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Le prime tredici stelle

di Mario Grossi - 06/03/2012


È strano come nelle recensioni di libri ci siano sempre pochissimi accenni al titolo e al libro come oggetto fisico. Se è vero che il titolo quasi mai è opera dell’autore e che il supporto cartaceo è appunto un supporto e dunque non meritevole di citazione, è pur vero che il libro nella sua interezza è oggetto d’alto artigianato che non può essere smembrato. Non c’è divisione, anche se esiste differenza, tra l’hardware cartaceo e il software che costituisce la scrittura dell’autore.

Il supporto è veicolo del supportato e ha pertanto rilievo decisivo per la buona riuscita dell’opera. Penso a questo giocherellando, dopo averlo letto, con Le prime tredici stelle di Alfredo Venturi che la casa editrice Hobby&Work ha pubblicato nel febbraio scorso.

Il titolo ha un sapore vagamente poetico e rimanda a quel momento di soglia, di passaggio, di incerta frattura, posto tra il tramonto e la prima oscurità, da cui spuntano le prime e più luminose stelle nel firmamento. Il titolo si accosta a un sottotitolo in apparente contrasto con la sua poeticità, L’alba di una superpotenza: gli Stati Uniti d’America. In apparente contrasto perché c’è sempre della poesia in una nascita, e ogni nascita si pone inevitabilmente su una frattura lirica e lacerante che differenzia l’indifferenziato.

Poi c’è il supporto libresco, leggero, di dimensioni contenute, con una copertina luccicante e policroma che, con un classico dell’americanità: le teste dei presidenti scolpite nella roccia di Mount Rushmore nelle Black Hills sacre agli Indiani d’America, introduce iconograficamente uno dei temi più ambigui sviluppati nel saggio, scritto su delle belle pagine di sobrio color avorio opaco assai rilassanti per il lettore.

Tutto questo si riflette e si riproduce nella scrittura di Alfredo Venturi e nella struttura di questo testo di divulgazione storica, quasi a testimoniare l’inestricabile vita in simbiosi tra testo e supporto.

Simbiosi che ricorda quelle strana striscia che è l’anello di Moebius in cui puoi indicare quale sia la superficie interna e quella esterna di ogni singolo punto della struttura ma se la percorri tutta non saprai mai indicare dove l’interno diventa esterno e viceversa.

Vi siete mai chiesti come deve essere la scrittura di un saggio che fa della divulgazione la sua cifra?

Deve essere asciutta, scarna, priva di fronzoli, capace di staccare pezzi commestibili dalla ridondante e talvolta flaccida massa di carne che sono gli accadimenti della Storia.

E questa è una scrittura agile che ricorda da vicino le dimensioni e la flessuosità del libro, le sue sobrie pagine bianche, prive del peso di tutte quelle minuscole note a piè di pagina che affollano i testi scientifici.

Da questa scrittura, utilizzata per narrare sequenze facili da seguire, vengono enucleati dei fatti, in apparenza marginali, quasi degli aneddoti, nel contesto generale del fluire del racconto, degli eventi che sono degli squarci colorati che permettono di fissare un concetto o un evento che sarebbe complicato far comprendere.

Tecnica che ricorda molto il titolo, il sottotitolo e soprattutto la copertina del libro che utilizza la policromia scintillante e la raffigurazione simbolica della fotografia per raccontare, per immagine e lampi di luce, quello che non sarebbe narrabile nella brevità e secchezza del testo divulgativo.

Questa tecnica ondeggia, fatte le dovute proporzioni, tra il Romanico, rappresentato dalle pagine bianche e dalla narrazione rigorosa degli eventi principali e il Gotico, rappresentato dalla fiammeggiante copertina, dagli aneddoti colorati e dai brevi affreschi che fissano i principali protagonisti.

Il saggio risulta una sorta di puzzle tridimensionale ben riuscito che accosta sapientemente le tessere su ogni piano del gioco e le interconnette con gli altri strati di una storia di cui si è scritto molto ma che s’incastra in una complessa ambiguità mai del tutto digerita da quelli che, come me, non sono specialisti.

E così la scrittura rigorosa e chirurgica serve per illuminare una storia che parte dalle prime contrapposizioni tra coloni e Inghilterra. Contrapposizioni squisitamente dialettiche che rapidamente però prendono una piega che diventa sempre più accesa, fino a sfociare in aperti gesti di ribellione, cui seguono le ritorsioni, fino alla guerra conclamata e vissuta da entrambe le parti senza esclusione di colpi.

Su una trama lineare, l’eterno ribellarsi di chi si sente oppresso contro l’oppressore, s’innasta poi tutta una serie di questioni, collaterali ma sostanziali allo stesso tempo.

