Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Saranno i sofisti come Galimberti a traghettarci dal mondo delle parole a quello delle cose?

Saranno i sofisti come Galimberti a traghettarci dal mondo delle parole a quello delle cose?

di Francesco Lamendola - 19/02/2012


 


 

Da quanto Kant ha messo fra parentesi la metafisica e secoli di “philosophia perennis”, mediante la più rigorosa auto-castrazione che il pensiero occidentale abbia mai concepito, e sino alle odierne filosofie del linguaggio, secondo le quali tutto quello che si può domandare al pensiero è di decidere se una proposizione abbia senso compiuto oppure no, indipendentemente dalla sua verità o anche solo dalla sua verosimiglianza, si è fatta avanti una schiera di nuovi sofisti, culminata nelle deliranti fumisterie hegeliane ma tuttora ben viva e vegeta, la quale, stiracchiando quattro concettuzzi presi a prestito qua e là, ma specialmente dal povero Nietzsche - il cui pensiero è ormai preso d’assalto come una autentica cava di materiali di riporto e saccheggiato senza alcun ritegno, proprio come i Barberini fecero dei grandiosi monumenti dell’antica Roma -, proclama, come fosse la più grande novità che si possa immaginare, che l’uomo è ormai maturo per fare tutto da solo e che deve emanciparsi non solo dalle vecchie illusioni teiste, ma anche delle nuove certezze della scienza, in nome di un nomade vagare tutto laico e immanente, che ha la meta e lo scopo in se stesso.

In nome del “pensiero debole” e agitando il terribile spauracchio delle vittime e delle torture che grondano da ogni pensiero forte, e di cui è lastricata la storia universale, i moderni sofisti inneggiano a un relativismo a tutto campo e levano ditirambi, agitando il tirso come scatenati sacerdoti di Dioniso o di Cibele, alla incoercibile libertà dell’uomo, che essi interpretano come necessaria emancipazione da ogni dio, da ogni autorità, da ogni trascendenza, da ogni legge e da ogni morale che non nascano, contrattualisticamente, da un mutuo accordo fra gli uomini, dettato dal solo valore dell’hinc et nunc, di una specie di panteistico “qui ed ora”, che dissolve e risolve ogni antinomia per forza propria, con misteriosa infallibilità.

Sono, poi, gli stessi personaggi che imperversano sulle riviste modaiole con le loro rubriche di psicologia, la nuova religione di salvezza di questi nostri tempi liberi ed emancipati, predicando alle loro entusiaste lettrici, bisognose di “guru” a un tanto il chilo e di scorciatoie pronto uso verso la pace dei sensi e del cuore, che ciascuno di noi va bene così com’è, anzi, che ciascuno è fantastico; che non occorrono lotte, sacrifici, impegno personale, ma che basta lasciarsi andare per essere se stessi, per meritare il meglio dalla vita e per sedurre all’istante qualunque individuo del sesso opposto (e magari anche del proprio).

Affermano anche, i novelli sofisti, nei loro romanzi (giacché sono veramente infaticabili e imperversano nell’agone letterario, vincendo ricchi premi e ispirando film di successo, oltre che nel campo della saggistica filosofica e in quello della psicologia formato rivista femminile), che noi non abbiamo a che fare con le cose, ma con i loro nomi; che nulla possiamo stringere in mano, se non suoni, parole effimere, emissioni vocali; che, dunque, non bisognerebbe mai prendere questo mondo troppo sul serio, altrimenti si finisce per non ridere mai e per diventare brutti e cattivi, come lo erano gi inquisitori medievali, che non ridevano mai e avevano il viziaccio di vedere ovunque il Diavolo e di mandare la gente sul rogo maledettamente a cuor leggero.

In compenso, essi promettono di poterci traghettare verso le meraviglie del futuro, a patto che ascoltiamo la loro buona novella, che altro non è se non una ennesima rimasticatura e risciacquatura dello «Zarathustra» nietzscheano: il quale, almeno, centotrenta anni fa poteva vantare il pregio della novità ma che, ormai, è talmente sfruttato e abusato e conteso da ogni parte, con le sue danze dionisiache in nome della “leggerezza” terrestre, che ci vuole davvero una gran faccia tosta per continuare a pescare da lui, dandosi l’aria di avere inventato l’acqua calda.

