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Nel «Viaggio in Italia» del marchese De Sade l’arrogante velleitarismo della cultura dei Lumi

di Francesco Lamendola - 06/12/2011





Quando il “divino marchese” intraprende il suo secondo viaggio in Italia, nel 1775, ha trentacinque anni e fugge dalle possibili conseguenze penali di un ennesimo scandalo sessuale, il cosiddetto «affaire des petites filles».
La relazione del suo viaggio, scritta in forma epistolare a una nobildonna probabilmente inesistente (tipico svolazzo galante della cultura settecentesca), rivela un aspetto poco conosciuto della personalità di Sade, quella del turista “illuminato” che si confronta con le bellezze della classica meta dei giovani nobili d’Oltralpe: l’Italia, e particolarmente la Penisola a sud degli Appennini, con le sue città d’arte uniche al mondo: Firenze, Roma e Napoli.
Nel suo bagaglio, oltre ai pregiudizi volterriani nei confronti della religione cattolica e a quelli più generici dell’Illuminismo verso l’arte e la cultura medievali, nelle quali esso non sa vedere altro che rozzezza e barbarie, ci sono alcune guide per viaggiatori colti, o con pretese culturali, come quella dell’abate Richard, dalle quali attinge a piene mani per scrivere le sue note, seguendone pedissequamente tutti i giudizi e tutte le pretenziose stupidaggini; salvo poi sputare sulla mensa che ha saccheggiato e imperversare con acre sarcasmo anche nei loro confronti, ma senza originalità e senza avere affatto elaborato una concezione alternativa dell’arte o dell’Italia stessa.
Per lui, l’arte bella è quella che si ispira alla ragione, mentre è brutta quella che scaturisce dal sentimento e particolarmente dalla fede religiosa: dunque non capisce assolutamente nulla del Medioevo e affastella quasi ogni manifestazione artistica precedente al Rinascimento in un’unica, inesorabile condanna.
Queste mende del suo «Viaggio in Italia» sono, peraltro, abbastanza tipiche del tempo e non sarebbe giusto fargliene carico in maniera particolare: ammesso e non concesso che il viaggiatore imparziale e obiettivo esista, e che, pertanto, nella letteratura di viaggio si possa trovare una fedele e spassionata descrizione dei luoghi, delle persone e delle opere, è certo che la cultura del Settecento, in se stessa, ignorava non diciamo una tale capacità, ma anche soltanto una tale disposizione dell’animo.
Si prendano, a titolo di confronto, le pagine della «Vita scritta da esso» di Vittorio Alfieri dedicate ai suoi viaggi per l’Europa: che si tratti della Prussia o della Moscovia, sempre egli si regola, nel giudizio e nella stessa osservazione, secondo i propri schemi ideologici: i Paesi retti a tirannide, cioè quasi tutti, gli destano orrore e rifiuto, perché su di essi proietta i fantasmi della propria ossessione anti-tirannica.
Il suo soggettivismo esasperato, la sua sfrenata passionalità e soprattutto il suo pregiudizio politico lo spingono a travisare la realtà e ad abbandonarsi a eccessi deplorevoli: i Russi non sono altro che “barbari travestiti da Europei”, la Prussia è “una universal caserma”; solo i luoghi solitari e i paesaggi malinconici e grandiosi lo rasserenano, come le foreste della Scandinavia e la Meseta spagnola, con i loro sovrumani silenzi.
Non faremo carico a Sade, pertanto, di non essere stato un viaggiatore imparziale, né un osservatore scevro da pregiudizi; gli chiederemo conto, invece, visto che egli rivendica per sé il titolo di filosofo, della superficialità, della banalità dei suoi giudizi riguardo a fenomeni di costume, come le pratiche religiose del culto cattolico; e con pieno diritto: vedremo, così, che non si può parlare, in senso stretto, di un pensiero sadiano, se per “pensiero” si intende una riflessione sul reale che sia, nello stesso tempo, critica e originale, ma solo di un groviglio confuso di luoghi comuni sensisti e materialisti, di velleità dissacranti e libertine, di indistinte aspirazioni a un edonismo perverso, titanico e delirante, che non ha nemmeno la sulfurea coerenza di un vero satanismo.
Ne abbiamo già parlato in un precedente articolo (cfr. «Il naturalismo criminale di Sade è figlio dell’ideologia illuminista del progresso illimitato», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 02/05/2011), per cui ci limiteremo ora a quegli aspetti del “pensiero” di Sade - mettiamo la parola fra virgolette - che riguardano l’atteggiamento verso le forme devozionali popolari, quali il culto delle reliquie e la fede nei miracoli.
