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Come nuvola fiammeggiante nel tramonto

di Francesco Lamendola - 24/01/2012


 


 

Hai mai visto, caro lettore, lo spettacolo struggente di una nube sospesa nel cielo al tramonto, in una bella giornata d’inverno, quando una gloria di raggi iridescenti l’attraversa e la circonfonde, quasi trasfigurandola in un mare di luce dorata?

La nuvola bianca, dai bordi che si accendono di porpora e poi di violetto, sembra sospesa nel cielo turchino della sera, come uno stupendo vascello intravisto fuori del tempo; come un galeone misterioso che una provvida bonaccia abbia fermato nella sua corsa solitaria per farcene ammirare, controluce, la sagoma elegantissima e maestosa.

Davanti a un simile scenario l’anima si sente rapita in cielo anch’essa, come se ricordasse oscuramente che quella è la sua patria lontana, cui da sempre inconsciamente aspirava.

Se non hai mai visto uno spettacolo del genere, vuol dire che sei talmente preso dalle cose di ogni giorno, dai tuoi pensieri, dai tuoi problemi, da non avere più occhi per la bellezza, anche quando essa ci viene offerta gratuitamente: perché lo spettacolo sontuoso e commovente di una nuvola che s’incendia nella luce rosseggiante del Sole che scende verso l’orizzonte, è di una poesia talmente sublime, che sembra concepito apposta per il balcone di un principe o di una regina, e invece viene porto in dono a chiunque, anche al più povero degli uomini.

Uno scrittore italiano che di maestria descrittiva ne aveva, e molta - Leopardi non esita a collocarlo fra i massimi prosatori della nostra letteratura -, il padre gesuita Daniello Bartoli, ha saputo rappresentare con i colori sfolgoranti della sua tavolozza ideale una scena del genere, in una pagina dalla bellezza superba, da mozzare il fiato (con buona pace di quei critici desanctisiani che vorrebbero fare un unico falò di tutto il Barocco).

Così, dunque, Daniello Bartoli in «L’uomo al punto» (cap. III):

 

«… La beatitudine dell’uomo del mondo si pondera con un “pusillum”, si misura con un “velociter”; e con niente più che un “transivi” [tutti riferimenti al Salmo XXXVI, già fatti anche da S. Agostino] quella che al giudicio dell’apparenza era un sì gran che, tanto non è più quella, che non è più nulla: sicché il volger gli occhi indietro a cercarla e il non rinvenirne il vestigio, si conviene esprimerlo con un “ecce” di maraviglia.

Come talvolta avviene a chi vede, verso dove sta coricandosi il sole, una nuvola cui egli investe, e penetra e tutta entro accende e avviva di così densa luce che l’oro infocato ne perde; e dove ha qualche apertura o squarcio, sembra gittar per esso sprazzi e lampi di luce, e riverberi e liste lunghissime di splendori: cosa di tanto vaga apparenza, che ella, al giudicio de’ nostri occhi, starebbe ottimamente a farsene una gloria di paradiso; e se alcun angiolo avesse a formarsi un corpo posticcio in cui rappresentarsi beato, d’altra più acconcia e riguardevol [= nobile] materia non l’impasterebbe.

Ma in due passi che voi date, e in due altri che ne dia il sole calando sotto il vostro orizzonte, rivolgetevi a cercarla: ella tanto non è più dessa, quella mirabile, quella fiammeggiante, quella bellissima di poc’anzi, che neppure le rimane su che riconoscere [qualche indizio da cui arguire] che giammai fosse bella: cambiato in ruggine l’oro ch’ella pareva; morta in lei ogni luce, e partita quell’anima non sua che le prestava il vivo e bell’essere che da sé non aveva, e rimasa un sozzo cadavero di vapor buio e piovoso.

Tal è in verità il prestissimo dileguarsi che fa quell’apparenza, quella gran vista, quel luminoso spettacolo che di sé dan qui giù i beati del mondo: talché gli occhi della carne, incantati a quel bello, a quello splendido, a quel meraviglioso che mostrano, gli stima avere, quanto aver si può, un più che piccolo paradiso di beni in terra; ma egli è veramente in aria, e di cose che non sono in essi, né proprie loro, ma prestate “ab estrinseco” e posticce.

La similitudine posta da Daniello Batoli fra la nuvola al tramonto e la vita umana che, nella sua brevità, corre verso la fine, perfettamente in armonia con i canoni estetici e morali seicenteschi, può suonare retorica ai nostri orecchi di uomini moderni; tuttavia possiede una indubbia efficacia e, quel che più conta, una reale dimensione di verità.

