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Per Giovanni Botero, l’anti-Machiavelli, l’autorità del principe si fonda sulla virtù

di Francesco Lamendola - 16/12/2011







Strano destino, quello del gesuita Giovanni Botero (1544-1617).
Come filosofo della politica, egli volle porsi esplicitamente come l’anti-Machiavelli; volle, cioè, confutare la spregiudicata teoria secondo la quale il fine, in politica, giustifica i mezzi; e volle farlo da un punto di vista religioso e specificamente cattolico.
Invece, egli è tuttora ricordato quasi soltanto per la sua teoria della “ragion di Stato”, per di più semplificata e volgarizzata nel senso che qualsiasi cosa sarebbe lecita allo Stato, qualsiasi ingiustizia e prepotenza nei confronti del singolo cittadino, purché appaia come necessaria alla sicurezza e alla preservazione dello Stato medesimo.
Ma era proprio questo che il Botero intendeva, quando parlava della ragion di Stato? Niente affatto; e il filosofo piemontese, di certo, sarebbe il primo a stupirsi e rammaricarsi, se sapesse quale travisamento è stato fatto del suo pensiero.
Nella sua opera più nota, scritta quando era precettore di Federico Borromeo, «Della ragion di Stato» (1589), come pure nelle altre due che l’hanno preceduta e seguita, «Delle cause della grandezza e magnificenza delle città» (1588) e le «Relazioni universali» (pubblicate a partire dal 1590), ispirandosi a Jean Bodin cercò essenzialmente di conciliare le ragioni della politica con quelle della morale, ossia di ricucire lo strappo che Machiavelli aveva operato con tutta la tradizione del pensiero politico, considerato come una branca dell’etica.
Botero aveva le idee chiare in fatto di rapporti fra la religione e lo Stato moderno; abbastanza chiare da essere allontanato dal seminario di Milano per aver negato, in una lezione cui assisteva anche Carlo Borromeo, che ne rimase scandalizzato, l’autorità di Cristo in materia temporale (più tardi, nel 1580, giungerà a dimettersi dalla Compagnia, pur restando sempre legato ai suoi ideali e lasciando ad essa, per testamento, quasi tutti i suoi beni.
Aveva le idee chiare anche in fatto di rapporti fra economia e politica: e questo è l’aspetto più innovativo del suo pensiero; basti dire che intuì, con due secoli di anticipo e contro i fisiocratici, il ruolo preminente dell’industria nello Stato moderno; che formulò una nuova, audace dottrina tributaria; e che può considerarsi un pioniere dell’antropogeografia come propedeutica alla scienza dell’economia politica, di contro al fissismo delle concezioni geografiche allora prevalenti e che risalivano, in buona sostanza, alla tradizione tolemaica.
Nonostante tutti questi meriti, la figura di Giovanni Botero è rimasta a lungo invischiata, e in parte lo è tuttora, nei soliti schemi ideologici che ne hanno fatto un puro e semplice esponente del pensiero controriformista, anche se ormai sono ben pochi gli storici seri che prendono per buono il concetto di una “Controriforma” cattolica da contrapporre, senza sfumature e senza distinguo, a una “Riforma” protestante che sarebbe caduta come un sasso nella morta gora del cristianesimo languente all’ombra di una Chiesa reazionaria e corrotta.
Per Riccardo Marchese, ad esempio, quello di Giovanni Botero rappresenta la massima espressione del pensiero politico “controriformista” (in: Marchese-Grillini, «Scrittori e opere. Storia e antologia della letteratura italiana», La Nuova Italia, Firenze, vo. 2, p. 447-48):

«Il pensiero politico della Controriforma trovò la sua più completa espressione nei dieci libri della “Ragion di Stato” (1589) del gesuita piemontese Giovanni Botero (1533-1617), che esercitarono un largo influsso anche fuori d’Italia e fra l’altro introdussero il termine “ragion di stato” nel dibattito politico. Secondo Botero il potere politico p subordinato a quello religioso e in tanto può essere considerato legittimo in quanto si fa difensore e propagatore delle virtù cristiane: il potere è assoluto e sovrano solo a patto che si sostanzi  di integrità morale. Tuttavia, purché non venga meno questa finalità generale, la legittimità dell’assolutismo non è inficiata da singoli atti malvagi, magari peccaminosi in sé, ma sostanzialmente giustificati dalla bontà de fini e praticamente ammessi come indispensabili strumenti di governo. Insomma, se il principe è cristiano e agisce in stretta collaborazione con la Chiesa, è i qualche modo autorizzato a ricorrere alla deprecata ragion di stato (cioè a quelle azioni viziose che sono necessarie al mantenimento del potere). Il sovrano pere legittimità, e quindi può essere deposto, solo se tradisce le finalità generali del suo potere e si allontana dal magistero della Chiea. Teorie simili si trovano in altri pensatori di area cattolica, che giungono fino ad esaltare il tirannicidio 8e a giustificare quello realmente  compiuto nella persona dell’eretico Enrico III). Del resto posizioni analoghe si riscontrano anche in pensatori protestanti ( i cosiddetti “monarcomachi”) che, naturalmente in modo ideologicamente opposto, teorizzano la disubbidienza nei confronti del principe non rispettoso della fede riformata dei sudditi.»

