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Solo il filosofo, per Aristotele, «vive» veramente

di Francesco Lamendola - 11/01/2012

 

 

Chi è l’uomo che vive veramente: che vive nel significato pieno, luminoso, gioioso della parola e che non si lascia soltanto vivere, miseramente e stentatamente?

“Vivere”, infatti, non basta: la vita ci è data, non ce la siamo data da soli; si tratta di vedere se ci limitiamo a subirla, a usarla disordinatamente, a disperderci in essa, o se siamo in grado di organizzarla, modellarla e indirizzarla nel modo migliore, sì che si realizzino tutte le migliori possibilità che vi sono implicite.

Perfino di una macchina possiamo fare un uso adeguato o inadeguato, perfino di un semplice oggetto; è quasi incredibile che così poche persone si prendano il disturbo di domandarsi se stiano facendo l’uso migliore possibile della loro vita o se la stiano vivendo al cinquanta per cento, al dieci per cento, all’uno per cento delle sue potenzialità.

Qualcuno obietterà subito che tutto dipende da quali cose riteniamo importanti e da quali beni giudichiamo tali da rendere una vita umana piena e felice; qualche altro potrebbe obiettare che la pienezza della vita, intesa nel senso migliore, ossia del massimo utilizzo delle sue possibilità più alte, non sempre va d’accordo con la felicità, anzi, appare sovente che le due cose risultino inconciliabili.

Alla prima obiezione rispondiamo dicendo che, certo, tutti i gusti sono gusti, come disse la mosca sprofondandosi in un fumante escremento di mucca; ma che, quando si parla del miglior uso possibile della vita umana, vi sono pochi dubbi circa il fatto che esso debba coincidere con la sua vera essenza e quest’ultima, a sua volta, con l’esercizio della virtù e della conoscenza, secondo la formula dell’Ulisse dantesco.

Virtù e conoscenza, infatti, sono le due facoltà specifiche e più alte della natura umana; tutte le altre, a cominciare da quelle sensibili, appartengono anche ad altre specie viventi; ed è un fatto che una cosa viene valorizzata al massimo quando si sviluppano al massimo le sue potenzialità specifiche e perciò essenziali, non quelle generiche e secondarie.

Alla seconda obiezione rispondiamo che la virtù e la conoscenza sono premio a se stesse, vale a dire che chi le persegue e le antepone ad ogni altro bene trova in esse la forma più alta di felicità che sia riservata ad un essere umano; precisando che per “felicità” non si intende il massimo del piacere fisico, ma il massimo del piacere complessivo, quello spirituale innanzitutto (che può comprendere quello fisico, così come il tutto comprende la parte), nelle condizioni date e non in astratto: ossia, se si preferisce, il minor male possibile.

Aggiungiamo, inoltre, che non tutte le potenzialità specificamente umane devono essere sfruttate al massimo per poter vivere una vita vera; ve ne sono alcune che, pur essendo specificamente umane, non sono imparentate né con la virtù, né con la conoscenza: per dirne una, l’amore del pericolo fine a se stesso.

Allora non si dirà che vivere una vita pienamente realizzata significa, ad esempio, cercare continuamente situazioni di pericolo, quali la pratica degli sport cosiddetti estremi, in modo da stimolare al massimo l’adrenalina e da trarre piacere dal fatto di mettere continuamente a rischio la propria sicurezza e la vita stessa: ciò non corrisponde né a virtù, né a conoscenza, ma somiglia, piuttosto, alla triste dipendenza del drogato dalle sostanze stupefacenti, senza le quali la vita gli parrebbe indegna di essere vissuta, perché esse sole gli danno quelle sensazioni piacevoli di cui ha assoluto bisogno e che non saprebbe procurarsi altrimenti.

Anche se non rientra nell’ambito della presente riflessione, a scopo di maggiore chiarezza daremo, molto velocemente, una definizione di “virtù” e di “conoscenza”: intendiamo per “virtù” un modo di porsi di fronte alla vita diretto alla ricerca e all’esercizio del bene, che non coincide con il piacere, ma che è il bene più alto possibile sia per il soggetto che lo persegue, sia per gli altri, secondo quanto è essenziale alla natura umana; e, per “conoscenza”, non l’accumulo di svariate nozioni su questo o quell’ambito dello scibile umano, ma lo sforzo per acquisire la saggezza, ossia la comprensione profonda delle cose e del senso ultimo della vita stessa.