Riportiamo, a tale scopo, i brani del sadiano «Viaggio in Italia» che riguardano la reliquia della Santa Croce, custodita nella romana Basilica di Santa Croce in Gerusalemme (da: Sade, «Viaggio in Italia»; titolo originale: «Voyage d’Italie»; traduzione italiana di Pietro Bartalini Bigi, Newton Compton, Roma,1993, pp. 122-23):

«La tribuna [nella Basilica di Santa Croce] rappresenta Elena sul Calvario mentre scopre la Croce del Salvatore. Alcuni malati vengono sottoposti all’esperimento dell’imposizione per scoprire quale, fra le tre ritrovate in un pozzo, fosse la vera croce. Elena la sorregge trionfante. Tutto il resto del soggetto si adatta a questa bella trovata, e ammirando il magnifico affresco il cui paesaggio rappresenta certamente la Terra Santa, ci si rammarica che l’arte si sia prestata a perpetuare così l’impostura! Questo pezzo è di Pietro Perugino, maestri di Raffaello. Ma la freschezza denota che il restauro è contemporaneo a quello della chiesa. A destra e a sinistra vi sono due affreschi piuttosto mediocri. Sotto la chiesa si trovano due cappelle comunicanti attraverso un vestibolo nel quale vi è un mausoleo del secondo ordine appartenente al cardinale Besosi. A destra di questo monumento vi è la cappella di sant’Elena. La si vede sull’altare sempre cinta dal suo trionfo. Assicurano che quasi tutto il suolo di questa cappella è formato dalla stessa terra del Calvario. A sinistra, di fronte a questa cappella della santa, ve ne è un’altra che cito soltanto per amore di esattezza, e sopra la quale non sembra vi sia assolutamente nulla da dire. Sant’Elena è una delle sette basiliche di Roma che restano sempre aperte durante l’anno che i cattolici chiamano Santo. Non ci arresteremo qui a narrare la storia di questa santa e fruttuosa pagliacciata della cotte di Roma e continueremo la nostra descrizione! Il pavimento di questa chiesa è a mosaico formato da pezzettini di marmo di vari colori. Tutta la decorazione esterna della chiesa, come quella dei chiostri e dell’interno, é fra le più piacevoli. Si dice che si conservino in questo tempio le preziose reliquie di una parte dell’iscrizione della vera croce, un chiodo di questa stessa croce e un ramo di spine della corona del Galileo. Senza voler disprezzare queste sacre balordaggini, proseguiamo e dimostriamo chiaramente, benché questo ci faccia un po’ allontanare dal nostro soggetto, che vi è da scommettere cento contro uno che questa croce trovata da sant’Elena sia verosimilmente molto lungi dall’essere quella vera e conseguentemente tutti questi pezzi che si trovano a Roma, supponendo (cosa che pure è assai dubbiosa) che appartenessero tutti a questa croce, appartengano a quella di Gesù non più che a quella di centomila altri bricconi, che perirono con lo stesso supplizio per tutto il tempo che durò il regno dei Giudei, i quali, come è noto, facevano morire i criminali soltanto in questa maniera. Il potente interesse che sembra avessero all’inizio i cristiani nel tenere in cinto la madre di un imperatore, che per di più era della loro setta, non è forse già un motivo di sospetto intorno a questa pretesa reliquia? La madre di Costantino trova la vera croce. Questa stessa croce compare a Costantino la vigilia de giorno in cui si accinge a combattere il tiranno Massenzio. Quali effetti produce già la croce? E quanto la politica sembra in questa occasione metterla in gioco?Ma esaminiamo il modo in cui essa si trova.  Elena, visitando i luoghi santi, trova tre croci in fondo ad un pozzo. perché sono proprio quelle di Gesù e dei suoi due compagni? Le iscrizioni non si trovano più, poiché se si fossero trovate, non ci sarebbe stato più il problema di scoprire quella buona. Così eccomi dunque propenso a credere che queste tre croci  potevano appartenere benissimo a qualche altro scellerato, e non a Cristo e ai suoi compagni. Mi sembra che in questo caso non si sono usate per accertarsi della veridicità dei fati, le stesse precauzioni che furono prese per distinguere quella vera fra le altre due, qualora si fosse partiti dal principio che non si aveva nessun dubbio che le tre vere fossero proprio quelle ritrovate. Eccole dunque scelte. Ma sono senza iscrizioni. Come trovare fra esse quella vera?Questa è la prova definitiva che bisognerebbe fare, e quella di maggior fiducia! Si fa venire un malato. Le croci si impongono alternatamente sul malato e si decide che quella delle tre che lo guarirà sarà quella vera.  Ecco l’uomo che forza Dio a fare un miracolo. E sull’autorità di questo miracolo assai incerto bisogna che io ne creda un altro ancora più incerto! Ma poiché era l’uomo che aveva creato il miracolo, perché non l’ha scelto in maniera tale da non provocare più alcun dubbio? Perché la croce miracolosa non si è trasfigurata agli occhi di tre o quattromila spettatori? Perché scegliere proprio una guarigione, che è il più sospetto di tutti i miracoli per la facilità che ci è di subornare il preteso malato e fargli recitare il ruolo che si vuole? In una parola: perché appoggiare un miracolo su un altro miracolo?e voler sempre indurre la natura a smentire la ragione?
