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Dante in Islanda?

di Francesco Lamendola - 12/12/2011





Prima che l’Occitania cadesse in potere dei crociati scatenati da Innocenzo III nel 1209 contro gli Albigesi, alcuni Cavalieri templari, depositari di un corpus dottrinario gnostico appreso in Palestina, avrebbero costruito il più lontano possibile dagli artigli della Chiesa cattolica, in Islanda, un nuovo Tempio di Salomone ove dare ricettacolo alle loro dottrine segrete, che in un primo tempo avevano sperato di custodire nella Francia meridionale.
Tale corpus dottrinario, vertente sull’autentico insegnamento iniziatico di Gesù Cristo, sarebbe stato conservato nel corso dei secoli da alcuni artisti affiliati a una setta gnostica, fra i quali Dante Alighieri, Sandro Botticelli, Raffaello Sanzio e Leonardo da Vinci, che avrebbero disseminati nelle loro opere degli elementi in codice per alludere al loro sapere segreto e anche al luogo finale in cui era stato depositato e messo al sicuro una volta per tutte.
Il Graal, di cui i cavalieri medievali andavano disperatamente alla ricerca, non sarebbe un oggetto materiale - il calice in cui Giuseppe d’Arimatea avrebbe custodito il sangue versato da Cristo sulla croce, o quello in cui Gesù avrebbe bevuto il vino durante la celebrazione dell’Ultima Cena - ma quel corpus dottrinario segreto, che, passando attraverso i Templari ed i Catari, sarebbe stato tramandato a pochissime persone, una generazione dopo l’altra, affinché non andasse perduto e, con esso, non andasse disperso il vero messaggio di Gesù Cristo agli uomini, ben diverso da quello diffuso dalla Chiesa cattolica.
Fino a questo punto siamo ancora in una zona alquanto inverosimile, ma pochissimo originale, perché si tratta di cose rimasticate innumerevoli volte a partire dall’ormai classico «The Holy Blood and the Holy Grail» di Michael Baigent, Richard Leigh ed Henry Lincoln, pubblicato nel 1982 e iniziatore di tutta una serie di imitazioni e variazioni sul tema, più o meno strampalate, tutte comunque ruotanti attorno al tema centrale di un sapere iniziatico cristiano che la Chiesa avrebbe occultato e che alcune sette gnostiche avrebbero, invece, preservato e tramandato segretamente nel corso dei secoli.
Lo scrittore americano Dan Brown, con il suo romanzo «Il Codice Da Vinci», non è che uno degli epigoni di questo filone sensazionalistico che, in chiave New Age e fortemente anticattolica, partendo da un presunto matrimonio fra Gesù Cristo e Maria Maddalena, sostiene che il Graal sarebbe stato trasportato in Francia e in Inghilterra, ora sotto forma di una discendenza regale rappresentata dai Merovingi, ora sotto forma di una dottrina segreta, in cui larga parte spetterebbe al ruolo della componente femminile della divinità, mentre la Chiesa cattolica ne avrebbe fatto sparire le tracce per avvalorare una religione dogmatica, autoritaria e maschilista.
Tutto questo si potrebbe liquidare come pura e semplice pseudo storia, dato che non si basa su alcun elemento certo, ma solo e unicamente su indizi alquanto arzigogolati e su deduzioni indebite e assolutamente sproporzionate rispetto alle premesse; tuttavia esso ha creato una tendenza e, di conseguenza, un mercato: difficile pensare che possa esaurirsi entro un tempio breve, visto che rende così bene, a dispetto della sua palese assurdità metodologica e mancanza di serietà intellettuale.
Quello che si sperava ci venisse risparmiato era che, sulla base di codici misteriosi nascosti in questo o in quel poema, in questo o in quel dipinto famoso, una seconda ondata di pseudo studiosi incominciasse a raccontarci che i Templari, prima di essere liquidati da Filippo IV il Bello, riuscissero a far partite una flotta carica di tesori dalla Francia, per attraversare l’Atlantico e trovare rifugio in Nord America, già nota e già colonizzata al principio del XIV secolo (come spiegare, altrimenti, la raffigurazione del mais e dell’aloe americana nella cappella della Chiesa di Rosslyn, in Scozia?); anzi, che tale flotta si spinse niente di meno che sui lidi della Nuova Zelanda.
E invece anche questo è accaduto e ha dato luogo a una consistente letteratura saggistica, oltre a far aumentare le vendite di una serie di riviste dedicate a temi pseudo misteriosi, insieme alle solite tiritere sui codici occulti delle Piramidi o sul ruolo nascosto svolto dai Rosacroce nella storia dell’umanità nel corso degli ultimi secoli.
