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Quando Galilei pretendeva di misurare con la squadra e il compasso l’Inferno dantesco

di Francesco Lamendola - 07/12/2011





Come è noto, Galileo Galilei non si interessava solo di questioni matematiche e scientifiche, ma anche letterarie.
Scrisse egli stesso delle liriche petrarcheggianti e versi di gusto burlesco; ma soprattutto si occupò di critica letteraria e, nella disputa fra i sostenitori di Ariosto e quelli di Tasso, con le «Postille all’Ariosto» e con le «Considerazioni al Tasso», prese decisamente posizione in favore del primo, il cui stile gli appariva tanto limpido e naturale, quanto quello del secondo gli appariva arduo e oscuro, nonché inverosimile la costruzione.
Sarebbe più esatto dire che non comprese per nulla la «Gerusalemme liberata»; e, non comprendendola, non seppe fare altro che disprezzarla (Segre-Martignoni): e basterebbe già questo per concludere che, nonostante le sue ambizioni umanistiche e nonostante le lodi sperticate che i suoi ammiratori tributano alla vastità e alla spregiudicatezza del suo ingegno, il suo modo di porsi di fronte a un’opera letteraria era tale da precludergli radicalmente e irrimediabilmente la retta comprensione del fatto estetico.
È interessante sottolineare che le acerbe, spietate critiche rivolte al capolavoro del Tasso muovono essenzialmente dal concetto di verosimiglianza: per Galilei, il poema tassiano è insopportabilmente pieno di situazioni artificiose e innaturali, che lo rendono poco o nulla verosimile; è interessante, perché egli fa della verosimiglianza un feticcio, e, senza avvedersene, confonde la verosimiglianza con il vero naturalistico.
Sembra che lo disturbi il soprannaturale: anche il «Furioso» è pieno d’invenzioni fantastiche, come castelli incantati e cavali alati che volano fin sulla Luna; ma non si tratta di soprannaturale, bensì di liberi voli della fantasia, una fantasia - si badi - tutta laica e mondana. La profonda, sofferta religiosità del Tasso lo lascia indifferente, se non pure infastidito; i suoi angeli e i suoi diavoli gli sono estranei e si direbbe che irritino il suo spirito positivo.
Questo pregiudizio naturalistico e razionalista diviene ancor più chiaro se si prendono in esame  le due lezioni da lui dedicate, nel 1588, al commento erudito della «Divina Commedia», intitolate «Circa la figura, grandezza e sito dell’Inferno di Dante», nelle quali, alla vigilia di assumere l’incarico di lettore di matematica all’Università di Pisa, a ventiquattro anni e senza aver neanche conseguito la laurea, fa uno sfoggio magniloquente di rigore geometrico.
Osserva Floriano Graziati in una relazione presentata all’Ateneo di Treviso (in: «Atti e memorie», anno accademico 2009/10, pp. 25.27):

«…[Nelle due lezioni dantesche] Galileo disquisisce  sulla conformazione dell’Inferno e prende posizione tra opinioni contrapposte a favore delle tesi espresse da Antonio Manetti rispetto a quelle sostenute su questo tema tipografico da Alessandro Vellutello.
Effettivamente l’analisi e il confronto del tutto congetturale e quantitativo operato da Galileo tra le due ipotesi topografiche in termini tanto severi e minuziosi, talvolta venati di spirito polemico, lasciano la nostra moderna concezione sul poema, anche nella visione incline allo strutturalismo, piuttosto perplessa, poco influente  e distaccata agli effetti della rilevanza sostanziale dell’arte poetica dantesca. A noi pare insomma sufficiente di senso cogliere la “verticalità” del poema come espressione da un lato della trascendenza religiosa e dall’altro  dell’architettura gotica, e niente più. Nondimeno il contributo del ragionamento e del metodo di calcolo seguiti da Galileo per determinare  le dimensioni infernali, interpreta  e risolve significativamente i quesiti ovvii e concreti che sorgono nel lettore, ad esempio  circa le proporzioni tra l’orbe terracqueo  e l‘inferno, i volumi dei corpi solidi implicati, la collocazione e la figura  conica del sito infernale, il suo rapporto situazionale con la Gerusalemme terrestre  posta al culmine di una superficie convessa  e perpendicolarmente al centro della Terra, e così via in una sequenza di risposte selettive galileiane coerenti e logiche. Queste soluzioni - di là dallo svolgimento dell’indagine in valori numerici geometrici e aritmetici - postulano e sostengono una serie di corollari illuminanti e significativi circa la visione funzionale, plastica e concreta che Dante conferisce all’Oltremondo.
