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Quel senso d’infinita beatitudine nell’ultimo raggio del Sole al tramonto

di Francesco Lamendola - 20/01/2012

 

Ci sono dei momenti, in inverno, quando si avvicina il tramonto e la luce scende obliqua e rossastra giù nelle valli fra le montagne, riverberandosi nelle acque appena increspate di un lago, nei quali si sprigionano un tale incanto, una tale magia, un tale senso d’infinita beatitudine, che sembra impossibile debbano essere appesi al breve arco di cielo che il disco solare deve ancora percorrere, prima di scomparire dietro le sagome scure delle vette.

L’aria fredda e limpida sembra accogliere quel meraviglioso spettacolo con reverente solennità, avvolgendolo e fasciandolo in una atmosfera incantata, simile a un cristallo di rocca dagli splendidi riflessi opalescenti.

Il giorno sta per concludersi, con struggente malinconia; ma il Sole scende vittorioso verso la fine della sua corsa circonfuso di gloria, mandando in ogni direzione lame di luce che, per un momento, accecano la vista e guizzano dardeggianti per un’ultima volta, prima di spegnersi e scomparire bruscamente nell’oscurità della sera che avanza.

Sono istanti senza tempo, fuori del tempo; è come se il tempo si fosse fermato e si rimanesse così, sospesi nel vuoto, senza ieri e senza domani, senza giorno e senza notte, lontano da tutto e da tutti, in un qui che è già un altrove e che, non appena si tenta di stringerlo in mano, fugge via inesorabilmente, come la sabbia fra le dita d’un bambino.

L’anima gusta quelle emozioni con intensità voluttuosa, le assorbe avidamente sino in fondo e le fa proprie, trasformandole, nello scrigno della memoria, in sostanza eterna e incorruttibile, che nulla potrà mai più cancellare, per quanto lunghi possano essere ancora gli anni che ci sono stati concessi in sorte.

Vi è una magnifica sintesi di tali emozioni e sentimenti in una pagina dello scrittore irlandese Joseph Sheridan Le Fanu, nel racconto «The Revenge of the Lake», «La vendetta del lago» (in: Sheridan Le Fanu, «Avventure di fantasmi», traduzione italiana di Roberta Rambelli, Editori Associati, Milano, 1991, pp.  44, 79, 80):

 

«… Era realmente un quadro bellissimo quello che Feltram vedeva incorniciato tra le vecchie mura. La parte del lago verso la riva rifletteva gli ultimi raggi rossi del tramonto, più lontano l’acqua era una distesa scura, nell’ombra delle montagne; e contro questa sfumatura purpurea il contorno delle rocce di Snakes Island, illuminate dal sole calante, spiccava nettamente nella luce d’oro. […]

Quella sera andò a passeggiare sui monti di Golden Friars, quando già il paesaggio sottostante era immerso nella luce del crepuscolo, mentre gli ampi fianchi brulli e gli spigoli di quelle alture gigantesche erano ancora illuminati dal nebbioso sole, ormai al tramonto.

Non c’è senso di solitudine simile a quello che proviamo sulle immense, silenziose altezze delle grandi montagne. Sollevati al di sopra dei rumori, oltre le dimore degli uomini, in mezzo alle grandiose distese selvagge tra le immense opere della natura, proviamo, nella nostra solitudine, una strana paura e una strana esaltazione… un’ascesa al di sopra delle sofferenze e degli uomini, e i tremiti di un’apprensione indefinita e indistinta.

Il disco velato della luna era sorto a oriente, e stava già inargentando debolmente lo scenario sottostante ormai in ombra, mentre Sir Bale stava ancora nella luce morbida del sole al tramonto, che sfiorava anche le vette dei picchi di Morvyn Fells, di fronte a lui. […]

Stava ritto, a braccia conserte, sul pendio della montagna, e ammirava, nonostante i suoi pregiudizi, gli effetti insoliti di un panorama illuminato in modo così strano, i colori del tramonto sui picchi d fronte a lui, perduti nel crepuscolo nebbioso che scendeva, assumendo una sfumatura più cupa, attraverso la quale si intravedevano appena i tetti di pietra e il campanile di Golden Friars e la luce del fuoco o delle candele che filtrava dalle finestre.

Mentre sostava in contemplazione, anche per lui il tramonto finì, e fu avvolto da un’improvvisa oscurità, che gli fece ricordare un bellissimo quadro d’un paesaggio che spiccava, con le sue riocce e i suoi promontori, nel chiaro di luna.

Sopra le vette più alte, alla sua destra, aveva aleggiato il pesante mantello d’una nuvola bianca, che all’improvviso si ruppe e, come fumo di artiglieria, m scese abbassandosi lungo i pendii, verso di lui…»

 

*   *   *

 

Ci sono dei momenti, in inverno, dalla bellezza struggente; quando, in cima a un colle, vediamo brillare le piccole luci nella pianura e la valle sembra come dissolversi e trasfigurarsi nella luce morente del giorno, quando un ultimo riverbero del Sole già tramontato avvolge ogni cosa e sembra carezzarla nell’estremo guizzo del suo splendore.