Nietzsche danzava per davvero, nella sua stanza d’affitto a Torino, saltando nudo sul letto, in preda all’ebbrezza del proprio vangelo di liberazione: così lo vide, non senza sbalordimento e costernazione, quella buona donna della sua padrona di casa, dal buco della serratura, prima che qualcuno venisse a riprenderselo dalla Germania e lo mettesse su un treno: ma i suoi attardati imitatori e falsari non hanno nemmeno l’attenuante della pazzia, sono anzi estremamente furbi e attenti alle loro carriere universitarie e ai loro proventi editoriali, né si fanno soverchi scrupoli a copiare a piene mani a destra e a manca, da altri autori e perfino da se stessi (cioè dalle proprie pubblicazioni precedenti), pur di allungare in non meno di quattrocento o cinquecento pagine ciò che potrebbero dire perfettamente in centocinquanta o duecento al massimo, con evidente vantaggio delle vendite e dei relativi incassi.

Basta con la parola rigida, dunque, con la parola troppo “dicente”, che circoscrive noiosamente i concetti, che pretende di dare ordine al conoscere e di tiranneggiare sull’universo mondo: evviva le parole in libertà, le parole nomadi, le parole pellegrine, che ci insegnano e ci ricordano, se qualcuno per caso lo dimenticasse, che noi non abbiamo a che fare con il vero e con il falso, con il bello e con il brutto, con il buono ed il cattivo, ma solo con le definizioni accigliate e minacciose che stuoli di pensatori intolleranti e manichei, pervasi da impossibili manie di verità, troppo a lungo ci hanno imposto come dei gioghi, dai quali ora è giunto il tempo di liberarci.

Così, mentre Umberto Eco ci persuade che il mondo è fatto di segni, di segni illusori, e dunque di illusioni, inganni e fraintendimenti, e Umberto Galimberti annuncia che la parola sedentaria è morta ed è giunto il tempo della parola nomade, la quale, naturalmente, è libera e danzante, gioiosa e leggera, il lettore del terzo millennio si vede felicemente spianata la via di un panismo che, a ben guardare, altro non è che la versione aggiornata e (molto leggermente) corretta dell’esistenzialismo, l’ultima avanguardia filosofica che, per quanto ormai alquanto stagionata, come un vecchio ragazzo dai capelli tinti, ostenta ancora un dubbio giovanilismo, fatto audace, come si è detto, dalle generose iniezioni di superomismo in sedicesimo.

Ah, dimenticavamo il terzo ingrediente della ricetta perfetta della sofistica contemporanea: la psicanalisi, naturalmente; e come avrebbe potuto farne a meno, visto che, da Svevo in avanti, fino a Saba, fino alla psicologia odierna, tutta la cultura italiana ne è letteralmente ipnotizzata, quasi che quella forma di magia nera fosse assurta al rango di suprema verità dell’uomo e non di semplice ipotesi, peraltro azzardata e discutibile, quale teoricamente dovrebbe essere considerata, se davvero si trattasse di una teoria scientifica e non, come di fatto è avvenuto, l’ultimo grido della moda in fatto di religioni di salvezza, fuor della quale non vi sono che pianto e stridore di denti?

Ma, attenzione, l’astuzia di codesti sofisti sta nell’affermare che anche la psicanalisi va superata; la usano senza risparmio, però dicono che essa deve esser superata; non amano puntare in maniera univoca su un cavallo solo, preferiscono tenersi pronti a saltare sul prossimo: quel che conta, per loro, è stare sempre in sella: tanto, se non c’è una verità “ultima”, anzi, se non c’è neanche la parola per dirla…

Saranno, dunque, i sofisti come Galimberti a traghettarci dal mondo delle parole al mondo delle cose, dal mondo delle apparenze al mondo della verità “vera”?