Ci rendiamo perfettamente conto che si tratta di definizioni frettolose e insufficienti; pure, in questa sede, per non ampliare smisuratamente il discorso (ma in filosofia è questa la regola: tutto si tiene, per cui ogni singola parte rimanda a ciascuna altra e quindi alla totalità), ci accontenteremo di esse, paghi di aver messo sufficientemente in chiaro che “bene” e “piacere” non necessariamente coincidono, così come “male” e “dolore”, tanto più che esistono innumerevoli tipi di piacere e di dolore (e il masochista, per esempio, può trovare preferibile il dolore al piacere, anzi, egli trova piacere proprio nel dolore, ossia in un certo tipo di dolore); ma è certo che esiste un solo Bene, degno di essere scritto con la lettere maiuscola; e così anche il Male.

Proviamo ora ad affidarci alla sapienza di uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi, Aristotele, il quale aveva fatto oggetto di limpida riflessione il “vero” vivere.

Scrive, dunque, Aristotele (Giambl. Protr. XI, 56, 23 sgg:, in: Aristotele, «Dall’Accademia al Peripato», Editrice Ferraro, Napoli, 1988, pp. 64-66):

 

«Risulterà evidente da quanto segue che coloro i quali scelgono di vivere nella filosofia conseguono anche una vita gioconda in sommo grado.  È chiaro che la parola “vita” è usata in duplice senso, cioè nel senso della possibilità e in quello della realtà (potenzialità ed attualità). Tutti gli animali che hanno il senso della vista e quindi la possibilità naturale di vedere noi li chiamiamo vedenti, sia quando essi talvolta chiudono gli occhi, sia quando fanno uso della loro possibilità di vedere aprendo gli occhi. Lo stesso accade anche per il sapere. Con questo concetto una volta intendiamo l’uso della facoltà di conoscere, un’altra volta il possesso della facoltà e quindi del sapere. E se distinguiamo il vivere dal non-vivere in base alla sensazione e concepiamo anche la sensazione in questo doppio senso, cioè nel senso reale quando facciamo uso della capacità di sentire e nell’altro senso quando  possediamo solo questa capacità come possibilità e potenzialità – dal momento che attribuiamo la capacità di sentire, come pare, anche a chi sta dormendo -, allora ne deriva con evidenza che anche il “vivere” è inteso in doppio senso. Per quanto abbiamo ora chiarito, per uno che è sveglio dobbiamo dire che egli “vive”, che vive nel senso vero e proprio, ma anche di uno che dorme dobbiamo dire lo stesso perché egli ha la possibilità di passare nella condizione di veglia, per la quale diciamo che egli è sveglio e che percepisce qualcosa delle realtà a lui esterne… Si dovrà dire che chi è  sveglio vive in maniera più intensa di chi sta dormendo, ed egualmente colui che è attivo con la sua anima in confronto a colui che l’anima la possiede soltanto… Ora il compito più specifico e comunque il compito più elevato dell’anima è quello di riflettere e di pensare. È dunque facilissimo per ognuno concludere che colui che pensa rettamente vive più intensamente, ed intensissimamente colui che conosce la verità: questi è però colui che si conforma alla più rigorosa conoscenza e perviene alla contemplazione. E la vita perfetta consiste perciò nella conoscenza di ciò che è razionale e prudente. Ma se il vivere significa per ogni essere quanto significa l’essere,  ne deriva che l’essere nel senso più vero e più alto compete solo al sapiente, anzi in misura maggiore nell’attimo in cui egli con l’attività della sua anima perviene alla intuizione della maggior parte dell’essere conoscibile. Inoltre l’attività più perfetta ed indisturbata contiene in sé la gioia, ed in tal modo l’attività speculativa sarebbe la più gioconda di tutte… Dunque noi attribuiamo la vita in un grado più alto a chi è sveglio e non a chi è dormiente, a chi esercita la sapienza più che a chi non fa uso della ragione, ed affermiamo che la felicità che scaturisce dalla vita derivante dall’attività dell’anima è di natura spirituale, in quanto questo è vivere nella verità. Ma se esistono diversi modi di attività dell’anima, tuttavia il più importante di tutti è quello di pensare quanto più razionalmente è possibile. Così diventa chiaro che anche la gioia che nasce dal pensiero razionale e dalla contemplazione deve derivare o esclusivamente o per la maggior parte dal vivere. Una vita gioconda e una vera felicità appartengono dunque soltanto e nel grado più elevato ai filosofi… Chi dunque possiede intelligenza, eserciterà di conseguenza la filosofia per trovare in sé la felicità in quello che è il piacere più vero e più perfetto. Noi dunque siamo convinti che la felicità consista nella sapienza e in una specie di saggezza, oppure nella probità o nel grado pi alto di gioia o in tutte queste cose assieme. Se essa consiste nella sapienza è chiaro che soltanto i filosofi  pervengono ad una vita felice; se poi la felicità consiste nella probità dell’anima o nella gioia, anche in tal caso solo essi tra tutti la assaporano interamente nel modo più intenso. Infatti la probità è la cosa più importante per noi uomini, ma quella che ci rende più felici, se la confrontiamo con le altre, è la filosofia, la quale può essere anche la stessa cosa con la felicità, quando questa coincide con la vita secondo ragione.»