Bandito comunque l’eccesso di astrusità dell’analisi, riesce avvalorata non solo la conformazione infernale  del cono rovesciato che giunge dall’arco di Gerusalemme fino - udite, udite! - ”al centro della gravità e dell’universo” costituito dalla Terra, ma la stessa sua disposizione ad anfiteatro che nella descrizione galileiana di grado in gradi discendendo, si va restringendo; salvo che l’anfiteatro ha ne fondo la piazza (cioè la platea), ma l’inferno termina quasi con il suo profondo nel centro, che è un punto solo”. Inoltre le investigazioni galileiane in miglia, tutte aritmeticamente e pedantemente motivate dei gradi, dei cerchi, dei gironi, del nobile castello, del Limbo, del burrato di Gerione, della città di Dite, di Malebolge non possono non destare ammirazione e apprezzamento condiviso, in quanto rispondono a uno spirito di comprensione, di coerenza e di rispetto del testo poetico, che rendono appunto anche per il giovane Galileo  il poema senz’altro “sacro”. Particolarmente attento e analitico appare infine  il calcolo della grandezza corporea di Lucifero, ottenuta indirettamente attraverso i passaggi intermedi delle superfici delle quattro ghiacce in cui è conficcato, disposte in decrescenti corone circolari (ovverosia “macine”), da cui risulta un valore gigantesco, che conferma ed eccede giustamente  quello degli appena descritti Giganti e in specifico di Nembrot in questa terzina: “La faccia sua mi parea lunga e grossa / come la pina di San Pietro a Roma / ed a sua proporzion eran l’altr’ossa”. […]
Ritorna invece la predilezione galileiana verso i concetti  tematici quantitativi e geometrici, allorché presceglie di ghiacciare il Cocito, affluente della Caina, Antenora, Tolomea e Giudecca in corone circolari concentriche (e non a sfere lenticolari) e di descrivere il cammino di discesa alla man destra, cioè dando la sinistra verso il centro, aderendo in entrambi i casi alle opinioni sostenute dal Manetti.
In termini altresì di configurazione architettonica ancor più specifica dell’abisso sotterraneo, Galileo prende in esame e discute due soluzioni contrapposte, sintetizzabili in una serie ripida di scese perpendicolari (Manetti) ovvero in declivi più dolci (Vellutello), cioè pendii a somiglianza delle scarpate dei monti. In realtà il dibattito sullo scoscendimento, naturale o manufatto, comporta qualche opinabilità anche secondo Galileo, cui non sfugge la maggiore verosimiglianza naturale del pendio rispetto al precipizio, in riferimento anche al notato digradare concentrico del settore sferico, di topo conico, dalla superficie intorno a Gerusalemme verso il centro terrestre. In conclusione, però, Galileo propende per la tesi del dirupo, in base alla indicazione indiziaria autentica di Dante stesso, secondo il quale le calate erano previste solo una per cerchio e avendo a guardia un diavolo a impedire la risalita dei dannati in fuga verso tormenti meno severi. Dunque, pareti assolutamente inerpicabili, come opinava il Manetti.
Ma, in questo contesto, mi pare soprattutto interessante riportare l’osservazione galileiana – del resto abbastanza ovvia - che ne caso di cerchi, burrati e gironi infernali “le parti superiori prive di sostegno che le regga… indubitamente rovineranno”, il che è un bell’esempio di cognizione in scienza di una radicata massima d’esperienza artigianale, alle soglie della sua stessa imminente legge sulla caduta dei gravi (1604) e della generale parimenti prossima legge newtoniana sulla gravità universale!...»

Ma è proprio vero che, davanti a tanto spreco di acribia, non diremo filologica, ma meramente aritmetica e quantitativa, che nulla aggiunge e nulla toglie al valore della poesia dantesca, né allo spirito che anima la «Divina Commedia», non è possibile altro atteggiamento fuor che quello di «ammirazione e apprezzamento condiviso»?
Ed è proprio vero che le aride, minuziosissime, compiaciute misurazioni quantitative di Galilei della topografia infernale «rispondono a uno spirito di comprensione, di coerenza e di rispetto del testo poetico»; o non è piuttosto vero che snaturano totalmente il senso di quel testo, la sua stessa poeticità, senza in nulla agevolare la pur grata fatica del lettore desideroso di accostarsi all’immortale poema dantesco, ma anzi, aggravandola inutilmente con un complicato bagaglio di nozioni teoriche e con uno sfoggio di sapere fine a se stesso?
