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Quali sono le prospettive del movimento per la "transizione"

di Nafez Mossadeq Ahmed - 05/03/2012




Siamo forse di fronte al momento in cui il movimento di Transizione è pronto per il proprio decollo. C’è ormai un desiderio diffuso di un cambiamento radicale, non ci sono dubbi. Non è una coincidenza che il movimento Occupy negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nell’Europa occidentale sia cresciuto a vista d’occhio fin dai primi mesi del 2011, sulla scia delle rivolte della Primavera Araba che hanno scosso il Medio Oriente e il Nord Africa dal dicembre 2010.

L’esplosione di massa dell’indignazione pubblica tra Oriente e Occidente ha preso di sorpresa la maggior parte di noi, più o meno come gli economisti neoliberisti mainstream non riuscirono a prevedere la crisi economica nel 2008. Ma la tendenza era già presente. Poco prima della Primavera Araba era uscito il mio libro A User’s Guide to the Crisis of Civilization: And How to Save It. Il libro è il primo serio tentativo di riunire le crisi apparentemente diverse del cambiamento climatico, dell’esaurimento dell’energia, della scarsità di cibo, della crisi economica, del terrorismo, della guerra e della militarizzazione dello stato in un unico quadro di analisi. Il mio approccio olistico critica la traiettoria autonegazionista del capitalismo contemporaneo neoliberista, ripercorre la probabile scomparsa della civiltà industriale nella sua forma attuale entro i prossimi decenni e suggerisce una serie di cambiamenti fondamentali a livello politico, economico, culturale, ideologico ed etico che le comunità devono esplorare per ottenere una transizione verso strutture più sostenibili, eque e partecipative.

A differenza di molti economisti mainstream, io avevo previsto nel 2006il crollo finanziario globale scatenato dal collasso dei mercati immobiliari. Nel mio libro avvertivo anche che la nostra incapacità a capire le interconnessioni e il contesto sistemico delle crisi contemporanee avrebbero inibito non solo la nostra capacità di affrontarle in modo efficace, ma avrebbero portato poi inevitabilmente a risposte mal concepite, di breve durata e basate sulla violenza, per controllare i sintomi della convergenza di crisi e mantenere lo status quo.

È vero che le mie argomentazioni non sono divertenti, non sono letture da fare per addormentarsi. Così, quando il regista Dean Puckett si offrì di promuovere il mio libro su Youtube, dopo averlo incontrato per caso in un raduno dei Democratici a St. James Park, ero abbastanza euforico. Dean e io conoscevamo e rispettavamo da anni il lavoro l’uno dell’altro e fui molto contento del fatto che si fosse offerto di aiutarmi a esprimere le mie idee, dopo avermi sentito parlare al raduno.

Ci accordammo per una data e Dean arrivò nel mio appartamento con la sua macchina da presa per intervistarmi in quello che pensavamo potesse essere un piccolo video tranquillo da poter usare nel mio blog o nel mio sito. Si sedette di fronte a me nel mio piccolo ufficio, sfogliando il mio libro e facendomi domande. Alla fine avevamo conversato per quasi cinque ore. “Forse potremmo fare una serie di video, allora”, azzardò Dean mentre usciva dal mio appartamento.

Circa una settimana dopo, Dean mi chiamò e mi disse che aveva provato a fare un assemblaggio della nostra intervista con vecchi filmati di repertorio degli anni ‘40, ‘50 e ’60 - soprattutto film di ingegneria sociale realizzati da aziende e dal governo per celebrare il presunto splendore del capitalismo industriale – per illustrare le mie tesi.

Aveva anche chiesto all’artista Lucca Benney di creare un’animazione che rappresentasse uno dei temi chiave del libro, collegato a un pop-eye di un mostro disegnato a mano che raffigurava il Mostro della Crescita Illimitata.

Un filmato di 15 minuti su Meat Carving
da cui è stata presa una sequenza di 6 secondi per l’inizio del video.