L’uomo antico e l’uomo medievale, sia pure da differenti punti di vista, consideravano sempre la brevità della vita: essa non era affatto un argomento tabù, anzi, era l’argomento di riflessione caratteristico della persona saggia, che aveva compreso il senso della vita umana; l’incapacità di fare costante riferimento a quella consapevolezza era considerato un comportamento da bambini o da sciocchi, indegno di un individuo maturo e responsabile.

Questo atteggiamento, con la parziale eccezione del Rinascimento (fenomeno culturale che, per quanto splendido, ha coinvolto poche migliaia di persone in tutta Europa, mentre il resto della popolazione non se n’era neppure accorta) ha conosciuto la sua ultima stagione nel tardo Cinquecento e nel Seicento, ossia in quella che fino a qualche anno fa, nei Paesi di tradizione cattolica, veniva designata, in modo riduttivo, come l’età della Controriforma.

Questo, almeno, per quel che riguarda il ceto intellettuale e, attraverso di esso, gli strati superiori della società; negli strati più umili, e particolarmente nel mondo rurale, il senso della brevità e fragilità della vita e della certezza dell’appuntamento con la morte si è conservato fino a quando, con il sedicente miracolo economico degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, anch’esso è stato sommerso sotto il peso di un consumismo becero e incosciente, insieme a molte altre cose che avrebbero meritato di venir custodite gelosamente nelle coscienze.

Da quando gli uomini, affidandosi ciecamente a una scienza e ad una tecnica assolutizzate e promosse al rango di religione del Progresso, hanno voluto farsi il Dio di se stessi, l’idea della morte è diventata un tabù e la realtà della morte (perché si può sfuggire l’idea, almeno fino a un certo punto, ma non la cosa in se stessa) è stata relegata in penombra, mediante istituzioni apposite - l’ospedale prima, l’agenzia di pompe funebri poi - affinché un vero e proprio cordone sanitario si frapponga fra essa e il resto della società, limitando al minimo indispensabile, e anche, se possibile, a qualcosa di meno, il contatto pratico e immediato fra i vivi e i morenti e, da ultimo, quello fra i vivi e i morti.

Frattanto la pubblicità ovunque imperante - che è la mitologia propria della modernità e, nello stesso tempo, lo strumento dell’auto-riproduzione del sistema industriale, volto a produrre non quel che ci serve, ma quel che fa comodo vendere - continua a negarci le immagini della vecchiaia, della malattia e della morte e ad inondarci con le immagini dell’eterna giovinezza, della salute e della vita fisica trasformata in vita immortale: perennemente senza rughe, senza acciacchi, senza solitudine e senza tristezze.

La falsificazione  e il rovesciamento della realtà nel suo contrario (direbbe Baudrillard) sono giunte al segno che non ci si vergogna di mostrare la vecchiaia in termini di salute, giovinezza ed erotismo: ed ecco le nonne sexy della pubblicità che, perfino quando devono reclamizzare una marca di dentiere («pecunia non olet!»), lo fanno con un sorriso smagliante da ventenni ed esibiscono una pelle liscia, una chioma fluente, uno sguardo brillante ed assassino, quali ci si potrebbe aspettare, tutt’al più, dalle loro nipotine liceali.

Intanto, però, nonostante le menzogne della pubblicità e le febbrili, deliranti ricerche dei biologi, la morte continua a fare il suo antico mestiere e le persone continuano ad avere la spiacevole debolezza di morire; dal che si dovrebbe dedurre che il nuovo Dio della scienza e della tecnica non è poi così onnipotente come si era creduto e che, in ogni caso, può solo illuderci che non moriremo, con il solo risultato di consegnarci alla morte più impreparati e spaventati che mai.

Questo è il punto: pensare alla morte, ovviamente in modo sano e maturo, cioè senza morbosi compiacimenti decadenti, non vuol dire porre la propria vita sotto l’ala nera di una tristezza opprimente e sconsolata; vuol dire, piuttosto, fornirle maggiori elementi di gioia e di freschezza; così come apprezza di più il panorama che si gode dalla cima di un monte colui ha scalato quest’ultimo con le proprie forze e non colui che vi è giunto in automobile, senza compiere il minimo sforzo, grazie ad una comoda strada asfaltata.

