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Che cosa vuol dire, esattamente, vivere la vita sino in fondo, momento per momento?

di Francesco Lamendola - 07/03/2012


 


 

Le filosofie le quali, a vario titolo e in differenti prospettive, tendono a delineare una concezione edonistica, hanno in comune l’intensità dell’attimo, dell’hinc et nunc, del qui e ora, e non si stancano di ripetere che ogni singolo istante deve essere vissuto intensamente, e che ogni attimo distratto dall’immersione nel presente è rubato a noi stessi, è un delitto contro la vita.

Poiché tutte le filosofie edoniste hanno un fondo materialista, esse ritengono che sottrarre anche solo un’ora alla dimensione immanente per inseguire le “chimere” dello spirito, è come cedere della moneta buona in cambio di moneta fasulla, e che a ciò le persone sono indotte da un secolare, millenario condizionamento operato dai preti; e che la vita, per riprendersi i suoi diritti, deve fare piazza pulita di tutto ciò che è trascendenza, “al di là”, anima e cose simili: miraggi e illusioni create da chi non sa vivere la vita veramente, da chi cerca risarcimenti ultraterreni per le miserie della propria esistenza.

Ma che cosa vuol dire, esattamente, vivere la vita pienamente, vivere la vita sino in fondo, godendola e assaporandola in ogni istante, anche nella dimensione più umile e ordinaria? Siamo proprio sicuri che voglia dire escludere da essa la dimensione dell’assoluto, e ridurla ad un continuo inseguimento di ciò che reca piacere e ad una continua fuga da ciò che reca, o che si teme che possa recare, noia o dolore?

Qui, forse, esiste una certa confusione concettuale, sia da parte degli edonisti, sia da parte degli spiritualisti, i quali adoperano parole ambigue e frasi vaghe e generiche, credendo di avere ben definito il proprio punto di vista, mentre le cose stanno altrimenti.

Vivere il presente, dunque; vivere il qui ed ora: tutto questo è giustissimo; chi potrebbe asserire il contrario? Ma il presente non esclude né il ricordo del passato, né l’attesa del futuro; il presente è, sì, immersione nel flusso del divenire, ma immersione cosciente e intelligente, dunque immersione perfettamente consapevole del fatto che il presente è la goccia del mare di cui siamo parte, non è una scheggia impazzita o un frammento isolato, non è un coriandolo della realtà, non è una tessera strappata via dal mosaico: è parte di un continuum, di un tutto armonioso e onnicomprensivo, che ogni cosa abbraccia, dal filo d’erba alla più lontana galassia.

Non si può contrapporre, quindi, la consapevolezza dell’istante alla consapevolezza dell’eterno: non sono affatto due cose diverse, sono le due facce di una stessa medaglia; e l’una rimanda continuamente e necessariamente all’altra, talché la vera saggezza consiste nel vivere entrambe contemporaneamente, con pari intensità e con uguale pregnanza.

Vivere sino in fondo il qui ed ora, infatti, non può voler dire rendersi ciechi e sordi davanti alla bellezza e alla vastità dell’insieme: opinare diversamente, significa ricadere in quella autentica deformazione menale che è il riduzionismo, ossia la pretesa di poter considerare la parte come se fosse staccata e separata dal tutto.

Ogni riduzionismo, anche se contrabbandato - come spesso avviene - per filosofia del progresso e del benessere,  è, in realtà, una filosofia di morte, perché tende a ridurre a cosa sezionata, a cosa inerte e senza vita, ciò che, invece, è parte di una vita più vasta, in cui circola vigorosamente la linfa di una flusso universale; è la pretesa di inchiodare in una formula fissa il movimento, di pietrificare in una immobilità cadaverica il fresco palpito della vita cosmica.

Non solo: ogni riduzionismo è anche una forma di pornografia, perché questo e non altro è la pornografia: la pretesa di staccare la parte dal tutto, assolutizzarla, idolatrarla, come se fosse una cosa completa in se stessa.

