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Dialogo di civiltà nell’epoca delle trasformazioni globali

di Vladimir Jakunin - 08/01/2012

Fonte: geopolitica-rivista


Dialogo di civiltà nell’epoca delle trasformazioni globali

Gli eventi degli scorsi 25-30 anni devono ancora essere compiutamente analizzati, ma già oggi è abbastanza evidente che il mondo, nel suo complesso, è entrato in una fase di trasformazione sociale, politica ed economica su ampia scala. Tale conclusione è stata posta sul tavolo alle ultime conferenze del World Public Forum “Dialogue of Civilizations”. Fu proprio a questo stesso Forum – che si tiene ogni anno presso l’isola greca di Rodi – che, nel 2005, giungemmo alla conclusione che le tensioni stessero montando ed una crisi economica fosse inevitabile. Più o meno negli stessi giorni, alla vigilia della crisi economico-finanziaria mondiale, il Forum di Davos annunciava in pompa magna che le prospettive erano più che rosee.

Credo che alla base degli eventi che stanno avendo luogo in Russia – eventi di cui siamo tanto testimoni quanto parte in causa – vi sia il maturare d’un sentimento d’ingiustizia generale. Quest’ingiustizia o iniquità riguarda la vita che stiamo conducendo; quest’ingiustizia concerne l’arbitrarietà dei funzionari pubblici; s’attaglia al sono disinteresse che le élites oligarchiche dei circoli affaristici mostrano per il loro paese ed il loro popolo; e, ovviamente, riguarda l’inaccettabile sperequazione del reddito.

Ma siamo solo una componente della profonda trasformazione socio-economica che sta avvenendo nel mondo. E la catastrofe politica seguita alla disintegrazione dell’Unione Sovietica e dell’intero campo socialista ha funzionato da detonatore. I segnali di questo processo si possono intravedere nella distruzione violenta della Jugoslavia e nel collasso cosiddetto “pacifico” di molti paesi europei, nonché nella crisi sistemica del mondo occidentale – che oggi è riconosciuta da tutti gli esperti e politologi; una crisi sistemica portata dall’ultima crisi economico-finanziaria mondiale.

Nelle sue opere uno dei fondatori del WPF “Dialogue of Civilizations”, l’eminente futurologo indiano Jagdish Kapur, evidenziava come il mondo del consumo, costruito sulle fondamenta tecnologiche della teoria neoliberale, avesse portato al degrado della società occidentale e a diseguaglianze socio-economiche sempre più estreme. Tutto ciò avrebbe inevitabilmente condotto ad un catastrofico “scontro di civiltà”.

Giudicate voi stessi. A partire dal 2008 i dirigenti dei paesi più avanzati, tra cui la Russia, si sono ripetutamente incontrati al G7, al G8 e al G20 per elaborare misure sistemiche per superare la crisi. Malgrado ciò,la seconda ondata della crisi (che noi prevedemmo nel 2008) ha spazzato il mondo con ancor più potenza. E’ lecito chiedersi perché.

La ragione è semplice: in questo periodo nessuno ha messo sul tavolo un’analisi critica di quella formazione socio-economica sorta dalle fondamenta del capitalismo di libero mercato. Essenzialmente, come risultato dell’ultima trasformazione, il mondo dei cosiddetti “miliardi dorati” è diventato un’alleanza di Stati tipicamente imperialista, un centro di consumismo senza cuore il cui benessere si fonda sullo spietato sfruttamento del resto del mondo.

Ma più di tutto, questa trasformazione ha “cortesemente” avanzato la teoria mondiale post-industrialista. “Fate come noi, lottate per diventare una società dell’informazione post-industriale: questa è la strada per la prosperità”. Ecco l’essenza di tutti i consigli dati dalle istituzioni finanziarie internazionali e dai politici occidentali negli ultimi 25-30 anni. Molti paesi in via di sviluppo hanno seguito questo consiglio, ma a cos’abbia portato è stato descritto in maniera molto autorevole dal premio Nobel Joseph Stiglitz nel suo recente libro Freefall. America, Free Markets and the Sinking of the World Economy.

Perdita di sovranità, spudorato saccheggio da parte delle multinazionali, povertà, malattia e guerra – ecco la lista dei risultati della “democratizzazione di molti paesi”. Tuttavia, non si può negare che, avendo ottenuto l’accesso ai ritrovati tecnico-scientifici, avendo attratto investimenti esteri ed acquisito conoscenze dall’Occidente, molti paesi delle cosiddette “economie in via di sviluppo” abbiano fatto un colossale balzo in avanti nelle sfere economica e sociale: Singapore, Brasile, India. E il Sudafrica li segue oggi da vicino. Intenzionalmente non ho menzionato la Cina, poiché ha scelto d’incamminarsi su un proprio percorso di trasformazione, così come la Russia.

