Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / 2011-2111. Tra cento anni: Florenskij, Nick Black Elk e un sacchetto di carta

2011-2111. Tra cento anni: Florenskij, Nick Black Elk e un sacchetto di carta

di Andrea G. Sciffo - 19/12/2011


L’anno si chiude sempre con la fine dell’autunno, ultima stagione: l’addio al 2011, anno di colore grigio sangue, di ombreggiature da luce artificiale, porta con sé la percezione di qualche cosa di indistinto ma certamente paragonabile a un buio che si è allungato a coprire tempo e spazio.

Per questo c’è una certa figura negli appunti che qui sotto trascrivo; per quanti invece sono convinti che “c’è la crisi” e dunque sia necessario ricominciare a “crescere” e favorire lo “sviluppo” o comunque che bisogna “andare avanti”, le mie parole appariranno come tessere scomposte di un mosaico senza senso.

Oggi siamo invitati da voci mute ma insistenti a tollerare l’intollerabile. Alcuni esempi? Quando ci viene detto che dobbiamo sopportare la veduta di un tratto autostradale con macchine in coda perenne, o abituarci al brusio ininterrotto del traffico sulle tangenziali o al silenzio impuro dentro il capannone di una fabbrica/industria, o accettare la visione di un corpo umano in forma, o assuefarci all’odore dell’aria di una città postmoderna, oppure subire la prospettiva di una libreria contemporanea con la sua skyline di volumi freschi di stampa. Si potrebbe continuare, ma a che pro? A molti sono noti i tratti della “società incessante” dentro la quale ora si deve vivere, ma il cui carattere unificante è la creazione di un contesto nel quale venga impedito fare i veri incontri rivelatori, grazie ai quali si incomincerebbe a vivere, cioè a passare al bosco, a cooperare, a continuare ad amare, a rallentare, ad affacciarsi sulla vita e sulla morte, ad addentrarsi all’infinito né soli né accompagnati.

All’avvio di un simile camminamento, possono esserci varie guide ma nessun istruttore o personal-trainer; per questo io qui segnalo due o tre sentieri possibili: sono stati praticabili per molti, lo sono per me, lo saranno per altri. Nonostante la “società incessante”, i varchi sono tuttora aperti perché nessuno di questi valichi chiude mai per neve.

 

In Eurasia, nel 2111?

Il primo grande frutto della fine dell’autunno è, sempre, l’inverno: due stagioni attaccate per tramite del lungo e gelido lembo di una notte solstiziale. Tempo di rari e decisivi incontri.

Nella nebulosa luce dei giorni più corti dell’anno, il primo incontro da fare è con Pavel Aleksandrovic Florenskij, nato a Evlach in Azerbajdžan il 9 gennaio del 1882, da padre russo e madre armena che vivevano su carrozze ferroviarie concesse agli ingegneri in opera sul cantiere: primo di otto fratelli, il futuro “Leonardo da Vinci russo” crebbe a Batumi, in Georgia, tra gli effluvi tiepidi del Mar Nero e l’influsso delle alture del Caucaso. In queste fredde settimane, accomodiamoci tra le pagine del suo impedibile Ai miei figli. Memorie di giorni passati (Oscar Mondatori, 2009; pp.396 €10), un diario abissale destinato alla sua prole, quattro figli, e redatto tra il novembre del 1916 e il novembre del 1925 con un tono quieto e ricolmo di urgenza: quasi che lo scienziato russo presentisse l’imminente disastro per sé e per tutti. Sarà infatti arrestato per la prima volta dai Soviet tre anni dopo; scarcerato, ma riarrestato con un pretesto, trascorrerà una lunghissima straziante detenzione in un GULag alle Solovkij, per morire fucilato dall’NKVD in un bosco l’8 dicembre 1937. Per molti decenni, in Occidente, tutto ciò è stato ignorato, sepolto nei documenti segreti del KGB negli archivi della Lubjianka moscovita, al punto che Elémire Zolla sbagliava a segnalare la data del decesso florenskiano persino in una riedizione del 1998 di un testo di cui parlerò più oltre.

Oggi però il rimescolamento alchemico di popoli, nazioni e idee ha riavvicinato l’Europa al suo Est: le viste più acute parlano di nuovo di Eurasia. Si può dunque contrastare il mormorio ottuso della “società incessante” anche leggendo un libro unico, quello di Avril Pyman, PAVEL FLORENSKIJ. LA PRIMA BIOGRAFIA DI UN GRANDE GENIO CRISTIANO DEL XX SECOLO (Lindau, 2010; pp.511 €38); è una vera e propria incursione nella selvatica e edificante verità delle cose: aiuterà a conoscere da vicino Florenskij, cioè l’autore di frasi come questa: “Il fatto che al mondo ci fosse l’incognito non era, per come lo intendevo io, una condizione transitoria della mia mente che ancora non aveva conosciuto tutto, ma una peculiarità sostanziale del mondo. L’ignoto è la vita del mondo. Perciò era mio desiderio conoscere il mondo proprio in quanto incognito, senza violare il suo mistero. Poiché dai simboli il mistero del mondo non viene celato, ma anzi si rivela nella sua vera sostanza. Cioè in quanto mistero” (scritto il 25 giugno 1929 a Sergiev Posad).

