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Il Terzo mondo liberato? Scimmiotta gli ex padroni

di Stenio Solinas - 05/12/2011

Lo scambio dei ruoli fra colonizzatori e colonizzati e la creazione di nuove élite in un profetico libro degli anni ’60 di V. S. Naipaul


Negli anni Sessanta, quando I mimi di V.S. Naipaul venne pubblicato, il terzomondismo era già una realtà, il colonialismo un residuo passivo e l’accoppiata nazionalismo + marxismo una sorta di strada obbligata per le ex colonie di Asia e di Africa.



Naipaul era in sé un concentrato di contraddizioni: era indiano, ma era nato a Trinidad, aveva studiato a Oxford, scriveva in un bellissimo inglese, ma nessuno avrebbe potuto prenderlo per un gentleman autoctono, non amava le proprie radici culturali e intuiva d’esser condannato alla marginalità propria degli apolidi: non appartenere a un luogo, non sentirsi a casa in nessun luogo. In più, il suo disprezzo per ogni palingenesi sociale lo poneva ipso facto al di fuori di quello che sembrava essere allora il vento della storia: il riscatto degli umiliati e offesi, il loro avanzare sulla scena politica e sociale come i nuovi protagonisti del cambiamento.

Per spiegare I mimi (che ora esce per Adelphi, pagg. 322, euro 25, traduzione di Valeria Gattei) è sufficiente un apologo che l’autore racconta verso la fine del romanzo. Abolita la schiavitù, una famiglia francese residente ai Caraibi accetta che la propria figlia sposi un nativo. I suoi membri credono nel progresso, vogliono l’integrazione. Manderanno il genero a studiare a Parigi, gli pagheranno l’università. Negli anni, la pratica dei matrimoni misti trasforma i discendenti del ramo francese in gente di colore e quelli di quel primo incrocio in bianchi indistinguibili dal bianco originale. Succede però che un giorno l’erede femmina dei nero-bianchi, di fatto bianca, annunci di voler sposare l’erede maschio dei bianco-neri, di fatto nero, e che suo padre si opponga: «L’aria è carica di insulti razziali. La ragazza si uccide. Il ciclo progressista si chiude; ha raggiunto il suo scopo; non si ripeterà».

La decolonizzazione, secondo Naipaul, è questa cosa qui, una sorta di scimmiottamento grottesco del colore altrui. Anche se nasce con le migliori intenzioni, nelle sue élites intellettuali rimane il disprezzo per le masse che vogliono guidare e liberare, il fastidio «per il solito bouquet d’Afrique», «il lezzo del sudore caldo» dei diseredati. Come in ogni mimo che si rispetti, l’imitazione che il colonizzatore provoca nel colonizzato arriva sino alla completa identificazione del secondo nel primo e al suo rovesciamento finale. Quando ne prende il posto, ne conserva insomma i privilegi, ma ne è la caricatura tragica, perché li esercita sulla propria gente...
Nei Mimi, tutto è presunzione intellettuale.

Mandi i tuoi figli migliori a studiare nelle migliori scuole del regno o della repubblica che ti governa, e ne fai la copia sputata del civil servant o del grand commis che amministra per conto terzi un Paese che non è il suo. Nel tempo l’élite così formata deciderà di abbattere il potere grazie al quale poté formarsi, ma l’imprinting della differenza è troppo forte e praticamente nulla la lega alla sua terra d’origine, se non la demagogia messa al servizio di una lingua e dei costumi conosciuti sì, ma non più praticati. «Ci vuole del coraggio per distruggere un sistema che, per quanto squallido, ti ha permesso di crescere. Non capivamo che quello squallore era un tipo di ordine adatto alla situazione. Lo avremmo capito solo dopo averlo spazzato via».

I mimi del Terzo Mondo sono grotteschi proprio perché vittime di una duplice parodia: nei confronti dei padroni di un tempo, di cui non avranno mai il marchio d’origine, e nei confronti del popolo «liberato», a cui in realtà non vogliono assomigliare, «noi mimi del Nuovo Mondo, di un suo piccolo angolo sconosciuto, con tutte le sue tracce di corruzione che subito faceva marcire il nuovo».
Ellittica storia di Singh, imprenditore e politico indiano-occidentale, la sua ascesa e la sua caduta, le sue avventure sentimentali, la sua educazione inglese, il suo esilio in un albergo londinese, I mimi è anche un’analisi sottile sul potere, il denaro, l’amicizia e il fallimento, scritta nello stile di un tempo in cui il politicamente corretto non era ancora imperante (Naipaul usa il termine «negro», quaranta e passa anni dopo tradotto come «nero»...).

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Soprattutto, è la storia di uno spaesamento, il «vedere noi stessi negli occhi degli altri»: così, Singh si creerà prima il personaggio del «ricco coloniale», per poi assumere quello di difensore dei poveri colonizzati, e suo padre passerà da una giovinezza trascorsa nelle missioni cattoliche a una maturità di rivoluzionario capo religioso indù... Nessuno in realtà sa chi è veramente e ogni tentativo di ancorarsi è destinato al fallimento.
«Nell’antica Grecia si diceva che il primo presupposto di una vita felice fosse nascere in una città famosa. Nascere su un’isola come Isabelle, un trapianto oscuro del Nuovo Mondo, barbaro, di seconda mano, significava nascere nel disordine. Stavo per scoprire che il disordine ha una sua logica e una sua durata. I greci erano saggi».