Scrive, dunque, Umberto Galimberti, nella «Introduzione» al volume «Parole nomadi», una raccolta di articoli apparsi a suo tempo sul supplemento domenicale de «Il Sole - 24 Ore» e un po’ rielaborati (Op. cit., Feltrinelli, Milano, 1994, 2006, pp. 9-14):

 

«Gli uomini non hanno mai abitato il mondo, ma sempre e solo la DESCRIZIONE che di volta in volta la religione, la filosofia, la scienza hanno dato del mondo. Una descrizione attraverso PAROLE STABILI collocate ai confini dell’Universo per la sua delimitazione e a’interno dell’universo per la sua articolazione. Tra le “cose di lassù” e le “cose di quaggiù”, come voleva la geografia di Platone, la più dicente, la più descrittiva, era possibile riconoscere  quella gerarchia di parole stabili che consentivano di orientarsi tra il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto,  il pregevole e lo spregevole. L’ordine delle parole tracciava un itinerario ascensionale che dalla terra portava al cielo, e il cammino aveva una direzione, un senso, un fine. Nella  realizzazione del fine c’era promessa di salvezza e verità.»

Un giorno la filosofia greca incontrò l’annuncio ebraico-cristiano, che parlava di una terra promessa e di una patria ultima.  L’anima, che Platone aveva ideato, si trovò  orienta tata una meta  e prese a vivere l’inquietudine dell’attesa e del tempo che la parlava dalla meta. […]»

 

Siamo lieti di apprendere che l’anima, per Galimberti, è stata una invenzione di Platone; in una pubblica conferenza del 2007, a Conegliano, in provincia di Treviso, aveva affermato che tale invenzione si deve a S. Agostino.

Ma, a parte l’ovvia necessità di mettersi d’accordo con se stesso - la pagina sopra riportata è stata licenziata alle stampe nel 1994 -, resta il fatto che Galimberti, sostenitore dell’idea che tutta la realtà è corpo, che noi siamo solo corpo, che non c’è altro al di fuori del corpo, non va troppo per il sottile quando si tratta di individuare il momento storico in cui è comparsa l’idea della “psyché”, a causa della quale l’uomo occidentale ha incominciato ad avere un rapporto sbagliato e conflittuale con il proprio corpo e con la propria vita (peraltro, quasi tutti gli storci della filosofia attribuiscono quella “invenzione” non a Platone, ma a Socrate, a prescindere dal fatto se questi la considerasse anche immortale, cosa tuttora controversa).

 

«Ma anche questa cosmologia e questa temporalità non tardarono a vacillare e con esse tutte quelle parole  che ne indicavano la scansione. Annunciando  che era la terra a girare intorno al sole,  a sua volta lanciato in una corsa senza meta,  la scienza consegnò una nuova descrizione del mondo dove  si riconosceva il carattere relativo di ogni movimento  e di ogni posizione nello spazio che a sua volta  andava sempre più a confondersi con il tempo, fino a togliere al linguaggio della filosofia e della religione tutte le parole che dicevano orientamento e stabilità.  La conseguenza fu il decentramento dell’universo.  La nuova descrizione impiegava ancora le antiche parole , ma queste, nell’indicare le cose, non designavano più la loro ESSENZA,  ma solo la loro RELAZIONE.

Senza più né “alto” né “basso”, né “dentro” né “fuori”, né “lontano” né “vicino”, ‘universo perse il suo ordine, la sua finalità e la sua gerarchia, per offrirsi all’uomo come pura macchina indagabile  con gli strumenti della ragione fatta calcolo  che dischiudeva lo scenario artificiale e potente  della tecnica in cui l’uomo scoprì  la sua essenza rimasta a lungo nascosta  e resa inconoscibile dalla descrizione mitica del mondo. […]

Eppure proprio dal disincanto del mondo e nell’instabilità di tutte le parole che prima lo definivano, nacque un paesaggio insolito, simile allo spaesamento, in cui si annuncia una libertà diversa,  non più quella del sovrano che domina il suo regno, ma quella del viandante  che al limite non domina neppure la sua vita. Consegnato al nomadismo, l’uomo spinge avanti i suoi passi, ma non più con l’intenzione di trovare qualcosa, la casa, la patria, l’amore, la verità, la salvezza. […]

Camminando senza una meta all’orizzonte per non perdere le figure del paesaggio, le parole nomadi incontrano le metafore teologiche sottese alla scienza, la casualità sottesa alla ragione,  il nulla sotteso alla cifra di Dio, l’antropologia che nutre la religione, il pensiero che alimenta il mito, l’artificio dea psicologia, la non innocenza della logica,  il patire che sfugge alla psicopatologia, il vuoto della legge, il sonno della politica, che ancora non ha scoperto che tutti gli uomini sono uomini di frontiera.

