Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Che cosa pensava Dante dell’islamismo?

Che cosa pensava Dante dell’islamismo?

di Francesco Lamendola - 08/01/2012

 

Che cosa pensava Dante dell’islamismo?

Sembrerebbe una domanda quasi provocatoria: tutti sanno che il sommo poeta ha posto Maometto nel più profondo dell’Inferno, nella nona bolgia dell’ottavo cerchio, tra i seminatori di discordia, che vengono orrendamente squarciati dai colpi di spada inferti loro eternamente da un diavolo; e, se la pena non bastasse, la maniera in cui descrive le sue ferite e gli organi interni messi a nudo non lascia spazio a molti dubbi circa l’opinione che ha del profeta arabo.

La cosa è talmente chiara che in molti Paesi arabi la «Divina Commedia» circola espurgata di quei famosi versi e in alcuni di essi, quelli a regime fondamentalista, non circola affatto, perché ritenuta blasfema: nessuna meraviglia, se è vero, come è vero, che pure la stessa arte europea, come nel caso dell’affresco medievale della cattedrale di San Petronio a Bologna, in cui Maometto è raffigurato, appunto, nell’Inferno, suscita lo sdegno dei musulmani più zelanti.

Eppure, in Occidente, vi è qualche anima gentile che vorrebbe dimostrare che le cose stanno altrimenti; che Dante aveva in altissimo concetto la cultura araba; che perfino l’aver messo Maometto all’Inferno, sì, ma fra gli scismatici, dimostrerebbe come egli lo ritenesse una sorta di cristiano traviato e non proprio un nemico “esterno” della religione cristiana; e via di questo passo, sempre più disperatamente arrampicandosi sugli specchi.

Queste anime belle ragionano così: nel Medioevo, la civiltà islamica era indubbiamente più progredita di quella cristiana, tanto da far riscoprire ai rozzi europei le meraviglie del pensiero e della scienza greci; lo stesso Dante, forse, si è ispirato a testi arabi, come il «Libro della Scala», per la composizione del suo poema sacro: dunque, come è possibile che il grande Fiorentino non abbia nutrito rispetto, se non proprio ammirazione, per quella civiltà, della quale era tanto debitore, così come lo erano tutti i suoi contemporanei?

In realtà, molte di queste premesse sono sbagliate e dunque, a maggior ragione, lo sono le conseguenze. Che la filosofia greca sia stata restituita all’Europa dall’Islam, è tesi vecchia, che mostra ormai tutte le sue crepe; e basterebbero, a farla traballare dalle fondamenta, due semplici ma inoppugnabili constatazioni: primo, che la lingua araba mal si presta a tradurre con precisione le sottili sfumature del pensiero greco; secondo, che - almeno fino ai primi del 1300 - pochissimi erano i dotti europei che conoscevano l’arabo in maniera sufficiente da poterne leggere i testi originali, dato che nessun testo arabo era stato tradotto nelle lingue romanze: e Dante, che non conosceva nemmeno il greco, sicuramente non era fra essi.

Ma c’è dell’altro.

Siccome nella cultura odierna è diffusa l’idea che il cosiddetto “multiculturalismo” sia un valore di per sé evidente, e che sia auspicabile promuoverlo in ogni maniera possibile; siccome siamo ormai abituati alle prese di posizione di alti esponenti della Chiesa cattolica, come l’arcivescovo ambrosiano Tettamanzi, i quali, in nome della libertà religiosa, esortano all’accoglienza a senso unico e si fanno paladini della costruzione di moschee nel cuore delle nostre città - senza preoccuparsi, invero, del diritto di reciprocità, ossia della libertà religiosa delle minoranze cristiane presenti nei Paesi islamici, le quali, anzi, sono frequentemente sottoposte a fortissime pressioni e, talvolta, anche a violenze sanguinose -, allora si vorrebbero proiettare queste idee all’indietro nel tempo e si pretende di arruolare Dante tra i fautori o gli anticipatori di esse, attribuendogli una sorta di attestato retroattivo di pluralismo culturale e religioso.

Per la stessa ragione, si vorrebbe cogliere nei versi di Dante qualche sfumatura, qualche velato accenno di disapprovazione o, almeno, di riserva mentale, nei confronti delle Crociate: come è possibile, si pensa, che un animo nobile come il suo non vedesse il fanatismo, la violenza gratuita, magari lo spirito anticristiano, insito nell’idea medesima di una guerra di religione? O che non scorgesse, dietro le sbandierate ragioni di ordine etico e religioso, quelle ben più concrete e decisive, di natura commerciale e politica?