Ma veniamo senz’altro all’aspetto più noto, e, come si è detto, anche più travisato del pensiero politico di Giovanni Botero: quello riguardante il rapporto fra la politica stessa e la morale, specialmente nella persona del principe.
Scriveva, dunque, Giovanni Botero nella «Ragion di Stato» (a cura di L. Firpo, UTET, Torino, 1948, pp. 69-71):

«Il fondamento principale d’ogni Stato si è l’obedienza de’ sudditi al suo superiore, e questa si fonda sull’eminenza della virtù del prencipe, perché, sì come gli elementi ed i corpi che di essi si compongono ubbidiscono senza contrasto a’ movimenti delle sfere celesti per la nobiltà della natura loro e, tra i cieli, gl’inferiori seguono il moto de’ superiori, così i popoli si sottomettono volentieri al prencipe in cui risplende qualche preminenza di virtù, perché niuno si sdegna d’ubidire e di star sotto a chi li è superiore, ma bene a chi gli inferiore o anche pari. Ma l’importanza si è che la maggioranza del prencipe non sia collocata in cose impertinenti e di picciolo o di nissun rilevo, ma in quelle che inalzano l’animo e l’ingegno, e che recano una certa grandezza quasi celeste e divina, e fanno l’uomo veramente superiore e migliore degli altri, perché, come dice Livio, “vinculum fidei est melioribus parere” [“la lealtà impone di obbedire ai migliori”]; e Dionigio: “aeterna naturae lege receptum est, ut inferiores praestantioribus pareant” [“per legge eterna di natura è stabilito che gli inferiori ubbidiscano ai più valenti, di Dionigi di Alicarnasso]; ed Avito rispose gravemente agli Ansibari: “patienda meliorum impera” [bisogna sopportare il dominio dei migliori”, in Tacito, “Annales”]; ed Aristotele vuole che quei, ch’avanzano gli altri di ingegno e di giudicio, siano per ragione naturale prencipi, e dice che i nobili s’onorano perché la nobiltà è una certa virtù della schiatta e del sangue ed è verisimile che da’ buoni naschino buoni e da’ migliori megliori: e per questo a’ tiranni sono più sospetti i buoni che i cattivi ed i generosi che i vili, perché, essendo essi indegni ed incapaci del luogo usurpato alla virtù, hanno ragionevolmente paura di quei che ne sono meritevoli e degni. […]
Ma, benché ogni virtù sia atta a recar amore e riputazione a chi n’è onorato, nondimeno alcune sono atte all’amore più ch’alla riputazione, altre a rincontro. Nella prima classe mettiamo quelle virtù che sono totalmente volte a beneficare, quale è l’umanità, la cortesia, la clemenza e le altre, che noi possiamo tutte ridurre  alla giustizia e alla liberalità; nella seconda poniamo quelle che recano una certa grandezza e forza d’animo e d’ingegno, atta a grandi imprese, quale è la fortezza, l’arte militare e la politica, la constanza, il vigore dell’animo e la prontezza dell’ingegno, che noi abbracciamo tutte co’ nomi di prudenza e di valore.»