È così che prende forma il racconto stratificato a tessere che disegna questo saggio. La linearità della contesa si complica a dismisura, complici i tanti interessi in gioco e le figure che partecipano a questa guerra per l’indipendenza. Vengono sciorinati i rapporti dei coloni con la Francia e degli interessi di quest’ultima a finanziare e sostenere i ribelli, per le antiche rivalità con i nemici inglesi, così come gli interessi della Spagna che in quelle zone ha territori e domini che non vuole vedersi sfilare.

Ci sono anche le tante storie degli idealisti di tutta Europa, che accorrono per dare un contributo: francesi, polacchi, prussiani e anche Italiani così come ci viene raccontato attraverso la storia curiosa di Mazzei, l’amico di Jefferson.

La parte forse più emblematica e struggente è quella dei combattenti indiani.

Le tribù, rivali tra di loro, incapaci di un’unità d’intenti si schierarono un po’ con gli inglesi e un po’ con i coloni dando vita a una guerra, aspra, violenta, cruenta, marchiata, fin dall’inizio, dal segno della sconfitta.

Il loro destino era già suonato e scoprirono, loro malgrado, che trattare con i nuovi venuti e cercare di arginarne gli appetiti non era cosa praticabile. Il loro tramonto era già tutto scritto.

Ed è in questa storia, raccontata con partecipazione non piagnucolosa, che è nascosto quell’ambiguo inizio della nazione americana che, a tutela dei tanti fuggitivi d’Europa e del mondo, si era ribellata al potere costituito e inamovibile degli Inglesi.

Come poteva una rivoluzione siffatta soffocare le aspettative indiane? Come poteva sopportare la schiavitù negli stati agricoli del Sud?

Un presidente Washington, eroe nazionale e schiavista, appare una contraddizione che percorre con continuità tutti quegli anni e quelli a venire.

Scorre la narrazione nella descrizione dei tanti apporti diversi, non ultimo quello dei massoni di mezzo mondo, i cui simboli saranno riproposti sui dollari e sugli edifici che verranno eretti a Washington successivamente.

Tra gli aneddoti più azzeccati c’è quello del simbolo degli Stati Uniti che Franklin voleva rappresentare con il tacchino, animale un po’ tonto e inoffensivo, significativo nell’iconografia dei Padri Pellegrini e della nazione tutta, che i suoi concittadini bocciarono, preferendogli l’aquila dalla testa bianca, assai più aggressiva.

L’interesse dell’aneddoto sta nella rapida ma puntuale descrizione dell’aquila che in qualche modo racconta per immagini ciò che gli USA sono ancora.

In una delle zampe, armate con poderosi artigli, l’aquila stringe un ramoscello d’ulivo a stemperare quell’aggressività che emana dal grifagno volatile. Nell’altra un fascio di frecce, tredici, per ricordare, sì l’unione federata dei primi stati ribelli, ma anche per sottolineare, con ancor più forza, la volontà di voler difendere, anche con la violenza delle armi, i propri ideali.

È il principio della pax americana e del doppio binario su cui corre la rappresentazione che l’America ha di se.

La certezza granitica di essere dalla parte della ragione e la volontà, assoluta (anche se intermittente), di esportare il proprio modello di vita a tutti.

Il sogno americano fatto di pace e di benessere per i cittadini che si tramuta, spesso e volentieri, in incubo per gli altri che sono costretti ad assaggiarne i dardi acuminati.

Da questo piccolo sprazzo di colore si può capire uno dei pregi del libro.

Si parla di Storia, ormai lontana nel tempo, ma quegli avvenimenti vengono vividamente rappresentati come una sorta di velina (o se vogliamo rimanere al Gotico, come una sorta di vetrata che proietta i colori dell’attualità su un pavimento consunto dal tempo) che in trasparenza fa affiorare temi attualissimi e spiega situazioni d’oggi alla luce dell’immaginario collettivo yankee, come la nascita del tea party, le molte idiosincrasie degli Statunitensi come la loro feroce avversione per le tasse, le passioni oscene come l’amore per le armi e per l’autodifesa personale.

Raccontando un passato fatto di balle di tè gettate in mare, di ribellioni contro la tassa sulla distillazione degli alcolici, d’intangibilità del secondo emendamento, si fa luce su quei fatti ma s’illumina anche il lato umorale e rettiliano che informa le scelte di oggi che talvolta sembrano dei riflessi condizionati.

È questa freschezza del racconto, il continuo rimando esplicito o meno, all’oggi che ne fa un libro di divulgazione non solo storica ma a tutto tondo e che permette al lettore di non impantanarsi mai in un passato polveroso ormai relegato sugli scaffali del già vissuto.

Un saggio che ci insegna, senza supponenza, l’attualità della scienza storica, troppo spesso considerata come un vecchio cappotto, buono solo per le tarme.