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Cambiamenti climatici, globalizzazione e picco del petrolio

di Raffaele Langone - 02/01/2012


Il cambiamento climatico e la globalizzazione
La temperatura media della superficie terrestre è
aumentata, dall’inizio del 1.800 ad oggi, di 1°C e
potrebbe aumentare ancora nel corso del secolo, e questo
perché gran parte del surriscaldamento rilevato nel corso
degli ultimi cinquanta anni è da attribuire alle attività
umane.
La globalizzazione delle attività con la decuplicazione
delle emissioni di gas serra fa prevedere un ulteriore
aumento della temperatura media del pianeta.
Infatti il riscaldamento medio è stimato, a meno che non
si intervenga per porvi fine, intorno ai 6°C in più per la
fine del secolo.
A causa del riscaldamento, l’atmosfera diventerà
energeticamente più attiva, le zone umide saranno più
piovose, le aree secche più aride e quelle soggette a
temporali ancora più colpite da tempeste.
I cambiamenti climatici saranno più accentuati sulla
maggior parte delle terre emerse rispetto alla media globale
e interesseranno con sempre maggiore evidenza regioni
quali l’Europa meridionale, l’Asia centrale e buona parte
dell’Africa tra le regioni più colpite.
Esiste poi il rischio reale di un “salto” improvviso del
sistema climatico nel giro di pochi anni.
Tali salti avvengono per cause naturali, ma ancor più
probabilmente per le modifiche fisiche che il
riscaldamento globale attiva, primo fra tutti lo
scioglimento delle calotte polari.
In conseguenza di un possibile salto climatico potrebbe
verificarsi l’arresto definitivo della corrente del golfo che
concorre a garantire l’attuale mitezza delle temperature
europee. Lo scioglimento dei ghiacci, infatti,
comporterebbe l’immissione di enormi quantità di acqua
fredda sufficienti ad abbassare la temperatura dell’oceanoatlantico e, quindi, ad eliminare la corrente del golfo.
Per l’Europa inizierebbe così una piccola era glaciale.
Nella comunità scientifica tutti sono d’accordo nel ritenere
necessario che per evitare questa ed altre conseguenze
catastrofiche si debba fare di tutto perché la temperatura
media del pianeta non superi i due gradi rispetto a quella
esistente all’inizio dell’era industriale. Perché ciò avvenga
occorre che la concentrazione di anidride carbonica in
atmosfera non superi la soglia delle 450 parti per milione.
Oggi siamo a quota 385, contro le 320 parti per milione dei
primi anni sessanta. Il limite potrà essere rispettato solo
con immediati tagli alle emissioni di gas serra di almeno il
50 per cento su scala globale. Ciò che si sta verificando è,
invece, esattamente l’opposto. La “globalizzazione” sta
portando ad un aumento sconsiderato di emissioni di questi
gas tant’è che nuove previsioni riducono al 2030 l’anno in
cui si raggiungerà la soglia delle 450 parti per milione di
anidride carbonica in atmosfera. Tranquilli, nel frattempo
ci consoleremo perché aumenteranno e si accentueranno i
fenomeni estremi in atmosfera quali tornado, tempeste
tropicali, pioggia, precipitazioni nevose, caldo estremo,
siccità, inondazioni etc.
Ma cos’è l’atmosfera, come è strutturata e quali gas la
compongono? Sommariamente possiamo dire che
l’atmosfera è costituita da quattro strati distinti e
sovrapposti l’uno all’altro. La parte più bassa è chiamata
Troposfera ed è quella a contatto con le attività e la vita
dell’uomo. La Troposfera avvolge il globo terrestre e si
estende sopra di esso per una decina di chilometri e
contiene circa l’80 percento di tutti i gas presenti in
atmosfera. Praticamente, tutto l’inquinamento prodotto
dalle attività umane si riversa in questo “mantello
aeriforme” dotato di una particolarità: i gas dell’emisfero
settentrionale che la compongono non si mischiano, se non
in piccole quantità, con quelli dell’emisfero meridionale.
E’ come se all’equatore vi fosse un muro, una barriera che
impedisce questo rimescolamento. Risultato?
L’inquinamento prodotto nel più attivo e popoloso
emisfero settentrionale non si diluisce in tutta la
Troposfera, ma risparmia la parte a sud dell’equatore dovel’aria è, dunque, meno inquinata. Un’altra caratteristica
della Troposfera è che ha il gradiente termico capovolto, è
cioè, più calda alla base e più fredda negli strati alti, pur
essendo questi più “vicini” al sole. Lo strato successivo è
chiamato Stratosfera e in esso la temperatura aumenta man
mano che si sale. Questo perché v’è ozono in percentuale
“elevata”, che assorbe l’energia dei raggi ultravioletti
provenienti dal sole e la rilascia sotto forma di energia
infrarossa (calore). Segue poi a circa 50 chilometri la
Mesosfera e sopra di essa la Termosfera dove le
temperature superano i 1000 gradi centigradi. Il 99.90 %
dei gas che respiriamo è costituito dal 78 % di Azoto, dal
20.5 % di Ossigeno e dallo 0.9 % di Argon. Tutti gli altri
gas sono presenti in “tracce”, compresi i cosiddetti gas
serra. Ma pur essendo presenti in piccole quantità i gas
serra hanno una elevatissima influenza sul clima, capaci
come sono di intrappolare il calore in prossimità della
superficie terrestre. Un esempio: se l’anidride carbonica
diventasse solo l’1 per cento dei gas che compongono
l’atmosfera, la temperatura superficiale della Terra
arriverebbe a circa 100 gradi centigradi. Incredibile, vero?