Per esempio, di quale utilità può essere al lettore comune di Dante, o anche al suo dotto studioso, sapere quale sia la statura di Lucifero, quali le esatte dimensioni del suo corpo gigantesco, immerso nel ghiaccio del Cocito e proteso dalla vita in su nell’emisfero settentrionale, dalla vita in giù in quello meridionale?
In che cosa, dunque, il lettore viene aiutato, agevolato, incoraggiato dai calcoli matematici di Galilei; come e perché egli dovrebbe sentirsi obbligato verso quel tipo di esegesi letteralistica, che non sembra avere altro scopo se non mostrare che il gran padre Dante ha superato l’esame di scienze matematiche fattogli dal poco modesto studente fiorentino, più che mai a caccia di raccomandazioni e smanioso di mettersi in mostra ad ogni costo?
L’anno prima delle due dissertazioni su Dante egli, dottore mancato, era andato a Roma, ma senza successo, a chiedere una raccomandazione dal celebre matematico tedesco Cristoforo Clavio, per ottenere una cattedra di matematica all’Università di Bologna; il colpo gli sarebbe riuscito poco dopo, nel 1589, su raccomandazione del cardinale Francesco Maria Del Monte (fratello del matematico Guidobaldo: quanto poco le cose sono cambiate nel corso di oltre quattro secoli), questa volta per una cattedra di matematica all’Università di Pisa, con contratto triennale.
Difficile non pensare che il giovane, ma ambiziosissimo scienziato fiorentino non avesse un occhio rivolto alla conquista della cattedra, allorché faceva tanta mostra di scienza matematica, con la scusa di dissertare sul poema dantesco; l’alternativa sarebbe ammettere francamente che, così come non aveva capito assolutamente nulla della «Gerusalemme liberata» (definendo i versi del Tasso «concettuzzi spezzati e senza connessione»), non aveva capito assolutamente nulla nemmeno della «Divina Commedia»; senza, peraltro, perdere l’occasione per fare la sua abituale ostentazione di sarcasmo: a quanto pare, era più forte di lui.
Ora, che nell’Accademia Fiorentina vi fossero dei cervelli che non avevano di meglio da fare che impigliarsi in dispute inverosimili sui particolari più minuti della topografia dell’Oltretomba dantesco; che si accapigliassero per stabilire se Dante e Virgilio, durante la loro discesa attraverso i nove cerchi infernali, avessero tenuto la destra o la sinistra rispetto al centro della Terra, come facevano il Manetti e il Vellutello, è cosa che non stupisce affatto: sempre ve ne sono stati e sempre ve ne saranno.
Ma che il grande Galilei, lo “scienziato umanista” che mostrava d’interessarsi e d’intendersi di letteratura quasi quanto di fisica e matematica, non trovasse miglior passatempo; che non avvertisse minimamente la futilità, l’astruseria, il ridicolo di voler misurare con squadra e compasso i gradi e le distanze dei singoli cerchi e delle singole bolge, come se tali cose avessero la benché minima importanza, il benché minimo significato, al di fuori dell’impressione complessiva che il paesaggio infernale vuol creare per i fini poetici dell’opera dantesca: ebbene, ci sia dato concluderne che ciò non depone a favore della sua capacità d’intendere l’intimo significato del divino poema.
E non ci si venga a dire che tale posizione è tutta moderna e che, al tempo di Galilei, prevalevano altre dottrine estetiche e altre posizioni ermeneutiche; la verità è che il lettore di Dante, purché dotato di un minimo di gusto e di sensibilità e purché capace di porsi con mente limpida e sgombra da atteggiamenti narcisisti, in qualunque tempo ha saputo vedere la differenza tra forma e sostanza e ha saputo cogliere, pur nel realismo delle descrizioni (anche paesaggistiche), la sublime dimensione spirituale del poema sacro.
Tuttavia, per vedere la bellezza bisogna avere occhi capaci di scorgerla: così nel grande, come nel piccolo. E Galilei, che, nel «Saggiatore», altra opera apologetica che trasuda autocompiacimento, descrive la vivisezione di una cicala senz’ombra di rammarico per quella bellezza distrutta, forse non aveva lo sguardo abbastanza umile per cogliere la sovrumana bellezza del poema dantesco.