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Sceriffi e Balivi nell’era delle buriane e delle alluvioni

di Nicola Rollando - 05/03/2012



Sindaco, dal greco syn-dike, è colui che fa, colui che amministra la giustizia INSIEME. Insieme, certamente ai figli migliori della sua comunità, agli uomini più virtuosi ma anche a quelli più lenti, a quelli che si perdono, che sbagliano, che corrono troppo avanti. Insieme perfino agli ultimi, ai figli bastardi, ai forestieri. E’ proprio nel “sindaco” che si distingue l’ idea primordiale e grezza della democrazia. L’idea di un coro inesorabile quanto stonato, di una marcia inarrestabile quanto lenta e disordinata. Non è il balivo, rappresentante periferico di un potere centrale assoluto e neppure lo sceriffo, eletto dalla “volontà popolare” per l’appalto di particolari funzioni. Il “sindaco” è il riferimento di una comunità, la garanzia delle minoranze, il compimento di una memoria collettiva. Il raffronto tra queste banali considerazioni e l’arroganza, l’incapacità ideologica di chi oggi dovrebbe interpretare quel tipo di ruolo risulta perfino imbarazzante.
In senso fatalista e auto assolutorio ci siamo, così, sentiti spiegare, che le alluvioni sono causate dalla pioggia, che gli incendi sono provocati dal fuoco e che quando nevica tanto succede un casino immemorabile.
Quasi che gli eventi naturali fossero agenti destabilizzanti di un nemico fastidioso e insolente, senza alcuna titolarità per contrapporsi alle politiche del progresso. Eppure, in questo, esprimono il generalizzato distacco dalla realtà che accomuna le generazioni contemporanee. Nessuno, infatti, aprendo il rubinetto dell’ acqua è veramente cosciente dell’ importanza e della unicità di quel gesto, di che cosa implichi in termini di manutenzione e di cure. Nessuno, immaginando una strada, pensa ai tombini, alle canalette, ai muri di sostegno, alla vegetazione circostante, ai gas prodotti e al rumore. La strada è velocità, benzina, pedaggi, tutt’al più segnali e polizia.
Eppure siamo pur sempre figli di contadini, figli di una memoria millenaria di timore e di dialettica attiva con le stagioni e gli elementi naturali. Una memoria dissolta con l’ avvento di una ideologia grossolana che ha ipotizzato la fine della storia, che ha costruito oligarchie tecnocratiche che si sono auto investite autoritariamente di un ruolo guida nello sfacelo sociale e ambientale contemporaneo.
Ai fiumi, ai terremoti, al mare e al freddo interessa pochissimo della crisi economica e dei vari spread. Non offrono compromessi o tregue unilaterali. Sono loro il tema da affrontare, la sfida da cogliere, l’orizzonte e la storia. Il contadino che inganna, che, bonariamente, prende in giro le sue piante, le sue colture, le sue bestie per indurle a produrre più di quanto serva loro per la sopravvivenza della specie, si preoccupa di nutrirle, di accoglierle in un contesto ideale. Allo stesso modo, il mulattiere che, con le sue cantilene, le sue bestemmie e il suo incedere lento, convince i propri animali a trasportare per tutta la vita l’equivalente del proprio peso, si prende cura della loro salute, della loro bellezza, in un faticoso equilibrio di reciprocità.
Al contrario, in tutti i progetti di aggressione al territorio, ci si basa su semplici dati statistici, che dovrebbero chiudere per l’eternità i conti con il territorio circostante. L’opportunità di un’opera viene definita in funzione esclusiva di prospettive di profitto e speculazione e i tecnici hanno il compito di trovare il modo, la giustificazione scientifica di portarla a termine, in un contesto che ritiene ancora, nonostante tutto, illimitate e irreversibili quelle dinamiche espansive del mercato che mai come ora appaiono in una crisi assoluta e irreversibile. L’idea che il primo di ogni risanamento, debba essere quello del nostro povero territorio violentato, non passa per la testa a nessuno.
Eppure è sotto gli occhi di tutti come alluvioni, terremoti e incendi non facciano sconti ed eccezioni, distruggendo democraticamente, allo stesso modo stalle, cantine, internet point e lavanderie a gettone. Balivi, satrapi e sceriffi bollano con fastidio questo tipo di tesi, largamente minoritarie, come utopiche ed inverosimili, senza rendersi minimamente conto di come, al contrario, sia proprio il modello dominante ad essere privo di ogni concretezza e di prospettiva. C’è bisogno loro, ora che crisi economica e crisi ambientale viaggiano con questa micidiale simmetria, per puntellare il traballante quadro ideologico generale. Non c’è spazio per chi pensa di fare giustizia insieme alla propria gente, alla propria terra.