Il picco di Hubbert e la fine dell’era del petrolio
La nostra vita dipende dal petrolio. Per lungo tempo
abbiamo creduto che “l’oro nero” non dovesse mai finire.
Ma cosa vuol dire, “fine del petrolio”? E’ ovvio che se
mai ci sarà un giorno in cui avremo estratto l’ultima goccia
di greggio dall’ ultimo pozzo ancora attivo, avverrà molto
tempo dopo il momento in cui il petrolio avrà perso ogni
interesse e importanza come fonte di energia (perché
divenuto troppo costoso). La produzione di petrolio
mondiale è stata in continuo aumento durante gli ultimi
decenni. Oggi sappiamo che la produzione deve passare
per un massimo : il “picco di produzione” o picco di
Hubbert . Il punto cruciale è la stima di quando questo si
verificherà, ovvero quando si verificherà quella che viene
chiamata la “transizione petrolifera”. In estrema sintesi
Hubbert sosteneva che l’offerta mondiale di petrolio cresce
da zero fino ad un massimo (picco) per poi calare e che al
massimo della curva si arriverà quando avremo estratto la
metà del petrolio esistente in natura.Evidentemente, l’ interesse per il “ punto di picco”, ovvero
per la “ transizione petrolifera” deriva dal fatto che i dati
indicano che potrebbe verificarsi entro qualche decennio o
anche entro solo pochi anni.
Attualmente (prima del picco) le capacità produttive dei
pozzi esistenti sono superiori alla domanda .
Normalmente i pozzi non medio-orientali operano a piena
capacità. Gli incrementi di domanda dovuti sia alle
fluttuazioni del mercato che al generale aumento dei
consumi, sono assorbiti dai cosiddetti “ swing producers”
(Arabia Saudita e altri paesi medio-orientali). La
produzione dei pozzi medio-orientali non è mai a piena
capacità ed è attualmente regolata dall’ OPEC che gestisce
le quantità immesse sul mercato a seconda della necessità.
L’arrivo al picco di produzione corrisponde al punto in
cui il progressivo declino dei pozzi farà si che la domanda
superi le capacità di produzione. Dopo la transizione, gli
incrementi nella domanda non potranno più essere
assorbiti dagli swing producers. Ci si aspetta di
conseguenza che il costo del petrolio aumenti, soprattutto,
per far ridurre la domanda. In una situazione di questo tipo
è ipotizzabile il verificarsi di instabilità politiche a livello
mondiale, quando la competizione per il petrolio rimanente
potrebbe esplicitarsi non solo in termini economici ma
anche militari. La “globalizzazione” sta definendo allora
anche nuovi rapporti di forza militare. A competere con gli
occidentali ci saranno un miliardo e mezzo di cinesi, un
miliardo e cento milioni di abitanti dell’India, un miliardo
e settecento milioni di cittadini di religione islamica. La
Cina, l’India, i paesi musulmani, in caso di conflitto
militare contro l’occidente per l’accaparramento delle
risorse petrolifere restanti “possono permettersi” di perdere
in una “ipotetica” guerra militare convenzionale 300
milioni di persone. La loro storia, la loro civiltà
continuerebbe a vivere. Trecento milioni di europei o di
nord americani in meno significherebbero la scomparsa di
una civiltà, no? E tutto questo per cosa? Perché uno
sparuto numero di influenti uomini nordamericani è
riuscito ad imporre al mondo un nuovo modo d’essere, di
fare, di agire e pensare: l’individualismo. Infatti alla base
del neoliberismo, v’è la cultura esasperata dell’IO:l’importante è se stessi, arricchirsi sempre di più.
Il neoliberismo tende a sacrificare la coesione sociale, la
qualità dell’ambiente, l’interesse delle future generazioni
sull’altare della competitività, dell’individualismo
possessivo, della redditività pressoché immediata,
instaurando di fatto la dittatura dei mercati finanziari, il
dominio della speculazione su ogni aspetto sociale, etico
politico e ambientale. Non importa poi se le azioni messe
in essere sono a discapito del presente e del futuro della
civiltà dalla quale si proviene o della intera umanità.
La globalizzazione sta diffondendo questo modello di vita
nonostante risulti evidente che le risorse della Terra non
siano sufficienti per garantire a tutti il benessere medio dei
paesi occidentali. E’ certo, per come è organizzata oggi la
società umana su scala planetaria, che NON vi sono risorse
sulla Terra per consentire a tutti suoi abitanti di vivere allo
stesso livello medio di benessere proprio dei paesi
occidentali.
Ma agli economisti della scuola di Chicago, i teorici del
neoconservatorismo liberale, questa considerazione non
interessa affatto…