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L’abitante della città moderna è un ossesso che si aggira come una belva prigioniera

di Francesco Lamendola - 25/01/2012


 

L’ambiente della città moderna è tanto esiziale sul piano della salute fisica, quanto su quello del benessere e dell’equilibrio spirituale.

Eppure, da alcuni secoli in qua, anche per opera dei “philosophes” illuministi, che non concepivano altra vita possibile per l’uomo colto e progredito che non fosse a Parigi, o, in alternativa, a Londra, l’ambiente urbano gode dello statuto di “migliore dei mondi possibili” da parte del’intelligencija occidentale - anzi, per dir meglio, di unico mondo possibile per chi voglia stare al passo con i tempi, e non auto-relegarsi nella pattumiera della storia.

Non è forse nelle grandi città che si concentrano i complessi industriali e finanziari, oltre che i centri decisionali del potere politico e di quello, non meno importante, dell’informazione? E non è nelle città che si fanno le barricate, le rivoluzioni, i colpi di Stato, rovesciando il vecchio ordine di cose ed instaurando le condizioni per la creazione dell’uomo nuovo?

Dunque, la città è irrinunciabile tanto al potere, quanto al contro-potere; tanto ai reazionari, che ai rivoluzionari; tanto a chi vorrebbe conservare tutto, quanto a chi sogna di cambiare tutto e distruggere tutto, pietra su pietra. E lo è perché il tipo umano tipicamente moderno, comunque la pensi in ambito politico, filosofico, religioso, è caratterizzato da un elemento comune che lo rende quanto mai simile a ciascun altro: la smania di avere, l’iperattivismo compulsivo, la nevrosi del fare, dell’agire, del sovrastare e del dominare: gli altri, le cose, il tempo, il successo, la carriera, l’affermazione del proprio ego.

Lo speculatore di borsa e il giovane contestatore sono molto più simili di quanto non possa apparire a prima vista, così come sono simili l’estremista di destra e di sinistra, l’ateo e il credente, il povero e il ricco: perché, in fin dei conti, essi vogliono le stesse cose, le vogliono nella stessa maniera e per le medesime ragioni - o per la medesima, sostanziale assenza di ragioni.

Hanno in comune la religione della tecnica e del progresso, il materialismo, l’utilitarismo, il conformismo culturale: anche se dicono cose opposte, le dicono allo stesso modo; e, in fondo, non vogliono cose diverse, se non in superficie e in apparenza, mentre, a ben guardare, desiderano proprio le stesse cose: il successo, il potere, il piacere; e le vogliono anche se non hanno alcun merito particolare da far valere: le vogliono e basta.

Hanno in comune anche il disprezzo per l’uomo della strada (senza rendersi conto di esserne il perfetto prototipo), la sopravvalutazione di sé, il narcisismo, l’inconsapevolezza: si ritengono in diritto di aspettarsi molto dalla vita, molto soprattutto in senso quantitativo; anche se poi, dopotutto, non saprebbero che fare del successo e del denaro e, probabilmente, non saprebbero nemmeno godere realmente del piacere.

Perfino i sogni dell’uomo della folla urbana si assomigliano, come se fossero fatti con lo stampino: vincere il biglietto fortunato alla lotteria, per esempio; perché egli non ama il proprio lavoro, quale che sia; non apprezza le cose buone che possiede, non vede le cose belle della vita, anche se gli passano accanto: misura tutto sul metro del dominio e dell’utilità immediata, e scarta tutto ciò che non rientra in queste due categorie.

È un isterico: non conosce la pazienza, l’attesa, la capacità di lavorare sui tempi lunghi; non ha il senso della misura e, spesso, non sa neppure le buone maniere: si fa avanti a gomitate, si agita continuamente, diffida di tutto e di tutti e pensa che gli altri siano animati dalla stessa sospettosità, dalla stessa smania di arrivare, dalla stessa febbre di riconoscimenti che lo tormentano incessantemente, senza un attimo di tregua. Corre continuamente, vuol fare cento cose, vuol sapere tutto e avere il resoconto di tutto: per questo legge i giornali ogni santo giorno e, così facendo, pensa di essere informato e di essere un cittadino partecipe e sensibile ai problemi collettivi; ma, essendo un pigro e un conformista, legge solo i giornali che gli raccontano quel che vuol sentirsi dire e porge ascolto solo a quei programmi televisivi che lo rafforzano nei suoi pregiudizi e che vellicano il suo narcisismo.

Dire che non ama la natura è un eufemismo: la natura gli è semplicemente indifferente; e se, per soddisfare la sua vanità di cittadino pseudo-informato, ogni giorno vengono abbattuti migliaia di ettari di bosco, onde poter stampare i quotidiani che domani finiranno nel cestino della carta straccia, non gliene importa nulla, ammesso che si sia mai posto il problema.