Hic et nunc, dunque, è la classica formuletta alla moda, che vorrebbe dir tutto e non dice nulla: si tratta di vedere come si vive il qui ed ora, se in maniera consapevole o inconsapevole. Il monaco zen, che pettina la ghiaia del giardino e dispone le pietre presso la fontana, è certamente immerso, sino in fondo, in quello che sta facendo, nei gesti minimi di una attività pratica molto concreta e, in apparenza, di corto respiro: invece egli sta abbracciando l’universo intero nel palmo della sua mano, e il suo respiro si fonde con il respiro dell’universo.

Barando un po’ al gioco, Nietzsche è stato uno degli assertori della necessità di vivere a pieno l’istante, di essere degli attenti osservatori dei fatti minimi della vita, dei buongustai dei piccoli gesti d’ogni giorno; e, nel suo materialismo programmatico e falsamente primitivo (qualche cosa di analogo al mito del buon selvaggio di Rousseau), ha sostenuto che il parlare di cose interessanti a pranzo è cosa contraria ad una buona digestione; come se il parlare di cose noiose e deprimenti fosse, invece, favorevole ad essa.

La verità è che non si può scindere l’istante come durata e l’istante come eternità; che non si può separare la sensazione fisica dall’emozione interiore; che questi pretesi difensori delle ragioni del corpo, della buona salute e del buon appetito, finiscono per diventare i preti alla rovescia di una religione del corpo che si ritorce contro il corpo stesso: perché, se è vero che molti mali hanno origine dall’ignorare le ragioni del corpo e dal sacrificarle a un altrove che non arriva mai, è altrettanto vero che molti altri nascono dall’essere ciechi e sordi ai bisogni dell’anima e che, se quest’ultima è ammalata, nemmeno il corpo potrà mai godere di buona salute.

Sostiene, infatti, Nietzsche in «Umano, troppo umano (Parte Seconda, «Il Viandante e la sua ombra», 6; traduzione italiana di Mirella Ulivieri, Roma, Newton Compton, 1979, 1990, p. 327):

 

«LA FRAGILITÀ TERRENA E LA SUA CAUSA PRINCIPALE. - Guardandosi intorno, si incontrano sempre individui che per tutta la vita hanno mangiato uova senza accorgersi che quelle oblunghe sono le più gustose, che non sanno che un temporale è salutare per l'addome, che gli odori gradevoli hanno una fragranza maggiore nell'aria fredda e tersa, che il nostro senso del gusto è diverso nei vari punti della bocca, che ogni pasto consumato ascoltando o parlando di cose interessanti nuoce allo stomaco. Sui può non accontentarsi di questi esempi di mancanza di spirito di osservazione ; ma tanto più si deve ammettere CHE LE COSE PIÙ VICINE DI TUTTE vengono dai più viste assai malamente, e molto raramente prese in considerazione. E questo è indifferente? Si consideri che da questa mancanza derivano QUASI TUTTI I DIFETTI FISICI E SPIRITUALI  dei singoli: non sapere cosa ci giova, cosa ci nuoce nell'organizzazione della vita, nella ripartizione del giorno, del tempo e nella scelta scelta dei rapporti, nella professione e nell'ozio,  nel comandare e nell'ubbidire, nel sentire la natura  e l'arte, nel mangiare, dormire  e pensare; essere ignoranti e non avere occhi acuti PER CIÒ CHE È PIÙ PICCOLO E COMUNE - è questo che per tanti fa della terra un "prato di sventura".  Non si dica che ciò deriva, qui come dappertutto, dall'irragionevolezza umana: anzi - di ragione ce n'è abbastanza e anche troppa, ma essa viene MALE INDIRIZZATA  E ARTIFICIOSAMENTE DISTOLTA delle cose piccole e più vicine.  Preti e maestri, e la sublime avidità di dominio degli idealisti di qualsiasi tipo, dai più grossolani ai più raffinati, cominciano subito a inculcare nel bambino che ciò che conta è qualcosa di completamente diverso: è la salvezza dell'anima, il servizio dello Stato,  il progresso della scienza, oppure la reputazione e il possesso come mezzi per render servizio all'intera umanità, mentre le esigenze del singolo, i suoi bisogni grandi e piccoli, entro le ventiquattro ore del giorno sarebbero qualcosa di spregevole o di indifferente. - Già Socrate si difendeva con tutte le forze  da questa prezzante disattenzione per l'umano  a favore dell'uomo e gli piaceva ricordare, con un detto di Omero, il vero ambito e l'essenza  di ogni cura e di ogni pensiero: è quello e solo quello, diceva, "che di buono o di cattivo mi succede a casa".»