Eppure, quel che Dante pensava delle Crociate appare chiarissimo nel lungo colloquio con il suo bisavolo Cacciaguida, in Paradiso, nel Cielo di Marte, quello degli spiriti combattenti per la fede: e non c’è arzigogolo ermeneutico che possa smentire tale evidenza: ossia che, per lui, le Crociate erano delle imprese militari assolutamente legittime, anzi, sacrosante; e che, se aveva qualche rimprovero da fare ai papi e ai sovrani del suo tempo, era semmai quello di averle lasciate cadere, rivolgendo le armi in esecrabili guerre intestine alla cristianità.

Quanto, poi, al fatto che, per l’uomo moderno, è virtualmente impossibile pensare alle Crociate come guerre religiose, senza lasciarsi sfuggire il sorrisetto di chi la sa lunga e non si lascia abbindolare dalle chiacchiere dei preti, ma sa bene quali ragioni di ordine economico vi fossero in gioco dietro le quinte, ebbene, questo è, appunto, un aspetto caratteristico della mentalità moderna, perché per noi moderni è praticamente impensabile che una guerra possa nascere da motivazioni in prevalenza non economiche; ma nel Medioevo le cose stavano altrimenti.

Per l’uomo medievale, le cose della religione erano più importanti di tutto il resto e chi non capisce questo, non capisce nulla di quella civiltà; di conseguenza, senza negare che, nelle Crociate, vi siano state anche delle finalità economiche e politiche, si può senz’altro escludere che esse fossero prevalenti e che quelle religiose fossero un mero pretesto per nascondere le altre, che sarebbero state quelle reali, ma inconfessabili.

Insomma, ancora una volta la forma mentis moderna, o postmoderna, pretenderebbe di imporre le proprie categorie concettuali all’universo mondo, passato, presente e futuro; ancora una volta vorrebbe trovare la conferma delle proprie certezze presso i grandi uomini vissuti secoli fa, partendo dal presupposto che una persona intelligente e bene intenzionata, a qualunque tradizione culturale appartenga, non potrebbe che confermare e sottoscrivere le convinzioni (e i pregiudizi) tipiche della modernità, assurte allo statuto di verità eterne e infallibili.

Nemmeno per un attimo questi signori, tutti debitamente progressisti, pluralisti e democratici e, perciò, politicamente corretti, sono sfiorati dal dubbio che le loro verità non siano poi così eterne e auto- evidenti; che, forse, è lecito pensarla anche diversamente; che, senza ombra di dubbio, uomini nobili e saggi vissuti in altre epoche non avrebbero mai sottoscritto le loro premesse ideologiche e quindi nemmeno le loro conclusioni, ammesso e non concesso che sia lecito fare tali supposizioni puramente immaginarie.

Lo scrittore Gianandrea De Antonellis, noto per il romanzo storico controcorrente «Non mi arrendo» - prosecuzione ideale de «L’alfiere» di Carlo Alianello e, quindi, assai polemico verso la Vulgata risorgimentale -, ha trattato questo argomento in un articolo di esemplare chiarezza, «Giudizio sull’Islam e sulle Crociate nella “Divina Commedia”», di cui riportiamo la parte centrale (in: «Nova Historica. Rivista internazionale di storia», Roma, n. 31, 2009):

 

«… Se un normale uomo del Medioevo considerava giusta e necessaria la Crociata, cosa poteva pensare del mondo islamico, al di là della necessità di combatterlo per permettere un sicuro pellegrinaggio verso il Sepolcro? Nel secolo scorso si è sviluppata l’idea che la maggior parte dei contemporanei di Dante ammirassero la cultura, se non la religione islamica, e si è diffusa anche la leggenda - definitivamente confutata solo di recente  (Sylvain Gouguenheim) che la filosofia medioevale fosse debitrice ai commentatori arabi  della “scoperta” di Aristotele. In realtà la stessa struttura linguistica dell’arabo avrebbe impedito una corretta trasmissione  del pensiero filosofico, nato non a caso in Grecia, cioè in una terra che utilizzava un linguaggio ben più complesso  de preciso, che impediva confusioni interpretative.