Del resto, come potrebbe amare la natura un individuo che pretende di fare della notte il giorno e viceversa; che esige di avere sul piatto, immancabilmente, ogni sorta di frutta e di verdura fuori stagione; che si dà una patina di cosmesi con quei prodotti chimici che vengono testati su cavie animali o che si ricavano dai loro organismi, uccidendoli in massa; come potrebbe amare la natura un individuo che si ricorda del verde solo quando deve portare a spasso il cane per fargli fare i bisogni, che si preoccupa degli alberi solo perché gli secca aprire il portafogli per finanziare la raccolta delle foglie in autunno o per la potatura dei rami, lungo i viali cittadini?

Così si esprime Honoré de Balzac nell’incipit del suo romanzo breve «La fanciulla dagli occhi d’oro»; e quel che dice di Parigi vale, sostanzialmente, per qualsiasi grande città moderna, oggi più ancora di ieri (traduzione di Lucio Chiavarelli, Roma, Newton Compton, 1995, pp. 25-27):

 

«Uno degli spettacoli più spaventosi in assoluto è quello offerto dalla popolazione parigina, gente orrenda a vedersi, smunta, giallastra come una pelle conciata.  Parigi è simile a un vasto campo sempre sconvolto da una tempesta di interessi sotto cui turbinano un mucchio d’uomini falciati dalla morte con maggior frequenza che altrove e che rinascono con eguale calca confusa: visi preoccupati e contorti, che sprizzano da ogni poro il carattere, i desideri, i veleni che gonfiano i loro cervelli, non volti umani, ma maschere: maschere di debolezza, di forza, di miseria, di gioia o d’ipocrisia; tutte vicine allo sfinimento, tutte marchiate con l’incancellabile impronta d’una ansimante avidità. Che vogliono? I soldi o il piacere?

Alcune osservazioni sull’anima di Parigi possono dare una spiegazione sulle cause di questo aspetto cadaverico che ha soltanto due età: infanzia e vecchiaia: infanzia scialba e scolorita, vecchiaia imbellettata che vuol sembrare gioventù. Quando vedono questa gente tratta da qualche tomba, gli stranieri, che non sono obbligati a riflettere,  provano dapprima un moto di schifo verso questa capitale, vasto laboratorio di godimenti, da cui molto presto anch’essi diventano incapaci di uscire e dove rimangono a degenerare di loro volontà. Basteranno poche parole per giustificare fisiologicamente il colore quasi infernale delle facce dei parigini, perché non è soltanto scherzosamente che Parigi è stata chiamata un inferno [probabile allusione al proverbio assai diffuso all’epoca: “Parigi è il paradiso delle donne, il purgatorio degli uomini e l’inferno dei loro figli”. E inoltre: “dal 1825 in poi è diventato un luogo comune paragonare Parigi all’inferno” (Pierre Citron, “ La Poésie de Paris, in “L’année balzacienne”, 1967, p. 39].

È una definizione che va presa sul serio.  A Parigi tutto è fumo, fuco, tutto brilla, bolle, s’arroventa, svapora. In nessun altro luogo la vita è così ardente e così bruciante. Questa sostanza sociale sempre a temperatura di fusione  sembra esclamare, appena terminato un lavoro: “Al prossimo!”, così come lo dice la natura. Come la natura, questa sostanza sociale si occupa di insetti, di fiori che durano una giornata, di inezie, di cose marginali e contemporaneamente erutta fuoco e fiamme dal suo cratere in perpetua in attività. Forse prima di analizzare le cause che danno una fisionomia particolare a ciascuna tribù di questa nazione intelligente e mutevole, è opportuno segnalare la causa principale che toglie colore e fa impallidire dando riflessi bruni o bluastri  più o meno a ogni individuo.