Ma l’ultima inverosimile stranezza, degna di un thriller a sensazione più che di una seria indagine storica, è quella che vorrebbe che Dante si sia recato, nel 1319, in Islanda, per visitare il tempio segreto dei Templari e per apprendere il corpo delle dottrine iniziatiche cristiane, disseminando tracce del suo viaggio nella «Divina Commedia»; così come avrebbero fatto, dopo di lui, alcuni pittori del XV e XVI secolo, come Sandro Botticelli nel dipinto «La primavera» e Leonardo da Vinci nella sua «Ultima cena».
Eppure anche questo è stato detto: e poco importa se il 1319 è uno degli anni che meglio conosciamo della biografia di Dante, quand’egli era passato a Ravenna, presso la corte di Guido Novello da Polenta, e non vi è la benché minima tracia che egli abbia lasciato l’Italia, anzi, che ne avrebbe mai avuto il tempo materiale, oltre che la possibilità; che cosa importano dettagli così irrilevanti, quando c’è qualcuno che afferma di avere trovato la chiave segreta per decodificare opportunamente i versi della «Divina Commedia» e alcune delle maggiori opere pittoriche dell’Umanesimo e del Rinascimento?
Ora, questo qualcuno sostiene - secondo certi suoi calcoli tanto verosimili, quanto lo sono quelli di coloro che ritengono essere nascosti nelle proporzioni della Grande Piramide d’Egitto tutti i misteri dell’Universo, ivi compresa la data della fine del mondo - che Dante, affiliato al Tempio o almeno simpatizzante di esso (e fin qui vada, poiché anche uno studioso del calibro di René Guénon lo pensava) si sia sobbarcato il viaggio fino in Islanda, nel marzo del 1319, per scrivere il «Paradiso» e celare, nei suoi ultimi canti, ciò che Beatrice, da lui incontrata nell’isola artica, magari sotto forma di un gruppo di esuli Templari (e qui, invece, andiamo malissimo, perché le inverosimiglianze cominciano a farsi veramente troppe) gli avrebbe svelato a proposito del mistero del Graal, ossia della dottrina perduta di Gesù Cristo.
A sostenere questa tesi, con perfetta serietà (almeno in apparenza), sono due studiosi italiani, Giancarlo Gianazza e Gian Franco Freguglia, in un libro in cui i calcoli astronomici sulla data e sulla latitudine e la longitudine del preteso viaggio dantesco vengono desunti, secondo modalità a dir poco esoteriche, dai versi del divino poema e dalle linee geometriche immaginarie ricavabili dai suddetti dipinti rinascimentali e il tutto viene poi presentato al lettore con assoluto candore come cosa pressoché certa; senza, ripetiamo, prendersi nemmeno la briga di vedere se, nei dati conosciuti della biografia di Dante, si potrebbe trovare lo spazio materiale per ipotizzare un lungo viaggio fuori d’Italia e sorvolando bellamente sul fatto che nessun accenno esplicito si trovi né in lui, né nei suoi biografi, con la facile argomentazione che egli appunto, così come gli altri seguaci della setta templare segreta, desideravano coprire la realtà del viaggio e dei relativi insegnamenti dietro il velo dell’allegoria e “de li versi strani”.
Peccato che, in questa maniera, si possa affermare tutto e il contrario di tutto a proposito di qualunque argomento e di qualunque personaggio storico: basta sostenere, con sufficiente imperturbabilità, di aver scoperto questo o quel codice numerico e poi prendere un libro a caso, per esempio la Bibbia: le si potrà far dire qualunque cosa, di contenere il calendario Maya o le massime di Confucio, senza dimenticare la profezia dell’esplosione della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki o quella del primo sbarco dell’uomo sulla Luna.
Poco importa anche che l’Islanda sia una terra quasi priva di alberi: poiché la «selva spessa e viva» del Paradiso Terrestre DEVE corrispondere alla zona del fiume Jökulfall in base ai calcoli matematici desunti dal codice che sarebbe stato utilizzato da Dante per rivelarne l’ubicazione ai pochissimi iniziati in grado di comprenderlo.
Scrivono Gianfranco Gianazza e Gian Franco Freguglia nel libro «I custodi del messaggio» (Milano, Sperling & Kupfer, 2006, pp. 199-203):

«Partito dalla questione circa la presenza della data del 14 marzo 1319 nella “Primavera” di Botticelli, l’idea che il personaggio di Mercurio  potesse essere la raffigurazione pittorica del poeta  che nell’ultimo verso del “Purgatorio” si dice “puro e disposto a salire a le stelle” era stata suffragata dalla scoperta della medesima data nella perifrasi astronomica dei primi versi della terza cantica della “Commedia”.
