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L’anno che verrà

di Francesco Lamendola - 02/01/2012




Come sarà il nuovo anno? Che cosa ci porterà? Qualche cosa di bello, di sereno, di gioioso, oppure qualche cosa di brutto, di doloroso, di triste?
Sono queste le eterne domande che la gente si pone all’avvicinarsi di ogni Capodanno; salvo poi rifarsele, assolutamente identiche, l’anno seguente, e il successivo, e così via, un anno dopo l‘altro, fin verso la fine, quando ormai resta ancora poco futuro e non si ha quasi il coraggio di fare il conto delle probabilità di vedere un altro Capodanno.
Ebbene, che c’è di male a domandarsi tali cose?  È normale, è umano; da sempre le creature umane se le pongono, da sempre il loro cuore si protende verso di esse, quasi aspettando una sentenza di salvezza o di condanna, di vita o di morte.
Di male non c’è niente, assolutamente niente. Però…
Se ci si pone in un atteggiamento di attesa, di aspettativa, di dipendenza da qualcosa di esterno, si parte già con il piede sbagliato: si incomincia l’anno non come noi lo vorremmo, ma come noi speriamo o temiamo che possa rivelarsi; il che è molto diverso.
Il tempo, di per sé, non significa molto: di per se stesso, il trascorrere del tempo non offre garanzie di maggiore saggezza, né, tanto meno, di maggiore fortuna o di maggiore felicità; può anzi diventare un nemico, non in se stesso, ma nella percezione che abbiamo di esso, allorché ci accorgiamo che ci sta sfuggendo tra le dita come la sabbia in riva al mare, e vediamo con raccapriccio che la più gran parte di esso se n’è andata, insieme alla giovinezza con tutti i suoi sogni.
Le persone che si sentono tradite dal tempo, che pensano di averlo sprecato, di non averne ancora abbastanza a loro disposizione, in genere scivolano verso il pessimismo, l’amarezza, talvolta il cinismo; dicono: «Ormai è troppo tardi per qualunque cosa buona, non mi resta che vivere alla giornata, afferrando le occasioni che mi si dovessero offrire»; ma, il più delle volte, quelle famose occasioni non si presentano mai, e i giorni scorrono inerti, grigi, tutti uguali, così come le settimane, i mesi, gli anni, inesorabilmente.
Dunque: la prima cosa da tener presente, quando si ragiona del nostro rapporto con il futuro, è che noi abbiamo veramente un solo tempo a nostra disposizione: il presente; il futuro non è ancora, il passato non è più; per quanto allettante, o terrorizzante, possa profilarsi il futuro, e per quanto dolce, o, al contrario, triste, possa presentarsi nella memoria il passato, né l’uno né l’altro hanno realmente a che fare con noi.
Concentrarsi sul proprio presente, sul “qui e ora”, non significa, naturalmente, che si debba sradicare la pianta dei ricordi, né che ci si debba gettare avanti senza alcuna riflessione circa il domani; significa che non bisogna lasciarsi condizionare da essi in maniera determinante, perché noi siamo qui e adesso, non siamo altrove, non siamo prima o dopo, siamo ora, e ogni istante che passa è accompagnato dal nostro movimento, anzi, il nostro movimento è tutt’uno con il tempo che scorre, siamo una cosa sola, esso è noi e noi siamo lui.
La seconda cosa importante da tener presente è che vivere sino in fondo il presente non significa dissolversi nelle sue infinite possibilità; il paradosso dell’asino di Buridano ci insegna che, se non vogliamo perire, arrivati davanti a una scelta, dobbiamo imboccare decisamente un sentiero a preferenza di un altro, il che significa che continuamente ci autodeterminiamo, ci investiamo della specificità dell’aut-aut, scegliamo di essere questo oppure quello, non possiamo essere questo e quello contemporaneamente .
Questo, almeno nella dimensione della vita ordinaria; perché nella dimensione della meditazione, anticamera dell’Assoluta, noi siamo anche quello, siamo questo e quello, siamo pienezza di un tutto cosmico.
La terza cosa importante è che noi non siamo una cosa sostanzialmente diversa dalle nostre attese e dalle nostre aspettative, così come il nostro corpo non è una cosa sostanzialmente diversa dall’aria, dall’acqua e dal cibo che ingeriamo, con le sue sostanze nutritive, con i suoi minerali, con le sue proteine, con le sue calorie.