Ma se pensiamo all’Africa, con la sua popolazione multi-milionaria e le abbondanti risorse naturali, ch’eppure soffre la fame nel XXI secolo, allora credo concorderete con me che gli esempi di cui sopra sono semplici eccezioni.

Le regioni periferiche del mondo sono destinate a sgobbare nella produzione e nella fornitura per i paesi cosiddetti “sviluppati” che, in pratica, sono beneficiari e guardiani del loro capitalismo finanziario e post-produttivo. La democrazia combinata con quest’ultimo, che non è nemmeno più un metodo di produzione ma un metodo di speculazione, si è totalmente screditata: gli slogan sul libero mercato, sul libero individuo e sulla libera società, disseminati ovunque dalla propaganda, in realtà non sono altro che una copertura per “liberare” l’uomo dal suo diritto ad un’esistenza dignitosa; servono da pretesto per privarlo delle sue garanzie sociali e sanitarie, ed in caso di intervento armato, sono usati per “giustificare” persino la perdita di vite umane.

Questo modello di società di consumo protetto dalle armi ha smesso di funzionare. Non è solo sopravvissuto a se stesso; ma mentre ricorre a significati obsoleti di progresso e gonfia bolle finanziarie, morali e culturali a non finire, disquisisce della natura ciclica delle crisi mondiali e cinicamente cerca di giustificare il diritto di certi individui a condurre una vita lussuosa a spese del tragico stile di vita di tutti gli altri. Questo modello non funziona. Le fondamenta stesse della società stanno trasformandosi, e il dialogo di civiltà ha visto queste trasformazioni del passato decennio come un’esemplare storia di malattia dell’umanità. E la diagnosi di questa malattia non è per nulla incoraggiante, poiché non v’è panacea. Ma si è compreso che il futuro richiede un trattamento protratto e costante in ciascuna specifica regione, usando i mezzi speciali più adatti a ciascun caso concreto.

Segnali e indicazioni della suddetta trasformazione mondiale possono ritrovarsi negli eventi che hanno luogo nello spazio postsovietico e nella cosiddetta “Primavera Araba”, nel movimento “Occupy Wall Street” ed in proteste e disordini similari che avvengono in Europa.

In Russia, così come in ogni altro paese al mondo, dobbiamo fare i conti con due tipi di trasformazione. Proprio come nel 2008 affrontiamo una duplice crisi: una interna, strutturale, connessa con la situazione ereditata dall’URSS; ed una mondiale, che ha infierito spietatamente sui progetti di certi paesi di entrare “delicatamente” nell’economia mondiale capitalista.

In un caso, come risultato della crisi attuale, assistiamo al mutare della struttura globale d’interrelazioni ch’è tradizionalmente descritta come un sistema-mondo capitalista, una società mondiale, in cui competono globalizzazione e tradizionalismo. Nell’altro caso, a livello nazionale, vi possono essere o meno elementi di “glocalizzazione”, ossia di reazione locale ed endogena allo sviluppo del capitalismo precedente la crisi.
Partendo da tale premessa, è possibile capire la tentazione di molti esperti d’aggiungere il loro personale tocco di colore al quadro delle trasformazioni che va delineandosi. Sorgono così teorie d’una società complessa, un mondo post-industriale e post-globale, e così via; inoltre, queste concezioni sono attivamente discusse. Sia chiaro: ciò è encomiabile. A patto però che le teorie siano verificate e confermate in pratica. Altrimenti, a volte, si ha l’impressione che si tratti di tentativi di manipolare la coscienza delle élites locali nell’interesse del governo finanziario. Dietro al trambusto delle “grandi trasformazioni”, vi saranno certe forze che cercheranno a tutti i costi di sfruttare questa possibilità. Il nostro collega cinese proveniente dal “campo della ricerca”, ha rivelato che di recente i centri scientifici della Cina hanno ricevuto la raccomandazione di non utilizzare nei loro scritti un termine come “mondo post-crisi”, cosicché, come si è spesso detto, “non si esageri l’essenza” e non s’aggiunga confusione nelle teste dell’élite scientifica. Ritengo questa una risposta abbastanza trasparente a quelle circostanze e forze che stanno cercando di promuovere una rapida sequenza di “rivoluzioni stagionali”. Abbiamo visto come ciò sia avvenuto nel 2011 in Medio Oriente; la distanza tra “Primavera Araba” e “Inverno Arabo” si è rivelata molto breve. Questo è il motivo per cui il compito di comprendere e penetrare i processi concreti rimane il più importante tra quelli della nostra comunità intellettuale.