                                          

Per godere pienamente della vita, bisogna sempre ricordarsi della vecchiaia, della malattia e della morte: senza la costante consapevolezza di questo trinomio, la vita stessa perde il suo sapore e diviene una insensata successione di giorni, di mesi, di anni, nella quale non sappiamo più riconoscere il dono della bellezza e non riusciamo più a scorgere un significato.

Certo, molto dipende da ciò che pensiamo della morte in se stessa: perché quel che di essa ci fa paura, propriamente parlando, non è la sua realtà («finché ci siamo noi, lei non c’è; e quando c’è lei, non ci siamo noi», osserva giustamente Epicuro), ma le sue implicazioni o, se così vogliamo dire, le sue conseguenze; e inoltre, prima che ci arriviamo, le sue dolorose avvisaglie, sotto forma di perdita di salute, perdita di autonomia, perdita di benessere.

È chiaro che non è la stessa cosa pensare alla morte come alla fine di tutto, oppure pensarla come alla porta che ci introduce nella dimensione vera della realtà, in cui finalmente potremo vedere e capire le cose nella loro essenza; ma è altrettanto chiaro che, anche in questo secondo caso, né la vecchiaia, né la malattia, né la morte, finiscono di spaventarci o, quanto meno, di inquietarci, seguitando a morderci inesorabili con il pungiglione del timore e del dubbio.

Siamo uomini, appunto, e nient’altro che uomini; non siamo dèi, non possediamo la bacchetta magica per trasformare il dolore e la paura in letizia e serenità; siamo tutti esposti all’incognita della morte, alla sofferenza di ciò che la precede e alla perplessità per ciò che la segue: ma proprio per questo dovremmo deporre il nostro atteggiamento infantile e presuntuoso, venire a patti con la realtà e dedicare qualche riflessione alla morte, in modo da non farci cogliere impreparati. Perché se c’è una cosa che è assolutamente certa nella nostra vita, è che essa dovrà finire; e non è detto che finisca senza dolori fisici e morali.

E adesso torniamo alla nuvola al tramonto di Daniello Bartoli.

Gli splendidi colori e gl’incantevoli riflessi che la illuminano a un dato istante, nel giro di pochissimi secondi cedono il passo ad una massa oscura e quasi informe: la sua bellezza è svanita in un batter di ciglia, e noi rimaniamo delusi e perplessi davanti alla subitaneità della trasformazione che ha subito. Anche della vita umana dobbiamo pensare lo stesso, anche per essa ci dobbiamo preparare ad una simile delusione?

Dipende da che cosa, in essa, abbiamo privilegiato; da che cosa abbiamo inseguito, coltivato ed amato, considerandolo come la sua parte essenziale.

Se abbiamo inseguito, coltivato ed amato soltanto la giovinezza, il benessere e, magari, il successo ed il potere, grande sarà la nostra frustrazione, allorché scopriremo di non possedere alcun controllo su queste cose; e che, mano a mano che gli anni si succedono, esse tendono a sfuggire dalle nostre ormai deboli mani di vecchi.

Non è retorica affermare che si muore così come si è vissuto e, pertanto, che si muore bene quando si è vissuto bene; si muore male, con rimpianto e disperazione, quando non si è saputo riconoscere per tempo quel che alla vita è essenziale e quel che è accessorio, per quanto, senza dubbio, piacevole e gratificante.

L’uomo moderno, ricco di ogni sorta di sofisticatissimi gingilli tecnologici, sembra nondimeno afflitto da una cronica mancanza di tempo: vorrebbe fare mille cose nel corso della sua giornata e tende a dimenticarsi che, nella giornata della sua vita, non può permettersi di sacrificare il tempo necessario alla riflessione, anche e specialmente alla riflessione sul senso della sua vita e della sua morte.

Egli è diventato povero di quel che più conta, anche se possiede innumerevoli cose superflue: si è impoverito della sua stessa umanità.

Pensare alla morte, ricordarsi della propria mortalità, è cosa essenzialmente umana: chi non trova mai il tempo o la voglia per farlo si disumanizza, diviene estraneo a se stesso, simile a quei ridicoli e grotteschi manichini che, in veste di uomini e donne, ingannevolmente giovani e belli, popolano la pubblicità e dominano, per mezzo di quest’ultima, il nostro immaginario.

Non erano affatto stupidi i nostri nonni, i quali, senza morbosità, ma anche senza reticenze, dicevano a se stessi, più volte nel corso della loro vita: «Ricordati, uomo, che devi morire»…