E quando lo sguardo si ritira dal paesaggio e la notte dilata l’anima, le parole nomadi scoprono l’inganno dell’innocenza, le mortificazioni  dello spirito, la tortuosità del sentimento, l’altra faccia della verità che la malinconia rivela, le tappe inconcluse del nostro eterno disordine, in quel gioco di maschere utili a nascondere quel senza-volto che chiamiamo Io.»

 

Da questa prosa diluviale ed ellittica, fatta di periodi roboanti e impreziosita da un lessico sapientemente artefatto per far sembrare i concetti, invero piuttosto leggeri, più pesanti di quel che non sono; in questa prosa che ha più del mistagogo che del filosofo, in cui sarebbe fin troppo facile scoprire le incongruenze e le vuote sonorità che non vogliono dir nulla (da dove mai proviene, ad esempio, quella “malinconia” che rivela l’altra faccia della verità; e perché mai la notte dilata l’anima, invece, poniamo, di rimpicciolirla e di confonderla?), emerge che l’uomo occidentale è diventato, metaforicamente, un viandante, quando la scienza ha detronizzato la religione e la stessa filosofia e gli ha rivelato un paesaggio nuovo, stranito e vuoto, privo di punti di riferimento e incerto perfino del possesso di se stesso.

Ebbene, a noi sembra che le cose stiano altrimenti: che l’uomo cristiano, che l’uomo medievale sia stato il viandante per eccellenza; non che inventare il nomadismo, la scienza lo ha eliminato, creando, fra l’altro, parole dal significato “forte” e inappellabile, in luogo delle parole dal significato duttile e sfumato, le quali, prima, gli errano compagne di viaggio, e non solo nella prospettiva cristiana ma anche in quella greca o, quanto meno, in quella platonica e neoplatonica. È con la scienza, tanto per fare un esempio, che diviene “impossibile” l’idea del miracolo, l’idea di un uomo che cammina sulle acque, che acquieta la tempesta e che, addirittura, risorge dalla morte; è con il linguaggio della scienza che le cose diventano bianche  o nere, vere o false, con un grado di rigidità e di inappellabilità che la cultura occidentale non aveva mai conosciuto per l’innanzi.

Ma andiamo avanti.

 

«Ma che ne è dell’intervallo tra l’inizio e la fine?  Che ne è del viaggio per chi vuol arrivare? Per chi vuol arrivare, per chi mira alle cose ultime, ma anche per chi mira alle mete prossime, del viaggio ne è nulla. Le terre che egli attraversa  non esistono. Conta solo la meta. E con il viaggio muore l’Io stesso fissato sulla meta e cieco al’esperienza  che la via dispiega al viandante  che sa abitare il paesaggio e, insieme, al paesaggio sa dire addio.»

 

Strane parole, a qualunque cosa si riferiscano. Nella prospettiva religiosa il viaggio verticale della «Divina Commedia», nella prospettiva rinascimentale il viaggio orizzontale dell’«Orlando Furioso», nella prospettiva moderna, infine, il viaggio errabondo del «Don Chisciotte» e quello avventuroso di «Robinson Crusoe», sono tutt’altro che privi di occhi per ciò che sta fra l’inizio e la fine: conta la meta, certamente - e specialmente nella dimensione religiosa, dato che lì essa coincide con il significato - ma conta anche il viaggio in se stesso, conta anche quel che accade durante i viaggio, contano le esperienze che lo caratterizzano, che lo prolungano, che lo rendono affascinante, pericoloso, incerto e faticoso: come si può dire che conta solo la meta?

È solo con l’uomo stravolto della tarda modernità, è solo con i vari Zeno Cosini, Mattia Pascal, Aschenbach, Marcel, Törless, Signor K, Leopold Bloom, è solo con questa umanità malata, nevrotica, disperata, randagia nel senso più basso del termine, che il viaggio in se stesso perde ogni significato, così come smarrisce la meta; è solo con costoro che l’uomo perde la capacità di vedere, di godere, di sentire quel che il viaggio in se stesso ha da offrire, tutti concentrati, come sono, su se stessi, chiusi in un ego ipertrofico e tuttavia fragile; ed è solo con loro che le parole diventano macigni capaci di schiacciare, di soffocare ogni leggerezza (e come sono mal scritti, con le sole eccezioni di Proust e di Thomas Mann, questi romanzi “moderni”, che vorrebbero demistificare la lunga stagione dell’ipocrisia della parola!), per imporre una tirannia del linguaggio “post-scientifico”, in questo caso di derivazione psicanalitica, quale mai si era vista prima, neanche nei momenti di maggior fulgore del “pensiero forte”.