Allora ci si sente invadere l’anima da pensieri sublimi; non ci si ricorda più degli affanni di un momento prima e non si rivolge la mente ai timori e alle speranze per il domani, ma si è tutti presi, tutti rapiti nella contemplazione di quello spettacolo glorioso e irripetibile; e si sente, si capisce, che per un istante si è stati vicinissimi al mistero della vita, alle sorgenti dell’Essere.

I colori caldi e dorati della sera che scende indugiano nella nostra retina anche dopo che l’oscurità si è diffusa e che l’ultimo riflesso di luce si è spento in un bagliore corrusco; e continuano a danzare, magnifici, nel nostro occhio interiore, che vede più lontano dell’occhio materiale e non conosce miopia né altra malattia o forma d’indebolimento.

In quegli istanti senza tempo si misura, per così dire, l’abisso dell’eternità e ci si sente, nudi e soli, al cospetto dell’Assoluto; tutte le maschere che indossiamo nella vita quotidiana sono come annientate e noi rimaniamo lì, davanti alla Verità, come non lo eravamo mai stati primi e come, forse, non lo saremo mai più.

Ci è dato così di misurare l’immensa vanità delle cose effimere, cui pure, nel ritmo abituale della nostra vita, siamo soliti attribuire una smisurata importanza; e, per contrasto, vediamo emergere con chiarezza ciò che realmente conta, il nostro autentico essere, spogliato di finzioni, di orpelli e di innumerevoli illusioni.

O forse non lo vediamo con chiarezza, ma lo sentiamo; lo sentiamo, lo intuiamo, lo percepiamo in una maniera che non è quella del pensiero logico e razionale: eppure abbiamo l’indefettibile certezza che quella, e soltanto quella, è la vera essenza delle cose e che quello, e soltanto quello, è il reale significato della nostra vita; e non altro.

Nell’aria fredda e limpida della sera invernale, quando le prime stelle compaiono in cielo, accade di avere la rivelazione che nessun libro, che nessun sapere umano, che nessun discorso o ragionamento potrebbero offrirci con tanta vivida immediatezza, con tanta forza di evidenza.

Sentiamo, comprendiamo che ogni cosa è una sola; che tutto è legato a tutto, e niente vive per se stesso, separato dal resto; che noi siamo parte di questa unità, di questa armonia, di questo splendore: anche quando ci allontaniamo dalla via giusta, anche quando ci dimentichiamo della nostra chiamata essenziale.

Sentiamo che è vano preoccuparsi delle piccole cose, delle piccole ambizioni, delle piccole paure; che è stolto investire tempo ed energia in progetti effimeri, di corto respiro, per quanto da essi potrebbero derivare il cosiddetto successo e l’ammirazione delle persone inconsapevoli, sia pur numerose; e che tutto ciò che conta, invece, è prendersi cura di se stessi, della propria parte più vera e profonda.

 

*   *   *

C’è una parte divina, c’è una gemma preziosa in ognuno di noi, che giace seminascosta sotto numerosi strati di materia vile, di falsi pensieri, di sentimenti mal diretti: ed è essa che chiede, che esige di venir portata alla luce, di trovare ascolto e di essere indirizzata a compimento.

Fino a che non ascoltiamo il suo grido, la nostra vita non riuscirà a trovar pace, perché non riuscirà a trovare uno scopo.

Invano ci affanneremo dietro a cose secondarie: sempre, anche nei momenti migliori, sentiremo in bocca un retrogusto amaro; sempre, anche negli istanti di abbandono, rimarrà la sensazione di una incompletezza, di una mancanza e, perciò, di una sottile malinconia.

La malinconia della vita, la sua tristezza, il suo dolore, è quando ci crediamo separati dall’Essere, quando crediamo di vivere solamente per noi stessi; la sua gioia, la sua pienezza, è quando scopriamo, o riscopriamo, di essere uniti al Tutto, di essere parte dell’Assoluto.

In quei momenti felici sentiamo, sappiamo, con perfetta certezza, che nessun dolore, nessuna lacrima, nessun sacrificio sono, né mai sono stati inutili; che nulla va perduto, che nulla va smarrito, che nulla si dissolve nel niente; che tutto concorre a quell’armonia che solo in rari istanti e solo in maniera imperfetta riusciamo, talvolta, a intravedere.

E tale è la pace.

Le altre forme della pace che possiamo sperimentare, quando procediamo tenendo gli occhi bassi e lontani dall’Essere, dovremmo piuttosto chiamarle “tregua”: una tregua che non rinnova le forze e che non ritempra l’anima in vista di nuove prove, ma che la indebolisce e la illude, per poi gettarla  nell’amarezza dello sconforto.

In questa dimensione terrena dell’esistenza, la pace è comprendere la radiosa unità di tutte le cose e la loro indissolubile unione con l’Essere, da cui discendono e a cui ritorneranno.

È una pace temporanea: perché altre prove, altri smarrimenti, altre tristezze avranno ragione di noi, squasseranno la nostra pianticella e la faranno rabbrividire sotto le raffiche di tempesta; eppure è la pace che, qui, possiamo conseguire e alla quale dobbiamo aspirare.

Non è cosa da poco; anzi.

Chi è arrivato a comprendere questo piccolo, grande segreto, si è già spinto molto avanti sul cammino della saggezza; e, forse, è pronto per comprendere altre cose, per ascoltare altre rivelazioni, per fare ancora qualche altro passo sulla vita del ritorno all’Essere.