforza. Ma che una volta create artificialmente con l’ingegneria genetica potranno dispiegare un potenziale malefico e distruttivo infinitamente magiore di quello già dimostrato nello stato di pur pregiudizio senza base scientifica.  Una prospettiva che dovrebbe preoccupare anche chi ha come unico criterio etico l’idea che non si devono introdurre nel mondo sofferenze superflue.»

Questo ragionamento ci trova perfettamente d’accordo nella conclusione, non però nel modo attraverso cui vi si perviene.
Che fare di quei soggetti, di quei nascituri, per i quali non è possibile prevedere un “massimo sviluppo di autonomia”, e tanto meno “un consapevole esercizio della ragione in ogni campo”; ma che, nondimeno, sono suscettibili di sensibilità, affettività, fantasia, sentimento?
Che dire di tutti coloro per i quali non è possibile stabilire nettamente in che cosa consista la loro vita interiore e quale estensione possa raggiungere, quale profondità, insomma quale dimensione qualitativa?
Se si pretende di far coincidere il bene con la ragione, come fanno, per principio, tutti i kantiani e i neokantiani, allora perché ci si dovrebbe ribellare all’idea che una gigantesca caserma di superuomini e superdonne sia meno desiderabile di un mondo imperfetto, contraddistinto da errori, malattie, sofferenze, oltre che da elementi incontestabilmente positivi?
Secondo la ragione, la sofferenza è uno scandalo: dunque appaiono logiche ogni azione ed ogni strategia volte a combatterla, sradicarla, eliminarla.
Ma chi può dire che una componente di sofferenza non sia invece tanto necessaria alla vita dell’uomo, e ancor più al suo progresso morale e spirituale, quanto una certa dose di benessere fisico e interiore?
Sono domande estremamente delicate, ne siamo ben consapevoli; e tuttavia sono domande necessarie. Chi è in grado di stabilire in che cosa consista la felicità e, per conseguenza, quando una vita, che appare priva o povera di essa, sia anche, per ciò, indegna di essere vissuta?
In fondo, il criticismo kantiano condivide con l’edonismo e con l’utilitarismo più cose di quante non sembri disposto ad ammettere: a cominciare dal fatto di sostenere che la vita abbia un valore, ma solo a determinate condizioni; e nel pretendere che tali condizioni possano essere stabilite dall’esterno, non dal soggetto interessato, ma da altri, e sempre in base a un pregiudizio ideologico: il possesso della ragione per il criticismo, il raggiungimento del piacere e dell’utile per l’edonismo e l’utilitarismo.
Ricordiamo l’aurea massima: un paradigma non può giudicare un altro paradigma, perché gli stessi strumenti dell’osservazione e del giudizio non sono imparziali, ma permeati dai suoi valori; dunque, il Logos non può giudicare la qualità di una vita senziente, ma non razionale; né, tanto meno, decidere se essa non sia, o non sia più, degna di essere vissuta.
Qui c’è un grande mistero, un mistero sacro: ed è giusto farsi piccoli davanti ad esso.