Al di là di tali questioni filologiche, rimane il fatto - peraltro abbastanza ovvio - che per ammirare l’Islam p necessario ammirare e rispettare anche la figura del suo fondatore. Vediamo dunque come ce lo mostra Dante. […]

Tra i tantissimi dannati, che pagano con il contrappasso  di continui fendenti cui non possono opporsi e che li tagliano  profondamente sempre nello stesso punto (“fessi così”) l’aver seminato divisioni in famiglie, Stati o religioni, il primo che si avanza verso il Poeta è proprio Maometto, paragonato ad una botte (“veggia”) che ha perso una doga centrale (“mezzule”) o laterale (“lulla”) […]

Solo l’innamoramento, per così dire, di Miguel Asin Palacios poteva vedere una “particolare benevolenza” in questa descrizione, per il fatto di porre Maometto non tra gli eresiarchi, ma “solamente” tra gli scismatici (riducendolo, in tal guisa, alla vera religione). Tanto è vero che in ambiente musulmano il canto XXVIII dell’”Inferno” viene espunto o l’intero poema vietato (come accade in Pakistan).

L’idea stessa del contrappasso, si sostiene, verrebbe da testi islamici: aver messo Maometto nell’unico canto in cui questa parola viene esplicitata ed anzi sottolineata sarebbe una sorta di “segnale”. In realtà, come si può leggere direttamente, la figura maciullata di Maometto è descritta utilizzando termini di una durezza tale - si pensi alla descrizione delle viscere che fuoriescono dalla profonda ferita,, alla circonlocuzione per descrivere lo stomaco (“il tristo sacco, etc.”.), la lunghezza del taglio che parte dal mento per raggiungere l’ano (“là dove si trulla”, cioè si emettono rumorose flatulenze) è poco adatta al fondatore di una religione, ad un patriarca che si voglia realmente rispettare, se non addirittura onorare.

Ma la teoria delle fonti islamiche che sarebbero state utilizzate da Dante ha altri, importanti sostenitori. Ad esempio la grande linguista Maria Corti, nell’ultimo periodo della propria esistenza, avallò la teoria islamica, tra l’altro facendo notare l’uso dell’arabismo “meschite” (donde “moschea”) , per “case”, ad indicare le dimore dei diavoli in “Inferno”, VIII, 24). […]

In realtà, già Tommaseo, nel suo “Commento” (1837), lo aveva notato. Ma ne aveva dato un’altra - peraltro ovvia - interpretazione: “Mescite chiama quelle d’Inferno: come se le moschee fosser cosa diabolica”. Perché diciamo ovvia? Nel maggio 1992, ai funerali del giudice Giovanni Falcone, , il cardinal Salvatore Pappalardo, arcivescovo di Palermo, venne criticato per aver usato la frase scritturale  (“Ap”., 2, 9 e 3,9) “sinagoga di Satana” a proposito della mafia: parlare di “moschea di Satana” sarebbe invece indice di adesione all’Islam? […]

Dante, da uomo del suo tempo, riteneva dunque che le Crociate fossero un fatto storico da giudicarsi positivamente,  e che dovessero anzi essere proseguite e perseguite come obiettivo primario, utile di per sé e non soltanto per evitare le guerre fratricide in Europa. […]

E come Santa Caterina anche Dante accetta pienamente lo strumento bellico - che comporta, presuppone e causa ad un tempo - la pacificazione europea, per un fine superiore che è quello della conquista di Outremer  per ragioni squisitamente religiose e non politiche od economiche, due tipi di finalità certamente presenti, ma altrettanto certamente del tutto secondarie, nella mentalità medievale.

Infine - ed anche questo è un chiaro indizio sul pensiero di Dante a proposito del giudizio da dare sulle Crociate- l’intero poema della “Divina Commedia” si chiude su un meraviglioso inno alla Vergine fatto recitare da San Bernardo da Chiaravalle (1090-1153). Ma il “Doctor Mellifluus”, il santo dalle parole dolci come il miele, era stato molto duro - rispecchiando la mentalità medioevale, scevra da ogni tentazione edulcorane nei confronti della Verità- nei confronti dei nemici della fede, tanto da creare il neologismo “malicida”, “uccisore di un malvagio” (non “omicida”, “uccisore di un uomo”, quindi degno la vittima di rispetto e l’offensore di punizione) per giustificare la violenza in guerra.»

 

La conclusione è che Dante deve essere preso per quello che realmente è stato, un uomo del Medioevo tutto d’un pezzo; e, se si vuole rispettarne veramente il pensiero, bisogna resistere alla tentazione di volerlo piegare alle categorie mentali e culturali della modernità.

Certo, è difficile dire cosa esattamente sentisse un uomo del Medioevo, proprio perché la sua sensibilità differiva profondamente dalla nostra; però possiamo dire, con un buon gradi di certezza, che cosa NON sentiva e che cosa NON pensava. Ebbene: non sentiva il bisogno di cercare sempre una mediazione, di evitare comunque il conflitto, di venire a patti con i valori fondamentali; né considerava auspicabile il multiculturalismo, perché riteneva, senza incertezze, che la verità sia una.