 

«L'escatologia religiosa e la progettualità laica inaugurano un viaggiatore che inaugura i luoghi che incontra  come luoghi di transito, tappe che lo avvicinano alla meta. Per lui i luoghi diventano interluoghi in attesa di quel Luogo che è la meta stessa, la patria ritrovata,  la vita realizzata, la stabilità raggiunta.  Inutilmente la via ha istituito viandanti, le loro orecchie erano sorde alle voci dei luoghi, le sirene del RITORNO e della META hanno cancellato ogni stupore, ogni meraviglia, ogni dolore, L'attesa del Regno ha ridotto la via a interregno, terra di nessuno prima delle cose ultime, anche se in quella terra di nessuno trascorre poi la nostra vita che non è una corsa verso la meta, ma uno spazio concesso all'umano come sua terra che non è patria, ma semplice via che si muove tra le macerie dei templi crollati e nel silenzio degli oracoli e delle profezie.»

 

Sfrondata del grandioso paesaggio preromantico con rovine, alla Piranesi, e fatta la tara degli errori di lessico (gli organi dell'udito non sono le orecchie, ma gli orecchi), la sostanza del discorso è quella già predicata, con più afflato poetico e con meno pesantezza filologica, dal buon vecchio Zarathustra, oltre un secolo fa: diventare abitanti a pieno titolo di questo mondo e non di altri Mondi, vivere con assoluta aderenza alle cose e al presente.

Ci sarebbe molto da dire sul fatto che le sirene del Ritorno e della Meta cancellano ogni stupore, ogni meraviglia e ogni dolore: per fare solo un esempio, qualcuno potrebbe onestamente affermare che nel «Cantico di Frate Sole» di Francesco d'Assisi, la consapevolezza della meta e l'ansia di giungervi cancellano lo stupore, la meraviglia e il dolore, nonché - categoria trascurata da Galimberti - ogni senso di gratitudine?

Il punto, infatti, non è che una concezione di vita basata sul raggiungimento di una Meta cancella lo stupore e la consapevolezza del cammino; se ciò accade, accade non a causa della Meta, ma per il modo in cui essa viene perseguita; e, del resto, può accadere anche al viandanti senza Meta, come quello auspicato da Galimberti: perché vagare senza meta non significa, automaticamente, riconoscere il percorso e aderirvi con piena consapevolezza. L'ubriaco o il drogato viaggiano, o piuttosto vagano, senza meta, o almeno senza Meta, ma i loro occhi e i loro orecchi sono chiusi, non vedono, non godono, non soffrono, né si stupiscono.

Inoltre, c'è Meta e Meta: una cosa è la Meta indicata da Buddha, da Platone o da Cristo, ossia il Ritorno alla casa dell'Essere; e una cosa ben diversa è la Meta indicata dalla scienza e da quella che Galimberti chiama la "progettualità laica": una versione profana, una specie di brutta copia dell'escatologia religiosa. Non ci sembra che siano equivalenti; non ci sembra che siano equiparabili.

Certamente la meta del «Battello ebbro» di Rimbaud è sconosciuta, anzi, inesistente; è il cieco andare alla deriva dell’inconscio, che travolge le false sicurezze dell’Io: simbolo della deriva dell’uomo moderno verso una libertà “assoluta” che finisce per coincidere con l’autodistruzione; il che conferma, se ve ne fosse bisogno, che la meta non è indifferente e che ad una negazione della meta corrisponde una negazione non tanto del viaggiare, quanto dell’esistere.

 

«L'andare che salva se stesso cancellando la meta inaugura allora una visione del mondo che è radicalmente  diversa da quella dischiusa dalla prospettiva che cancella l'andare. [...]