Questa pagina dell’opera più famosa di Giovanni Botero è stata pensata e scritta in aperta polemica con il celeberrimo capitolo XVII del «Principe» di Machiavelli e come tale va meditata e discussa, se si vuole comprenderne l’intimo significato.
Si è a lungo rimproverato al Botero, e lo si rimprovera ancora, di aver ammesso in pratica, mediante una serie di cavilli e di eccezioni, quel che in teoria egli negava, ossia la facoltà dell’uomo di calpestare l’etica in nome della ragion di Stato, vale a dire dei superiori interessi della politica; e si è voluto vedere nel suo pensiero una tipica contraddizione di quel drammatico momento della storia della cultura italiana, stretto fra l’assolutismo spagnolo, il conformismo cattolico tridentino e l’assenza di un modello di monarchia nazionale cui fare riferimento, come l’avevano, al contrario, Jean Bodin e altri pensatori politici d’Oltralpe.
Addirittura, si è voluto vedere in lui un esponente di quella contraddizione morale e quasi sociologica in cui la coscienza nazionale si trovava impigliata, fra la pressione delle istituzioni da una parte e la voce della coscienza dall’altra; quasi un Amleto in salsa italiana, ma con l’aggravante - per la critica dominante negli ultimi decenni, che era quasi tutta di ispirazione marxista - del suo cattolicesimo e della sua militanza nell’ordine dei Gesuiti, visti come gli esponenti per eccellenza del conservatorismo e dell’ipocrisia.
Ma è attendibile una simile interpretazione?
Tanto per cominciare, quel difetto del carattere nazionale, se è tale, risale al pensiero laico del Rinascimento, come è illustrato dal caso di Francesco Guicciardini: colui che fu, sul piano politico e militare, uno dei massimi responsabili della sciagura irreparabile del sacco di Roma nel 1527, ma che, nei suoi «Ricordi», non aveva esitato a trasformarsi da accusato in accusatore, scagliandosi con inaudita violenza contro l’istituzione ecclesiastica, al servizio della quale era stato, giungendo fino ai gradi più alti.
Nel passo che abbiamo riportato, si vede come Botero sostenga la preminenza dell’etica sulla politica, anzi, faccia addirittura della prima la base della seconda: se il principe è virtuoso, egli afferma, i sudditi non gli ricuseranno obbedienza, perché chi è inferiore riconosce spontaneamente la propria subordinazione nei confronti di chi gli è superiore.
A tutta prima, questa posizione può sembrare viziata da ottimismo ingiustificato; tuttavia non si può negare che abbia anche degli argomenti a suo favore, a cominciare dal fatto, confermato dalla pedagogia moderna, ma già riconosciuto da quella antica (vedi Quintiliano), che l’autorità del maestro poggia sulla sua autorevolezza e sulla sua coerenza, ossia, per usare i linguaggio di Botero, sulla sua “virtù”.
Si noti che la virtù di cui parla Botero non è la stessa di Machiavelli; per quest’ultimo, la virtù è l’elemento della umana intelligenza, della spregiudicatezza, della abilità, con le quali l’uomo può prevenire e reagire, almeno in parte, ai colpi della Fortuna, elemento irrazionale presente nella storia umana; per Botero, invece, si tratta proprio della virtù etica, che non può essere separata dall’agire politico, anzi, ne è per così dire la necessaria garanzia.
Nel suo rifarsi al concetto dei “migliori” come naturalmente destinati al governo delle nazioni, inoltre, Botero sembra richiamarsi alla «Repubblica» di Platone, fondendo così il pensiero politico greco con quello cristiano medievale e specialmente tomista. A ciò aggiunge anche la dimensione razionale propria della tradizione rinascimentale: per lui è «verosimile» - dunque non certo, ma ragionevolmente probabile - che i buoni nascano dai buoni e i migliori nascano dai migliori.
Capovolgendo, poi, la prospettiva di Machiavelli, ma rifacendosi, indirettamente, ancora a Platone, egli sostiene che il tiranno teme i buoni piuttosto che i malvagi, perché la virtù dei sudditi è incompatibile con la tirannia, mentre questa è perfettamente compatibile con la loro malvagità. Le virtù, a sua volta, possono essere raggruppate in due grandi categorie: quelle riconducibili alla giustizia e quelle riconducibili al valore: più disinteressate le prime, ma non meno necessarie al principe le seconde.
In fondo,  Botero si richiama non solo alla tradizione cristiana («l’albero buono non può dare frutti cattivi, e viceversa»), ma anche alla migliore tradizione del pensiero politico classico; mentre Machiavelli, sostenendo che il principe non può essere soltanto buono, perché altrimenti i sudditi non lo temerebbero e lo disprezzerebbero, e che può anche essere vizioso, purché i suoi vizi non interferiscano con il potere, si richiama alla tradizione borghese e  mercantile dell’«industria» (nel senso che ha, per esempio, nel «Decameron» di Boccaccio): la capacità, tutta laica e terrena, di saper volgere a proprio favore anche gli imprevisto della Fortuna.
Da questa tradizione nasce il pensiero politico moderno e, con esso, la pratica politica moderna: con un agire umano che è separato dalla dimensione etica e che risponde solo alle finalità specifiche e contingenti da cui è mosso: insomma la razionalità dei mezzi, indipendentemente dalla razionalità, e soprattutto dalla eticità, dei fini.
Con Botero, invece, udiamo una delle ultime voci di un altro pensiero politico: quello che non perde mai di vista i fini e che non ritiene leciti tutti i mezzi; un pensiero che, pur fra ondeggiamenti e contraddizioni, conserva comunque l’idea centrale, propria della tradizione platonica e cristiana, che non tutto è lecito in nome della politica e della ragion pratica.
Il lettore di questi nostri giorni, caratterizzati dallo strapotere amorale della scienza, della tecnica, della finanza, giudicherà quale delle due concezioni abbia saputo vedere più lontano e quale abbia tuttora più cose da dirci, nelle nostre presenti difficoltà e angustie.