Porsi in un atteggiamento spirituale positivo, sorridere alla vita e ringraziare tanto il nuovo anno che subentra, quanto il vecchio che se ne va, equivale a nutrire la propria anima di cibi sani e sostanziosi: il cane non abbaia contro l’uomo che se ne va sicuro per la strada e che non mostra segni di paura, ma contro il viandante timido e insicuro, che sobbalza dallo spavento e che pare sempre sul punto di volersene scappare via a gambe levate.
In altre parole: i sentimenti e i pensieri positivi attirano le cose positive, i sentimenti e i pensieri negativi attirano le cose negative; perciò non serve domandarsi se l’anno nuovo ci porterà cose buone o cattive, è molto più importante che noi ci poniamo al lavoro per realizzare le cose buone, con fiducia e con serenità, invece di paventare in continuazione che le cose possano andarci male e che la sorte possa accanirsi contro di noi.
E non serve a nulla dire che Tizio è più fortunato di Caio, che molte circostanze esterne non dipendono da noi, e così via; la fortuna è anche il risultato del mostro modo di porci davanti ai fatti della vita e, quanto alle circostanze cosiddette esterne, molte di esse, forse la maggior parte se non proprio tutte, sono - in realtà - la risultante del nostro modo di essere.
La salute, per esempio: se si conduce una vita disordinata, ansiosa, depressiva; se si tratta male il proprio corpo, se lo si nutre di cibi cattivi, se non lo si tiene in forma con una minima dose di esercizio fisico, allora non serve prendersela con la cattiva salute, bisogna imparare ad ascoltare i messaggi del corpo e dedicargli più attenzioni; e lo stesso, a maggior ragione, vale per i fatti dell’anima: le emozioni, i sentimenti, i pensieri.
Anche gli incontri importanti che facciamo nella vita non dipendono dalla fortuna, ma dal nostro modo di essere: se non siamo capaci di prenderci cura di noi stessi, di crescere, di guardarci dentro con occhio limpido, necessariamente finiremo per metterci nelle mani di qualcuno che deciderà per noi, che agirà per noi, che penserà al nostro posto.
Se non ci vogliamo bene, incontreremo persone che ci deluderanno; se non sappiamo perdonarci, incontreremo persone che ci faranno del male: senza rendercene conto, noi cerchiamo esattamente quello che è in sintonia con il nostro stato interiore, sia nel bene che nel male; il male che gli altri ci fanno, a ben guardare, è il male che noi stiamo facendo a noi stessi, servendoci, certo non del tutto consciamente (tranne nel caso del masochista patologico), degli altri, così come l’alcolista cronico cerca lentamente il suicidio, non osando uccidersi senz’altro.
Ne deriva che, per incontrare le persone, le situazioni e le cose che imprimeranno una svolta positiva alla nostra vita, o che la manterranno sulla strada del bene, noi dobbiamo imparare a diventare adulti, ad assumerci la responsabilità di noi stessi, a guardare in faccia sia nella nostra parte più intima, sia negli altri: non dobbiamo idealizzarli, non dobbiamo demonizzarli. Essi sono quello che sono, sta a noi scegliere gli incontri buoni.
Non possiamo fare le eterne vittime, cioè gli eterni bambini; dobbiamo conservare la freschezza e lo stupore dei bambini, ma dobbiamo anche affinare le qualità proprie dell’adulto: la ponderatezza, la capacità di far tesoro dell’esperienza, la tenacia, la forza di volontà, la chiarezza degli obiettivi che intendiamo perseguire.
Non dobbiamo nemmeno idealizzare o demonizzare noi stessi: non siamo così belli come vorrebbe il nostro sfrenato narcisismo, ma neppure così orribili come ci suggeriscono il nostro disprezzo di noi stessi, la nostra mancanza di autostima.
Entrambi gli atteggiamenti nascono da debolezza della volontà e da carenza di onestà interiore; entrambi vorrebbero precostituirci una situazione artificiale, nella quale noi siamo, a seconda dei casi, i migliori o i peggiori di tutti; ma questo non è vero: noi siamo esseri in movimento, cioè in divenire: non siamo così o così, siamo suscettibili di trasformarci continuamente, e tale trasformazione può essere per il bene o per il male, ciò dipende molto più da noi che dagli altri o dalle famose circostanze esterne.
Ma che cos’è il nostro bene, che cos’è il nostro male?