 

Ci sono più modi di vivere, dunque: quello pienamente desto e risvegliato e quello dei dormienti; e questi ultimi, a loro volta, possono essere o non essere consapevoli della loro condizione, ma di solito non lo sono, anzi, protestano vigorosamente e aggressivamente se qualcuno tenta di svegliarli, affermando di essere più svegli di chiunque altro.

Questo è un problema al quale difficilmente esiste soluzione: perché, come per l’ignorante perfettamente convinto di sapere, così per il dormiente persuaso di essere desto e consapevole, non vi è possibilità di redenzione, fino a quando qualcuno o qualcosa non riusciranno a rompere la dura scorza della sua ignoranza e della sua presunzione e a fargli comprendere la realtà della condizione in cui effettivamente si trova.

Per colui che incomincia a risvegliarsi, si tratta di intraprendere un cammino lento e, talvolta, faticoso, ma anche ricchissimo di soddisfazioni, fuori dalla “selva oscura” dell’inconsapevolezza, verso la luce di una vita pienamente presente a se stessa e tale da poter sviluppare e perfezionare nel modo più idoneo tutte le grandi e preziose possibilità che in essa giacciono latenti e non ancora utilizzate, o utilizzate solo in minima parte.

Il dormiente vive con il pilota automatico inserito: non ha occhi per la bellezza, non ha orecchi per la verità, non ha cuore per la virtù; sprofondato nel brago della sua grossolana ignoranza, in cui si rivolta come un maiale sazio e soddisfatto, degrada la propria natura e provoca amare sofferenze a quanti gli stanno intorno, qualche vola per deliberata cattiveria, più spesso per assoluta mancanza di prudenza, di discernimento e di saggezza: in una parola, di virtù.

Svegliarsi alla verità della vita e disinserire il pilota automatico sono, quindi, le prime cose da fare e le più necessarie: tutto il resto viene di conseguenza; perché, mano a mano che ci si rende conto che la propria barca non potrà affrontare le onde del mare, se non agendo opportunamente sul timone e sulle vele e se non mettendo in gioco la propria intelligenza e la propria volontà, così si impara anche ad affrontare i casi dea vita con un altro spirito e da una nuova prospettiva.

Molte cose che prima ci sembravano ovvie, ora ci appariranno ricche di complessità e di ulteriori implicazioni; molte cose che ci sembravano insignificanti o perfino noiose, ora ci si riveleranno luminose e affascinanti; e molte di quelle che, prima, ci sembravano attraenti e desiderabili, adesso ci faranno un’impressione completamente diversa, incominceremo a trovarle banali o addirittura brutte e volteremo loro decisamente le spalle, desiderosi di miglior cibo.

In fondo, il segreto della vita è tutto qui: capire che si può fare qualcosa di meglio che lasciarsi vivere, indugiando in un pigro sonno popolato di sogni ingannevoli, oppure afferrare avidamente le occasioni che si presentano, al solo scopo di procurarsi piacere, denaro e potere sugli altri; che essa offre una straordinaria opportunità, quella di diventare pienamente uomini e pienamente donne, uscendo dallo stato di semplice potenzialità e di teorica possibilità.

Nessuno nasce veramente uomo o donna, ma lo diventa, o meglio, lo può diventare, se si desta e se si pone l’obiettivo di realizzare pienamente la propria parte migliore.

Può sembrare una cosa difficile e perfino oscura, invece è molto più semplice di quel che non s’immagini: perché non si tratta di inventarsi qualche cosa che non esiste, ma di dare risposta a una vocazione, a una chiamata, che ci è stata fatta sin dall’inizio, anzi, fin da prima della nostra nascita e del nostro concepimento: e ci è stata fatta individualmente, a ciascuno di noi, con modalità diverse ma per un unico scopo: guidarci sulla strada di casa, sulla strada dell’Essere.

Dall’Essere veniamo e all’Essere ritorniamo; dopo una vita o dopo molte vite, come ritengono alcune scuole di pensiero: ma quel che conta davvero, è ritornarci a testa alta, desti e consapevoli.