È tra l’altro qui, tra le pagine della biografa Avril Pyman, che si scoprono eventi nascosti della giovinezza di Florenskij, come la misteriosa chiamata del maggio 1894 quando, dopo la morte dell’amata zia Julija, nella calda notte georgiana il dodicenne stentava a prendere sonno, e “avvertì improvvisamente una spinta interiore che lo  buttò giù dal letto e lo indusse a lanciarsi nel cortile illuminato dalla luna, con un tale impeto che nemmeno passò dal balcone ma ne scavalcò direttamente la ringhiera. Una voce nitida, che poteva essere tanto maschile quanto femminile […] lo chiamò per nome: Pavel!. Non ebbe dubbi che fosse il richiamo di una voce reale. Sentì pronunciare il suo nome una seconda volta: Pavel!, e allora fu certo di avere dinnanzi a sé una strada che era chiamato a percorrere. Sono eloquenti persino le bizzarre reazioni adolescenziali di Florenskij: come quando dovette recarsi in Germania, nel 1897, accompagnato da altre due zie, presso un sanatorio di Dresda perché l’adolescente soffriva di un disturbo psicosomatico agli occhi, e la casa di cura si chiamava Weißer Hirsch. È una coincidenza il fatto che negli ultimi anni tra le decorazioni natalizie cittadine il Cervo Bianco sia ritornato a dominare con silente eleganza?

C’è inoltre un’altra pagina di memorie presenti, la fanciullezza in terra abcasa, che riemerge dal passato con una strana fluorescenza:

“Ricordo le mie impressioni di bambino – scrisse all’età di 41 anni – e non mi sbaglio: sulla riva del mare mi sentivo faccia a faccia con l’Eternità amata, solitaria, misteriosa e infinita dalla quale tutto scorre e alla quale tutto ritorna. L’Eternità mi chiamava e io ero con lei […] Le mie successive convinzioni religioso-filosofiche uscirono non dai libri di filosofia – che, tranne rare eccezioni, leggevo poco e con scarso trasporto – ma dalle mie osservazioni di bambino, e soprattutto dal tipo di paesaggio a cui ero avvezzo” (p.43).

Florenskij ha un suo rinascimento ora, in un’epoca che educa gli uomini a barare anche con i propri presentimenti, non soltanto con i sentimenti; un’epoca in cui i dotti hanno chiuso la porta e gettato la chiave: non solo non entrano loro, ma non lasciano entrare gli altri.

L’abnegazione costante di questo genio russo, l’offerta di sé anche per i compagni di sventura nella detenzione, è un simbolo: il segno di ciò che sarà impossibile raggiungere da parte dell’umanità cresciuta di recente, costretta a convivenze forzate in classi scolastiche, spogliatoi atletici, bande di pari, branchi teppistici. Col risultato di avere due generazioni di “adulti” succubi del giudizio comune, acquirenti di sogni fabbricati in laboratorio, e di anziani incapsulati nel comfort degli appartamenti-con-badante in attesa di un ricovero terminale “in stanza singola”. Ogni pagina di Florenskij gronda però di un dono che potrebbe spiovere, se studiare significasse amare: il russo coniugò l’antica incomprensibile parola “misericordia” secondo l’etimo di miseri cordes dare cioè “dare i propri cuori al misero”.

Per questo, anche mettendo in conto il tracollo della civiltà filosofica internazionale occidentale, tra un secolo, nel 2111, la figura e l’opera di Florenskij saranno ancora con ogni probabilità conosciute: allora, di me che sto scrivendo e di voi che leggete non sarà alcun ricordo; morta per demenza senile la memoria del proprio nonno, ogni vecchio alla fine porta con sé nella tomba l’oblio di tutti gli avi che i suoi nipoti non conosceranno mai, neanche per sentito dire.

 

Il sacchetto di carta del filosofo

Un esempio. Nell’ottobre del 1993, l’operaio-filosofo autodidatta Mario Marcolla salì le scale per venirmi a trovare mentre, indisposto, ultimavo la redazione finale della mia tesi di laurea: ci eravamo conosciuti appena, per lettera e per breve telefonata.