Eccoci arrivati al nodo decisivo; questo è il punto attorno al quale gira tutto il resto, come la ruota gira intorno al suo perno centrale.
Il nostro bene non è necessariamente che tutto ci fili via liscio e senza intoppi; il nostro bene è che noi riusciamo a metterci in sintonia con la nostra vocazione, con la nostra chiamata da parte dell’Essere: anche, talvolta, a prezzo di rinunce, sacrifici, sofferenze.
Sarebbe bello se noi potessimo crescere e migliorarci per mezzo di cose sempre belle e piacevoli; invece, nella natura umana, c’è qualcosa di oscuro e misterioso, per cui, in pratica, succede che anche i migliori di noi crescono ed evolvono allorché sono messi alla prova, magari rudemente, non quando si godono beati un lungo periodo della propria esistenza con il vento in poppa, senza fatiche e senza pericoli.
Ciò non significa che dobbiamo cercare volontariamente la rinuncia e la sofferenza, a meno che, per particolari esigenze della nostra anima, non ne sentiamo la reale necessità; significa, piuttosto, che non dobbiamo fuggire atterriti davanti a sacrifici e alle difficoltà e che non dobbiamo considerare fallimentari quei percorsi che, in apparenza, non ci hanno portato nulla di buono, intendendo per “buono” qualche cosa di bello e di gradevole.
A volte ci rendiamo conto che stavamo trasportando dell’oro, solo quando, rotti dalla fatica e dallo scoraggiamento, vorremmo deporre il pesante fardello che ci grava le spalle, e che credevamo costituito di sassi senza alcun valore; a volte, per trovare i diamanti, bisogna saper portare anche le pietre.
Altre volte, il seminatore che si sente inutile, perché nessuna pianticella ha attecchito nel suo campo, ha svolto ugualmente un compito prezioso: è stato fedele a se stesso, alla propria missione; e poi, chi può dire se qualche pianticella non crescerà in ritardo? E chi può dire se quelle pianticelle ritardatarie non diverranno talmente grandi e maestose, talmente cariche di frutti, da ripagare ampiamente i sacrifici e la stessa frustrazione del seminatore che credeva di aver fallito, di aver lavorato invano?
Tutto è grazia: questo è il concetto fondamentale.
Nulla di quanto ci avviene, ci avviene per il male; tutto serve per la nostra crescita interiore, cioè per il nostro vero bene, purché noi lo sappiamo utilizzare, purché noi sappiamo porci nel giusto atteggiamento verso la vita, che è fatto essenzialmente di ammirato stupore, di lode e di ringraziamento.
Le nostre vie non sono le vie della Grazia: essa soffia dove vuole e noi, sul momento, può darsi che non comprendiamo.
Non importa; l’importate è avere fede; stare saldi nella certezza che nulla va sprecato, che nulla è inutile, che nulla, sopratutto, avviene per il male di qualcuno: anche se vi sono delle situazioni, sia nella vita dei singoli individui, sia nella grande storia dei popoli, in cui una simile affermazione può fare scandalo, può apparire paradossale e perfino sacrilega.
Il vero scandalo, tuttavia, è dato dal nostro orgoglio, dalla nostra pretesa di capire tutto e subito, di vedere al più presto i risultati di una azione benefica
Noi siamo soltanto i docili strumenti, se vogliamo essere tali, oppure gli strumenti recalcitranti e stonati; ma la musica che suoniamo, non è nostra.
C’è un Musico divino che suona: a noi sta la scelta se farci servizievoli e fedeli strumenti di quell’armonia, o se tentare di distruggerla con il nostro ego sfrenato; ma, anche in questo secondo caso, noi non riusciremo ad offuscare realmente la melodia, perché il Musico è talmente sapiente, che riuscirà a trarre sempre, da ogni parte di male, cento e mille parti di bene.
Perciò, tornando alle nostre domande iniziali, non domandiamoci come sarà l’anno a venire; domandiamoci piuttosto se vogliamo essere degli strumenti docili e volonterosi, se vogliamo essere fiduciosi circa il compito che siamo invitati a svolgere, oppure se vogliamo metterci di traverso al disegno della Grazia e sciupare la melodia della musica divina.
Nel primo caso saremo stati utili e avremo realizzato il nostro bene; nel secondo, oltre a fare il nostro male, saremo stati inutili, perché l’armonia non verrà mai scalfita dal nostro malvolere…