Nafeez”, mi ricordo mi disse Dean, “penso che questo potrebbe essere un lungometraggio.” Ero ovviamente emozionato. Un film sul mio libro? Era il sogno di ogni scrittore divenuto realtà.

Il lavoro con Dean e Lucca con fondi limitatissimi per fare il film fu illuminante ed esilarante. Per quasi un anno lavorammo sul modo di tradurre le mie idee riguardo la crisi di civiltà e la necessità di una transizione radicale verso una società post-carbone, nel formato di un film-documentario. Si trattava di rompere ciò che nel libro è presentato come un argomento complesso, rigoroso e interdisciplinare attinto da centinaia di fonti accademiche e industriali per ricomporre un quadro olistico teorico sofisticato in un resoconto di un’ora e venti minuti, zeppo di sorprendenti immagini d’epoca, cronache attuali e disegni animati colorati.

"The Crisis of Civilization": video autofinanziato che spiega come il film è stato realizzato

Il messaggio del film, come il libro, è in fondo semplice. Se vogliamo superare la convergenza di crisi di civiltà in cui ci troviamo oggi, dobbiamo rimediare alla frammentazione del nostro approccio in favore di una visione olistica più allargata. Ma ciò deve essere fatto non solo in senso puramente epistemologico, nel modo in cui perseguiamo la conoscenza – che richiede pensiero aperto e sistemico -, ma anche in senso pratico, in relazione al nostro modo di fare politica e, forse ancor più importante, di fare attivismo.

Oggigiorno, non parliamo semplicemente l’uno con l’altro. I nostri economisti, politici, esperti di agricoltura, ecologisti, imprenditori, artisti e attivisti operano fondamentalmente in spazi autonomi, raramente comunichiamo oltre i confini delle varie discipline e tanto meno possiamo coordinare attivamente i nostri sforzi. Questa frammentazione affligge non solo il modo in cui perseguiamo la conoscenza, ma caratterizza anche il modo in cui concepiamo la politica e, di conseguenza, il modo in cui le nostre società smettono di funzionare. Come attivisti, allora, abbiamo la necessità urgente di poter contrastare questo fenomeno, rendendo olistico il nostro attivismo.

Sfortunatamente, non sta avvenendo questo. Anche se il movimento Transition Town ha fatto passi da gigante, c’è ancora molto da fare. Ad oggi, il movimento rimane fondamentalmente bianco e formato da elementi della classe media. Malgrado la visione di una società più sostenibile e equa, si potrebbe pensare, potrebbe interessare una cittadinanza sempre più ampia e sempre più disillusa, il movimento della transizione ha tuttavia in gran parte fallito nel raggiungere e nel coinvolgere proprio quei gruppi che stanno soffrendo più di tutti nel sistema attuale: nel Nord America, le minoranze etniche, i giovani e coloro che vivono in condizioni di povertà relativa; nella più ampia politica economica globale, i paesi del Sud, in particolare le regioni più povere e popolose dell’Africa, Asia del Sud, Medio Oriente e parti del Sud America.

Questo strano fallimento, tuttavia, non è un caso. È sintomatico dell’approccio frammentato ed egocentrico che caratterizza oggi la struttura della civiltà industriale. Noi del movimento abbiamo fallito nell’assicurare che il fenomeno Transition Town si muovesse oltre l’Occidente-centrismo, nel pensare concretamente al modo in cui la struttura delle nostre economie consumistiche occidentali è legata, in modo indelebile, alla violenza massiccia e alla repressione che avviene in lontanissime parti della terra. Per questo, non abbiamo riconosciuto la misura in cui la transizione di civiltà non è semplicemente fatta di sforzi locali per riqualificare, coltivare cibo, produrre energia e così via (tutte cose ovviamente essenziali), ma anche sfida, resistenza e trasformazione delle strutture repressive del potere statale in tutte le sue forme. Un movimento di transizione olistico deve essere in grado di collegare l’attivismo in vari settori, dall’opposizione al potere senza costrizioni delle banche alla resistenza all’invasione reazionaria dello stato verso le nostre libertà civili in nome della “sicurezza”.

