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Diabolik, il nichilista

di Miro Renzaglia - 25/01/2012

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Non gli importa dei soldi. Non gli importa dei gioielli. Ha rubato miliardi di dollari e montagne di preziosi. Non ruba ai ricchi per dare ai poveri, dei quali ultimi se ne infischia palesemente. Non gli interessa nemmeno il lusso di una vita ultra comoda: potrebbe ritirarsi dal crimine e godersela alla grande, la vita. Non lo fa: compiute le sue gesta, si concede al massimo una vacanza. Da benestante, certo, ma senza gli eccessi di un Briatore in versione Panariello. Giusto il tempo di rilassarsi un attimo, prima di tornare a concepire e realizzare una nuova impresa criminale. Ha ucciso e continua a uccidere. Non si può dire che soffra di sensi di colpa per le ripetute infrazioni al 5° comandamento. Nel corso dei decenni ha mietuto più vittime lui del supposto Bin Laden. Ma non è un sadico, non gode nel farlo. Lo fa perché quello è un metodo utile a… Ecco, è su questi tre puntini di sospensione che scatta la domanda: utile a cosa, perché cosa fa quello che fa? L’unica risposta plausibile è: per il gusto della sfida. E delle sfide sempre più impossibili.

La sfida è sempre una brutta bestia. Quando si entra in sfida con qualcuno o con qualcosa, la mente si concentra solo su quella. Se poi la sfida è con te stesso, rischi di diventare monomaniaco. E Diabolik, con ogni evidenza, è in sfida con se stesso. Gli altri: che siano i poliziotti, i ricchi da derubare o i delinquenti ai quali sottrarre il loro maltolto sono semplici ostacoli da superare per arrivare al risultato finale. Il solo che gli interessi: vincere i propri limiti. Il resto, tutto il resto, esclusa Eva Kant, la sua compagna di sempre, alla quale dedica puntualmente le vittorie, esistono solo per vivacizzargli l’unica impresa che veramente gli importi: la vittoria su se stesso. Un nichilista. Un “nichilista attivo” direbbe Nietzsche. Un uomo, cioè, che non ha a cuore una vita felice ma l’opera continuamente in divenire della propria potenza; sulla cui coscienza, il giudizio della morale comune non ha alcuna presa; che si pone al di là del bene e del male; al quale mal si adatta persino la corrente definizione di “fuorilegge” applicata al delinquente abituale. Perché Diabolik è ben dentro la legge: anche se è la sua legge. E solo la sua.

«Il superuomo – scriveva Nietzsche – sarà un essere libero che agirà per realizzare se stesso». Il nichilista attivo, o il superuomo che dir si voglia, è un uomo che ha a cuore quell’unica cosa: la realizzazione di sé. Per compierla, ha bisogno di due elementi: la libertà e l’azione. Ma c’è ancora di più. Sempre Nietzsche poneva una distinzione fondamentale fra “essere liberi da” ed “essere liberi per”, assegnando valore superiore a quest’ultima accezione. Dove il “per”, ancora e sempre, è quel “sé” che si pretende realizzare. A quel “per sé” tutto il resto può, e finanche deve, essere sacrificato: il denaro, il successo sociale e persino – come si diceva sopra – la propria felicità. Senza contare che, ad ogni impresa, Diabolik: il delinquente, rischia la vita o l’ergastolo. Alla luce di ciò, non vi sembra che il detto nicciano ben si adatti al nostro personaggio? Che abbia scelto il crimine come via della propria azione realizzatrice è solo un dettaglio. Del resto, Ernst Jünger sosteneva essere «Meglio delinquenti che borghesi». Assegnando ai primi (i delinquenti) una libertà d’azione che i secondi non possono permettersi, costretti come sono dalle invisibili catene dei valori condivisi dalla società dei presunti giusti. Sempre per definizione jüngheriana, «Il passaggio al bosco» come metaforica fuoriuscita da questo consesso di valori solidificati dalla giustizia borghese diventa, allora, un transito privilegiato. Se non il solo possibile, per darsi ad altro.

Diabolik è un uomo passato al bosco, un clandestino per antonomasia: senza patria, senza ideali, senza pentimenti e senza nostalgie per il mondo del sistema valoriale degli altri uomini, volontariamente abbandonato. Quando entra in contatto con questo sistema, lo fa sempre indossando una maschera: quella dell’uomo nero nel vivo dell’azione criminosa o celandosi il volto con raffinatissime maschere facciali quando deve preparare il colpo. Anche questa pratica, a guardar bene, è l’allegoria della presa di distanza dal mondo dei giusti: nel momento del contatto, l’uomo Diabolik cessa d’essere l’uomo che è e diventa “il re del terrore” o qualsiasi altra persona, fuorché lui. L’azione, così, diventa impersonale: altro topos dell’immaginario nichilista.

Di un solo altro uomo sembra avere stima. Ed è quell’ispettore Ginko che da sempre gli dà la caccia: puntualmente sconfitto. In realtà, Ginko rappresenta il suo esatto doppio: quell’altro da sé in cui è necessario specchiarsi per non smarrire il senso della propria identità e del proprio compito. Non esistesse Ginko, Diabolik potrebbe anche ritenersi nel giusto combattimento contro un mondo di ingiusti. Ginko, invece, gli ricorda ad ogni avventura di essere quello che è: un uomo in guerra esclusivamente contro se stesso. E per se stesso. Senza amici con cui dividere i successi, e pure senza ideali condivisibili da far trionfare. Un perfetto nichilista, in somma finale.