La “rete globale” – Internet – è divenuta un fattore principalmente nuovo in queste trasformazioni. Oggi che l’uomo non può più immaginarsi fuori “dalla rete”, e che le informazioni viaggiano istantaneamente da un continente all’altro, sono apparsi ovvi indizi d’un utilizzo strumentale ed egoistico di questa risorsa. Con la scusante della libertà e democrazia universali, dell’illimitato diritto all’accesso alla informazioni, le rivolte in Egitto e Algeria sono state praticamente trasmesse online, e ciò ha spinto la gente a scendere in piazza.

In Libia il mondo intero è divenuto complice nell’uccisione d’un anziano uomo, al secolo il colonnello Gaddafi. Ed allo stesso modo, senza alcuna base giuridica internazionale, un altro capo di Stato sovrano, Saddam Hussein, è stato impiccato. Inizialmente si accusò falsamente questo paese di possedere armi di distruzione di massa, pretesto con cui il regime politico sgradito fu spazzato via. Ma ciò che più lascia esterefatti è che non un singolo funzionario implicato in questa grandiosa menzogna sia stato ritenuto responsabile per la morte di migliaia di persone.

Devo confessare che Saddam Hussein non mi piaceva molto (ma è usanza russa non parlar male dei morti), ma ciò non può in alcun modo giustificare l’uccisione di un vicino spiacevole o persino “odioso”. Sarebbe inumano. Non è il modo d’agire cristiano!

Ovviamente, sarebbe folle sostenere che gli eventi in Nordafrica siano stati scatenati solo dall’impatto sull’informazione di Internet. In questi paesi, nel corso di decenni, si è potuto assistere alla formazione di sistemi politici caratterizzati da ineguaglianze sociali sempre più marcate tra l’élite al potere ed il resto della popolazione.

Eppure, era proprio con quelle stesse élites che i governanti degli USA e d’altri paesi occidentali intrattenevano rapporti di “amicizia”; si sono abbracciati ed hanno siglato accordi di cooperazione economica e militare.

Dunque, che cos’è cambiato improvvisamente?
La conclusione da trarre è lampante e, a mio giudizio, consiste di due parti.

Innanzi tutto, bisogna ammettere che le istituzioni occidentali, e soprattutto nordamericane, di studi sociali e politici possiedono un’eccelente base di ricerca ed un grande potenziale di risorse intellettuali, che ha permesso loro di comprendere per tempo come le tensioni sociali in quei paesi fossero giunte ad un “punto di non ritorno”. E quindi, seguendo il ben noto principio del cosiddetto “interesse nazionale” che domina la loro politica, hanno deciso di ricorrere alla tecnologia del “impatto mirato”: sacrificare molto, ma non perdere tutto.

In secondo luogo, dovendo fare i conti con una crisi sistemica negli USA stessi – una crisi che è sfuggita al controllo del sistema finanziario – gli Statunitensi, specialmente alla vigilia delle elezioni e con un tasso di disoccupazione balzato sopra l’8%, devono, di riffa o di raffa, spostare la tensione altrove. I mezzi e modi per ottenere quest’obiettivo sono ben noti: una guerra trionfale ma non molto sanguinosa; la destabilizzazione ed i conflitti portati lontano dai confini degli USA e dell’Europa, innalzando lo spaventapasseri d’una minaccia (leggi: nemico) ad uso e consumo del grande pubblico (ed è noto che i candidati al ruolo di spaventapasseri non mancano).

Accidentalmente o meno, la crisi del sistema sociale mondiale s’accompagna alla distruzione a sangue freddo d’antichi centri e monumenti dell’Ecumene, culle dell’intera civiltà mondiale: pensiamo ai musei in Iraq e Libia, ai manoscritti in Egitto, ai monumenti architettonici di Cartagine in Tunisia, per non parlare dei luoghi sacri ortodossi in Serbia e in Kosovo.

Se queste tendenze non saranno arrestate, allora un vicolo cieco lungo qualsiasi cammino di trasformazione può precipitare il mondo in una catastrofe globale, con l’autodistruzione dell’umanità.

L’opinione dei membri del WPF “Dialogue of Civilizations” è che la via d’uscita possa trovarsi solo nel riconoscimento dell’eguale diritto delle civiltà all’esistenza ed allo sviluppo, il diritto alla conservazione delle rispettive identità culturali e spirituali.

Non si tratta di una omologazione e standardizzazione compulsiva secondo il metro dei “valori umani generali”, propri solo al modello anglosassone, ma d’un dialogo tra le civiltà che possa aprire la strada allo sviluppo ed alla cooperazione nell’interesse di ciascuna persona. Di tutte le persone.

(Traduzione di Daniele Scalea)

FONTE: “WPF Dialogue of Civilizations

 
* Vladimir Jakunin è fondatore e presidente del World Public Forum “Dialogue of Civilizations” (partner dell’IsAG), presidente delle Ferrovie Russe, ex diplomatico e vice-ministro.