Allora mi ero chiesto che cosa potesse essere avvenuto di così importante nella vita di Dante in quel giorno successivo all’equinozio primaverile , un fatto tanto rilevante da essere stato tramandato da Botticelli in modo cifrato in uno de suoi capolavori. […]
lla luce di questa somma di dati, una prima conclusione a cui inevitabilmente giunsi fu quella di considerare fondata l’ipotesi che la data del 14 marzo 1319 indicasse la data in cui il poeta pellegrino si trova effettivamente in terra d’Islanda nel luogo del Tempio indicatogli da Beatrice con il suo “rimprovero”, vale a dire presso p’anfiteatro naturale lungo il corso del fiume Jökulfall.
Qui giunto, il poeta spira fin dai suoi primi passi a vedere Beatrice nel’anfiteatro  della “candida rosa” che, se nel poema è la sede poetico-allegorica descritta a partire dal XXX canto del “Paradiso”, nella realtà dei dati geografici ottenuti non  poteva che corrispondere a quell’ansa naturale lungo il fiume Jökulfall. […]
Ma, a fronte dei dati ottenuti, come assecondare un’idea così inverosimile? Come poter credere che Dante avesse realmente viaggiato per l’Europa sino a giungere in terra di Islanda?
La risposta a questo naturale dubbio provenne ancora una volta da un’attenta lettura della “Commedia” e dai numeri in essa cifrati ad arte dal poeta.
In “Purgatorio” XVII, proprio nelle terzine che precedono il verso che permette di risalire alla latitudine del punto di ingresso  nella “divina foresta” è infatti possibile l’individuazione delle tappe del viaggio di Dante verso l’Islanda.
Nella seguente terzina troviamo le istruzioni per la decodifica dei versi: “Poscia ‘Più non si va, se pria non si morde,/ anime sante, il fico: intrate in esso, / e al cantar di là non siate sorde’”.
La parola “foco” e l’avverbio di luogo “là” indicano quali versi tra il 43 e il 60 vanno  presi in considerazione per il calcolo,. Dalla posizione di questi termini all’interno degli endecasillabi utili alla decifrazione è infatti possibile  - attraverso ‘ormai conosciuto metodi di decodifica -  le frazioni di grado di latitudine, mentre dal numero del verso il grado di  latitudine […]
Il solo dato della latitudine ricavata, abbinato al percorso della Via Francigena che percorre da Sud a Nord il territorio francese, consente di individuare alcune tappe del percorso di Dante sino a Canterbury, in Inghilterra.
Il tragitto verso l’Islanda sembrerebbe poi proseguire con alcune tappe in Scozia nei pressi del Castello di Stirling, a Inverness, nelle Highlands, e nelle isole Shetland.
Al verso 64, come già visto, viene indicato il punto di approdo a 64° di latitudine nella parte sudoccidentale del’isola.
Ancora una volta, dunque, la decifrazione letterale  suggerita dai numeri indicava anche in questi versi del poema non solo un viaggio allegorico-simbolico, ma anche un viaggio reale, con tanto di tappe intermedie.
I riscontri numerici individuati attraverso questo processo  di decifrazione (in particolare l’incredibile coincidenza tra le coordinate geografiche  ricavate al verso 50 con quelle del punto di imbarco per l’attraversamento della manica indicato nelle cronache medievali) erano talmente precisi da costituire un autorevole conferma all’intero metodo di decodifica fondato sulla numerazione dei versi e sulla struttura dell’endecasillabo.
Ma, pur avendo certificato il viaggio in Islanda, occorreva ancora cercare la ragione per cui il poeta si sarebbe recato in quel preciso punto dell’isola..
Seguendo le indicazioni fornitemi dagli studi di John, avevo già avuto modo di ragionare sul possibile significato simbolico che può assumere il binomio Beatrice-Tempio. Ma, alla luce delle precise indicazioni topografiche con cui è la stessa Beatrice a indicare l’esatta posizione della meta finale del pellegrinaggio del poeta, alla luce degli elementi di conferma tratti dagli affreschi di Raffaello, ora sapevo che il valore poetico della parola “Tempio” poteva anche avere un peso ben più realistico. In quel luogo si sarebbe dovuto trovare un vero tempio, una costruzione reale.
Stando poi alle insistite allusioni di significato sia in Dante sia in Raffaello, ne conclusi che il Tempio in Islanda doveva quantomeno svolgere una funzione analoga a quella di “sancta sanctorum” dell’antico Tempio di Salomone a Gerusalemme.
Tutto mi diceva che al suo interno doveva essre stato sepolto qualcosa che costituiva la vera ragione del “voto” in virtù del quale il poeta-pellegrino intraprende il suo viaggio.»