Rinunciando a dominare il tempo iscrivendolo in una rappresentazione di senso, l'anima del viandante che ha rinunciato alla meta sa  guardare in faccia all'indecifrabilità del destino, rifiutando quei cascami della speranza  irradiati da un destino risolto in benevola provvidenza. [...]

Gli anni che stiamo vivendo  hanno visto lo sfaldarsi di un dominio, e insieme hanno accennato quel processo migratorio che confonderà i confini dei territori su cui si orientava la nostra geografia. Usi e costumi si contaminano e, se "morale" o "etica" vuol dire COSTUME, è possibile ipotizzare le nostre etiche fondate sulle nozioni di proprietà, territorio e confine a favore di un'etica che, dissolvendo recinti e certezze, va configurandosi come etica del viandante che non si appella al diritto, ma all'esperienza, perché, a differenza dell'uomo del territorio che ha la sua certezza nella proprietà, nel confine e nella legge il viandante non può vivere senza elaborare la diversità dell'esperienza, cercando il centro non nel reticolato dei confini, ma in quei due poli che Kant indicava nell'ANIMA e nel CIELO STELLATO che per ogni viandante hanno sempre costituito gli estremi dell'arco in cui si esprime la sua vita in tensione. Senza meta e senza punti di partenza e di arrivo, che non siano punti occasionali, il viandante, con la sua etica, può essere il punto di riferimento del'umanità a venire, se appena la storia accelera  i processi di recente avviati che sono nel segno della deterritorializzazione.

Fine dell'uomo giuridico a cui la legge fornisce gli argini della sua intrinseca debolezza, e nascita dell'uomo sempre meno soggetto alle leggi del paese e sempre più costretto a far appello ai valori che trascendono la garanzia  del legalismo. Il "prossimo", sempre meno specchio di me e sempre più "altro", obbligherà tutti a fare i conti con la DIFFERENZA, come un giorno, ormai lontano nel temo, siamo stati costretti a farli con il territorio e la proprietà...»

 

Certo, una volta che sia stato abolito il senso del tempo e cacciato via il concetto di provvidenza, non resta che tornare all'idea del destino come imperscrutabile possibilità del presente: ancora una volta, dunque, l'ennesima variazione sul tema dell'esistenzialismo (con una spruzzatina di criticismo), anche se espresso in formule arcaizzanti, che vorrebbero evocare chissà quale scenario "antico", vagamente eracliteo o democriteo.  Ma si tratta davvero di una riconquistata libertà, contro le "sirene" della visione finalistica e totalizzante, o non piuttosto, semplicemente, di un adeguamento alla dura necessità dell'esistente?

Il dubbio permane, anzi si accentua, quando Galimberti passa a fare l'apologia della fine dell'etica basata sul "nomos" e l'avvento di un'etica basata unicamente sull'"anima" e sul "cielo stellato" di kantiana memoria (e questo non sarebbe un paradigma scientista, fondato sul progressismo radicale dell'Illuminismo!), a sua volta favorita, o resa possibile, da quella che egli, pudicamente, chiama "deterritorializzazione", mentre è una globalizzazione selvaggia che ha tutte le caratteristiche di una invasione generalizzata.

Si tratta di libere scelte, o di servile adorazione della Storia, di hegeliana memoria: del presente così com'è, o come si sta delineando, con i probabili vincitori da una parte e i probabili sconfitti, dall'altra?

Le parole di disprezzo con cui egli bolla chi non condivide questa fede nelle "magnifiche sorti e progressive" di siffatta deterritorializzazione («cascami  della speranza», intrinseca debolezza», «ricerca del centro nel reticolato») la dicono lunga sul tipico vezzo di chi vuole trovarsi sempre dalla parte vincente, abbracciando le tendenze del presente, assolutizzandole e censurando violentemente il passato e quanti vi si attardano: caratteristico atteggiamento della modernità totalitaria, che non ammette salvezza al di fuori di se stessa, e biasima e censura ogni divergenza di pensiero, pur sotto la vernice di uno sbandierato pluralismo.

Una sola domanda, giunti a questo punto: in che cosa la nuova etica della differenza, che vuole farsi Nomos universale, differisce dal vecchio nomos dell'etica "territoriale", cioè basata su valori assoluti e insofferenti di obiezioni o di critiche?