A furia di interessarsi di tutto, il Parigino finisce col non interessarsi a nulla. Nessun sentimento si fa notare sulla sua faccia stanca, che diventa grigia come l’intonaco delle case coperte di polvere e di fumo. E davvero, indifferente il giorno prima alle stesse cose che l’infiammeranno l’indomani, il Parigino vive come un bambino, qualunque sia la sua età. Brontola su tutto, di tutto s’appaga , sfotte tutto e tutto dimentica,vuole tutto, si dovere con tutto, ci si appassiona e poi l‘abbandona con indifferenza; re, imprese belliche, glorie, idoli sia di bronzo che di vetraccio; alo stesso modo butta nella spazzatura calze, cappelli, e cose ancora utili. Nessun sentimento resiste al flusso delle cose e la loro reazione provoca una corrente in cui si stemperano le passioni: l’amore è solo desiderio e l’odio solo ostilità; l’unico parente fidato è un biglietto da mille franchi, l’unico amico il Monte dei Pegni. Questo menefreghismo generale produce qualche conseguenza e nei salotti o per la strada nessuno è di troppo, nessuno è indispensabile o del tutto nefasto; né sciocchi, né bricconi, né gente onesta,  né persone intelligenti.. Sopportano tutto: il governo e la ghigliottina, la religione e il colera [allusione alla terribile epidemia del 1832, durante la quale perse la vita quasi mezzo milione della popolazione francese].  Con questa gente si va sempre d’accordo, non si è mai tollerati a fatica. E chi comanda allora in questo paese senza tradizioni,  senza fede, senza sentimenti? Dove hanno origine e dove vanno a finire i sentimenti, la fede e le tradizioni? Denaro e piacere. Usate questi due concetti come una lampada e percorrete questa enorme gabbia di cemento, quest’alveare dagli scoli fetidi, seguite i rivoli di quel pensiero che lo mettono in fermento, in rivolta, in angoscia?

Ecco, esaminiamo per prima la categoria degli indigenti. L’operaio, il proletario, colui che per vivere deve muovere piedi e mani, lingua e schiena, braccia e dita; colui che per primo dovrebbe economizzare le proprie forze vitali, non fa invece che logorarle, aggioga la moglie a qualche macchina, sfrutta persino i figli, inchiodando anche loro a qualche lavoro meccanico. È il direttore di fabbrica, cioè quel certo filo secondario che spinge inizialmente questa gente la quale con le mani sporche modella  al tornio e poi indora le porcellane, cuce abiti e altri indumenti, forgia il ferro, pialla il legno, fonde l’acciaio, rende duttili la canapa e il cotone e prezioso il bronzo, decora il cristallo, cerca di imitare i fiori freschi, ricama i tessuti, abbevera i cavalli, intreccia finimenti e galloni, incide il cuoio, dipinge vetture,  pialla tronchi, vaporizza il cotone, rende lieve il tulle, intaglia i diamanti, pulisce i metalli,  taglia in lastre il marmo, lima i ciottoli, tinteggia e imbianca e annerisce  qualsiasi cosa, ebbene questo vice-padrone è venuto a promettere a questi uomini impastati di sudore e di volontà, di studio e di pazienza, un salario esagerato, saia per l’incremento dei piaceri cittadini, sia in nome di quel mostro che si chiama Speculazione. E allora questa gente quadrumane s’è messa a rinunciare al sonno,  a sopportare le fatiche, a lavorare, a bestemmiare, a digiunare, a deambulare; tutti son corsi alla rovina per guadagnare quei quattrini che li affascinano.»

 

Il problema, naturalmente, è che il modo di vita urbano ha ormai contagiato il mondo, è penetrato a fondo nei piccoli centri, nei paesi e nella stessa campagna; che ormai è divenuto parte del nostro essere cittadini del terzo millennio, sia che viviamo a New York o a Pechino, sia che viviamo in un villaggio africano o in una zona rurale brasiliana.

Ovunque i modi di sentire, di pensare, di vivere, tendono a uniformarsi: ed è sempre la città a dominare culturalmente la campagna; ed è sempre la campagna, o comunque la provincia, a subire la colonizzazione culturale, a introiettare gli stereotipi, a condividere i modelli proposti dalla società urbana, primo fra tutti quello per cui una persona istruita e intelligente non può adattarsi a vivere in mezzo ai campi o in una valle di montagna, deve per forza trasferirsi in una grande città, dove non solo le occasioni di lavoro, ma anche gli stimoli culturali (e sarà poi vero?) sono incomparabilmente maggiori e più allettanti.

Nelle scuole, e non solo nei licei, ma anche alle elementari, i ragazzi e i bambini di città sfottono i loro compagni che vengono dai piccoli paesi o dalla montagna, li prendono in giro, affibbiano loro dei nomignoli ironici, se non apertamente razzisti e dispregiativi; ridicolizzano il modo in cui parlano, il modo in cui vestono, il modo in cui passano il loro tempo libero (ammesso che siano modi ancora diversi da quelli dei loro coetanei cittadini).

E così la malattia ossessiva dell’urbanesimo si propaga inarrestabile, benedetta dagli intellettuali, applaudita da tutti, a dispetto dei mali evidenti che arreca in termini di malattie fisiche e di malattie dell’anima, quali la depressione, la solitudine, l’angoscia esistenziale, il sovraffaticamento emozionale e la continua tensione nervosa…