Ma non dilunghiamoci ancora su queste banalità, signora contessa, che arrecano troppo disdoro agli uomini! Lasciamo queste miserie e queste assurdità  al popolo che se ne alimenta, e non arriviamo a commiserarle con le nostre lamentele. I fanciulli hanno bisogno di balocchi!»

La prima cosa che balza all’occhio, da un siffatta pagina di prosa, è la sua bruttezza: Sade scrive male, puramente e semplicemente male.
Questo difetto, che generalmente nelle altre opere passa quasi inosservato a causa della estrema crudezza del contenuto, qui appare in luce con evidenza impietosa: la pedante, noiosa prolissità del costrutto sintattico; la povertà e l’imprecisione del lessico; l’andamento faticoso, asmatico del discorso, tutto questo si mostra in piena luce e senza alcuna attenuazione.
Quello che fa Sade non è altro che sciorinare elementi descrittivi uno appresso all’altro, con esasperante monotonia, con ottusa e pedissequa sistematicità, come un rigattiere potrebbe enumerare la merce del proprio magazzino: senza un volo di fantasia, senza un alito di freschezza, senza alcuna capacità di intrattenere e coinvolgere il lettore con qualche variazione, con un minimo di vivacità e fantasia: il suo stile possiede tutti i difetti di un Baedeker “avant la lettre”, ma senza nemmeno i suoi unici pregi: l’esattezza e la completezza scrupolose.
Entrando nel merito dei giudizi estetici di Sade, poi, il meno che si possa dire è che essi appaiono gratuiti e ingiustificati, perché non sorretti da una salda e coerente concezione dell’arte e, soprattutto, perché viziati da un pregiudizio assolutamente antistorico: la teoria illuminista della perfettibilità delle arti e, di conseguenza, la svalutazione sistematica e preconcetta dell’arte medievale e di ogni manifestazione artistica diversa dal classicismo e dal naturalismo greco-romani, ivi comprese l’arte tardo-antica, quella paleocristiana e quella bizantina.
A ciò si aggiungono i frequenti, continui sarcasmi anticattolici, tanto sprezzanti quanto superficiali, e, quel che è peggio, la palese mancanza di una salda base culturale, anzi, di una seria conoscenza della materia trattata: per cui il pressapochismo, la faciloneria e la vera e propria ignoranza dell’Autore emergono di continuo, togliendo ogni serietà ai suoi giudizi.
Solo per fare qualche esempio, nelle poche frasi che abbiamo riportato emerge una grossa confusione fra la Cappella di San’Elena, nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, e la Chiesa di Sant’Elena; una altrettanto clamorosa confusione fra il “regno” dei Giudei e la provincia romana della Giudea; l’assurda affermazione che la crocifissione era la pena di morte abitualmente, anzi, esclusivamente praticata dagli Ebrei, fra l’altro dimenticando che, nella provincia di Giudea, l’esecuzione delle condanne capitali spettava alle autorità romane; una confusione anche fra il SIMBOLO della croce, apparso a Costantino, insieme alla scritta «In hoc signo vinces» - secondo Eusebio di Cesarea - alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio, e la vera croce di Cristo, trovata, secondo la tradizione, da Sant’Elena, madre dell’imperatore.
Le tirate anticlericali e le beffe antireligiose del Nostro, poi, debordano da ogni parte, anche laddove egli ha appena dichiarato di non voler soffermarsi su considerazioni in merito alle credenze cristiane, come se la sua foga iconoclasta gli facesse dimenticare, nel corso della stessa frase, ciò che aveva appena affermato; inoltre i suoi sarcasmi non hanno nemmeno il pregio dello stile brillante, come in Voltaire, ma sono goffi, involuti, quasi illeggibili.
Il libro di Sade sull’Italia ne è addirittura pieno: altre tirate non meno sprezzanti si trovano, ad esempio, laddove, descrivendo il Duomo partenopeo, viene a parlare del miracolo dell’ebollizione del sangue di San Gennaro: anche in quel caso con parecchia esagerazione e parlando addirittura di frequenti assassinî di miscredenti da parte dei fanatici cattolici; forse un ricordo, confuso e iperbolico, della vicenda di Pietro Giannone, che aveva dovuto fuggire da Napoli allorché venne attribuita alla sua incredulità la mancata ebollizione del sangue miracoloso.
Tale è la cultura del “divino Marchese”: raffazzonata, confusa, superficiale; però, al tempo stesso, arrogante, pretenziosa, velenosamente polemica. E tale è anche il suo modo di fare “filosofia”: dilettantesco, velleitario, radicalmente negato alla profondità e alla consapevolezza della problematicità del reale.
Per Sade non vi sono nodi da sciogliere, ma solo superstizioni da irridere, che non meritano nemmeno di essere abbattute: in fondo, il popolo le vuole, dunque che se le tenga; tanto meglio per il dominio di classe dei nobili “illuminati” e libertini come lui.