E pazienza se, di un tale tempio reale, fatto di pietra e di mattoni, non è mai stata vista la benché minima traccia; poco importa anche se, quando Dante licenziava i versi relativi al Paradiso Terrestre, ossia gli ultimi canti del «Purgatorio», era l’autunno del 1315 e quindi mancavano tre anni e mezzo alla data del suo supposto viaggio in Islanda. Queste sono quisquilie, per i nostri autori: l’importante è la giustezza della loro decodificazione del testo dantesco e di alcune pitture rinascimentali, secondo criteri matematici alquanto esoterici, noti a loro soltanto.
Il libro si conclude con l’affermazione che ormai manca appena un passo al disvelamento finale dell’arcano, ossia alla riscoperta del Tempio perduto in terra islandese e, con esso, del sapere smarrito del cristianesimo gnostico; con tale assai ottimistica previsione il benevolo lettore viene congedato, in attesa che gli scavi archeologici confermino, per filo e per segno, la giustezza della chiave interpretativa scoperta dagli autori.
Noi non siamo, né siamo mai stati, nemici preconcetti delle ipotesi storiografiche alternative ed eterodosse; non apparteniamo a quella categoria di dantisti inguaribilmente conservatori, che non ammettono nemmeno la presenza di Dante in Istria e nella Venezia Giulia, nonostante i numerosi indizi che la suggeriscono (cfr. il nostro saggio «Dante e la Venezia Giulia», pubblicato negli Atti della Società Dante Alighieri di Treviso, vol. 3, 2006), anzi, che non vogliono sbilanciarsi nemmeno sulla sua presenza a Treviso, come fanno i redattori dell’«Enciclopedia Dantesca» della Treccani, benché sia cosa più che probabile.
Però, di qui ad affermare con tono apodittico che Dante è stato sicuramente in Islanda, e proprio nel 1319, solo due anni prima della morte; e ciò senza fornire la benché minima prova, ce ne corre: quando ormai quasi tutti gli studiosi di Dante ammettono che anche il racconto di Boccaccio relativo al viaggio di Dante a Parigi e magari fino in Inghilterra è da ritenersi quasi certamente leggendario, pur se andrebbe collocato in un periodo della vita del sommo poeta di cui, effettivamente, siamo poco e male informati.
Ma l’Islanda!...! E allora perché non l’America Settentrionale o, magari, la Nuova Zelanda, ove appunto, secondo alcuni pseudo studiosi, i Templari avrebbero trasferito e messo al sicuro le loro ricchezze e, forse, anche il corpus delle loro dottrine segrete?
Eppure, se si può seriamente sostenere che Gesù sia stato in India, nel Tibet e in Asia centrale (cfr. i nostri scritti «Gesù Cristo dal Golgota al Kashmir» e «Gesù è stato in India e nel Tibet?» consultabili sul sito internet di Edicolaweb), perché non si dovrebbe sostenere che Dante si sia recato a vistare l’Islanda, per giunta nel cuore dell’inverno polare?
In realtà, qualche fragile indizio di una presenza di Gesù nel Kashmir effettivamente esiste, anche se non sufficiente, a nostro avviso, a dimostrare assolutamente nulla di definitivo; mentre niente e meno che niente si può dire per la presenza di Dante in Islanda: nessuna tradizione, sia essa scritta o anche solamente orale: nulla di nulla, nel modo più radicale; solo le astruse ed improbabili congetture dei due autori citati.
Noi non pensiamo, lo ripetiamo, che lo studio della storia debba considerarsi immobile nelle sue certezze; che delle ipotesi nuove e alternative debbano essere scartate pregiudizialmente, solo perché in contrasto con le tesi ufficiali e consolidate. Al contrario: ben vengano le revisioni, le ipotesi nuove, le letture alternative. Ma, per favore, che tutto ciò avvenga sulla base di indizi seri e documentabili e, soprattutto, sulla base di ipotesi di lavoro che non ignorino nel modo più assoluto i dati certi già assodati, il contesto storico generale ed ogni sia pur minimo barlume di buon senso e di ragionevolezza!
Altrimenti, perché non scrivere un bel romanzo di pura fantasia e non un austero saggio con pretese di rigore e serietà scientifica?
In un romanzo sì che sarebbe lecito immaginare Dante in navigazione alla volta dell’Islanda, a bordo di qualche fragile ma collaudato battello scozzese o irlandese, dello stesso tipo di quelli che trasportarono sull’isola e più lontano ancora, fino in Groenlandia, i famosi monaci navigatori, come il celeberrimo San Brandano!
Ma la storia è un’altra cosa: per favore, ricordiamoci sempre che la storia si fa con i fatti, con i documenti, con le testimonianze e non con le congetture, con i codici segreti e con le più bizzarre e stravaganti ipotesi matematiche.