Aveva un sacchetto di carta in mano, di quelli che si usano per la spesa al supermercato, e dentro c’erano dei libri che costituivano la summa della sua esperienza di intellettuale atipico: copie uniche, rare, fuori-catalogo. Me li prose, prestandomeli (a uno sconosciuto!): oltre a Del Noce, Quadrelli, Voegelin, Sedlmayr, trovai il tomo La colonna e il fondamento della verità di Florenskij nell’edizione cartonata della Rusconi, quella del ’74, che non ebbe nessuna recensione a mezzo stampa; ne aprii le pagine e, pur non potendo dire di averlo capito, fui introdotto in universo. Quel sacchetto di carta, biodegradabile, oggi è trasfuso in altre forme; prima o poi, anche quei famosi libri, essendo anch’essi di carta.

Secondo esempio. Nel tardo pomeriggio dell’8 dicembre del 1995, in una stanzetta a forma di poligono irregolare, presso la Piazza Duomo di Monza, oggi adibita a deposito oggetti ma allora conviviale tavolo di riunioni culturali, Marcolla riuniva in una sorta di agàpe alcuni giovani studiosi che aveva benevolmente aiutato: e così s’incontrarono Marco Respinti, Massimo Maraviglia e Bernardino Casadei e pochi altri, oggi dispersi o diversamente operosi. Al termine, Marcolla di fece recitare un’Ave Maria: “è per Florenskij” disse. Conosceva la data precisa, consultava le carte giuste. Tutto il suo operare è apparentemente finito in niente; non si vede, ma c’è.

 

Nick Black Elk, il suo vero nome

La caratteristica che accomuna le storie di uomini tanto distanti nello spazio geografico è di essere stati vittime. Anche Alce Nero subì analogo destino poiché tutti conoscono il “suo” libro intitolato Alce Nero parla, però ignorano come esso sia opera libera e inaffidabile di uno scrittore che nascose un dato essenziale della vita di Black Elk: il suo vero nome.

Certo, il giovane sioux lakota era stato iniziato a stregone della sua tribù, e aveva pronunciato dalla sommità di una collina quella frase stupenda che a ricorre sempre in mente: “Osserva la bellezza e la stranezza della terra”. Ma dal 1904 il trentottenne sciamano oglala della riserva di Pine Ridge era divenuto cristiano, battezzato col nome di Nicolas Cervo Nero (sì, perché nell’area delle Grandi Pianure gli Elk non erano “alci”): da allora sino alla morte, Nick si rallegrò perché il suo nome era scritto in cielo. Del resto, gli errori e le sviste volontarie nel racconto della storia dei “pellerossa” sono tanti: merito del pensiero massone in chiave anticattolica e del pensiero cattolico in chiave antimassonica e del pensiero protestante contro l’una e l’altra.

Però l’inverno è lungo, e se ci si inoltra sotto il mantello delle sue tante notti gelide con il libro di Michael F. Steltenkamp, ALCE NERO, MISSIONARIO DEI LAKOTA (Leonardo Mondadori, 1996; pp.222 L.25.000 [fuori catalogo]), magari dopo aver letto di Florenskij o di Marcolla, nella scia bluastra del freddo illuminato dalla luna, si noteranno alcune corrispondenze.

Prima: la presenza invisibile degli antenati e degli avi, qui come là; seconda, l’energia inesauribile dei tre protagonisti, malgrado gli ostacoli: la loro anima resa forte e corporea della preghiera, dal respiro; terza, di tutti e tre il cambiamento senza cambiamento, altrimenti detto “conversione”; quarta, l’elezione personale “al modo di Melchisedek”; quinta, la loro accettazione riottosa del martirio incruento/cruento senza accusare il proprio popolo, a difesa del proprio popolo; sesta, il nascondimento finale, quel morire anonimamente senza o con il segno nel cielo.  Dobbiamo fermarci solo per motivi di spazio. Per quanto riguarda i Nativi Americani, si potrebbe approfondire almeno con lo studio di Paolo Poponessi, MISSION. I GESUITI TRA GLI INDIANI DEL WEST (Il Cerchio, Rimini, 2010; pp.116 €16).

Si osservi che Florenskij moriva nel 1937 e Nick Black Elk nel 1950: parliamo tuttavia del Novecento, il secolo sconosciuto, nel quale siamo nati. Al termine di questo articolo, ho la percezione che tutto ciò che ho detto dei tre uomini c’è, ma non si vede.

Il mondo sarà di nuovo abitabile quando in ogni casa ci sarà sempre qualcuno: come fu per la stramba famiglia dei Florensij nella carrozza ferroviaria presso il Caucaso, o nella tenda dei nativi il gruppo famigliare di Nick Black Elk. Come nelle abitazioni di trent’anni fa, quando vedevo i vecchi al davanzale (e quanto fiorivano, avendo compagnia, i vasi di rosmarino e basilico!) o sul balcone a “guardar passare il tempo”: anche se da otto anni Mario Marcolla non è più fisicamente nel proprio appartamento, i celtis australis del viale sottostante crescono malgrado tutto. Testimoni e annunciatori di epoche più felici.

 

Andrea G. Sciffo