Sequenza da “The Crisis of Civilization” che riguarda il Civil Contingenties Act nel Regno Unito.

Dobbiamo resistere alla violenza in scenari esteri, giustificata nel contesto della cosiddetta “Guerra al Terrore” ma chiaramente motivata a dominare risorse energetiche in rapido esaurimento, e fare azioni dirette volte a reclamare l’accesso pubblico alle ricchezze comuni, quali acqua, terra e ricchezze minerali in tutto il mondo, attualmente controllate dall’”1%”.

L’1% possiede tutta la terra; cosa abbiamo intenzione di fare?

Nella misura in cui non siamo ancora riusciti a riunirci sotto un unico ombrello, nell’ottica di una transizione verso una visione alternativa della società, il nostro attivismo rimane disunito e vago, come i problemi che stiamo cercando di affrontare. Ecco perché, in ultima analisi, i giovani e le persone svantaggiate sia in Occidente che in Oriente – che potenzialmente potrebbero beneficiare al meglio di tale transizione – non possono ancora considerare importante il movimento Transition Town.

Allo stesso modo, se il movimento Occupy e la Primavera Araba non si radicano in una comprensione profonda del più ampio contesto sistemico dei problemi che stiamo affrontando e nel corrispondente bisogno di un approccio olistico per affrontarli (non solo allo scopo di influenzare le lobby defunte e gli stati corrotti per un cambiamento, ma anche per costruire nuove strutture alternative, dalle fondamenta) – essi falliranno. Questi movimenti sociali hanno bisogno di attingere dai progressi sorprendenti già effettuati dal movimento Transition Town, così come dalle sue rivelazioni più profonde sulle origini delle sfide che stiamo ora affrontando, per rivitalizzare l’attivismo in modo che diventi qualcosa di superiore alla singola risoluzione di un problema. Il compito è quello di piantare i semi della nuova civiltà post-carbone, qui, ora, all’interno del guscio della morente società industriale. Occupy, Primavera e Transition non devono parlarsi l’un l’altra. Devono diventare una cosa sola.

Abbiamo realizzato questo film come uno strumento per aiutare le persone a capire meglio le interconnessioni tra le crisi multiple e convergenti e il bisogno urgente di una transizione di civiltà; ma ancora di più per aiutare gli attivisti già informati di questi problemi, a comunicarli con maggiore efficacia, potenza e positività a un pubblico sempre più ampio. L’idea era di dare alle persone un qualcosa di solido con cui capire tutto quello che sta deteriorandosi nel mondo e quindi riconoscere la necessità di una radicale trasformazione sistemica per poter sopravvivere, e forse anche prosperare, nel ventunesimo secolo.

Speriamo di esserci riusciti. Da ottobre stiamo raccogliendo le intuizioni fantastiche e illuminanti di quest’analisi collettiva e siamo orgogliosi di annunciare che il 14 marzo potremo offrirvi questo film gratuito on line, e acquistabile su supporto DVD con un sacco di extra, in confezione biodegradabile e riciclata, per mostrarlo ai vostri amici, familiari, colleghi, comunità, rappresentanti eletti e non eletti. Coscienti. Pronti. Attivi.

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Il dottor Nafeez Mosaddeq Ahmed è Direttore Esecutivo dell’Institute for Policy Research & Development a Londra. Il suo ultimo libro è A User’s Guide to the Crisis of Civilization: And How to Save It (Pluto/Palgrave Macmillan, 2010). E’ autore e narratore del film-documentario The Crisis of Civilization (2011).

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Fonte: Why we made The Crisis of Civilization and what's next for Transition


Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ALESSANDRA BALDELLI