 

Lo ripetiamo: le cose piccole e le cose più vicine non devono essere contrapposte alle cose grandi e alle cose apparentemente lontane, perché la vera consapevolezza consiste nell’intuire la profonda unità di ogni cosa, vicina e lontana, piccola e grande, transitoria e permanente.

La verità è che “piccolo” e “grande”, “vicino” e “lontano”, “transitoria” e “permanente”, sono solamente dei nomi che diamo alle cose, balbettando, per tentar di coprire la nostra profonda ignoranza, quando faremmo assai meglio ad ammetterla con franca lingua e a tentare di diminuirla almeno un poco, facendoci umili e ponendoci in sintonia con il respiro della vita, cioè ricettivi, aperti, sereni e non giudicanti.

Allora, e solo allora, quando si sia pervenuti ad una tale consapevolezza, le contraddizioni del reale cominciano a mostrarsi meno stridenti e incomprensibili e si socchiude la porta della vera comprensione del reale.

Il reale non è fatto di cose vicine e lontane, di cose grandi o piccole; il reale è un mare profondo, nel quale siamo immersi e in cui è  impossibile separare le singole gocce, che lo compongono, l’una dall’altra; e così il presente e il passato, il presente e il futuro: non sono momenti diversi, sono semplicemente diverse angolature da cui si guarda un unico processo.

Non ci vengano perciò a dire, i signori edonisti e materialisti, che bisogna immergersi nel qui ed ora e lasciar perdere le fantasie dello spirito, come se avessero scoperto l’acqua calda: il qui ed ora non sono qualcosa a sé stante, non sono qualcosa di diverso da ieri, da un anno fa, da domani o dall’anno prossimo; non sono neppure diversi da un milione, da un miliardo di anni fa, e neppure dal futuro più remoto, quando non solo noi non ci saremo, ma non ci sarà neppure la Terra che ci ospita, né ci saranno gli altri innumerevoli corpi celesti che ora vediamo brillare in cielo e che ci sembrano la quintessenza della stabilità e della permanenza.

Nel granello di sabbia è racchiuso il mondo intero, così come nel profumo di un fiore si concentrano tutti gli odori, tutti i sapori, tutti i suoni, tutte le visioni e tutte le sensazioni tattili che furono, che sono e che saranno: tutto è in tutto, il piccolo è nel grande e il grande è nel piccolo, il vicino è nel lontano e il lontano è nel vicino.

Uomini dalla corta vista, che però molto credono di vedere, sostengono che bisogna fare una scelta, che bisogna volgere le spalle al grande ed al lontano, per poter assaporare sono in fondo ciò che è piccolo e a noi vicino, ossia la dimensione quotidiana della vita. Intenti ad ammirare la foglia, costoro vanno a sbattere contro i tronchi degli alberi, e neppure se ne rendono conto; tutti concentrati a contemplare il proprio ombelico, porterebbero la nostra nave a naufragare sugli scogli, se noi fossimo così sciocchi da affidarla nelle loro mani.

Le piccole cose quotidiane sono importanti, sono preziose, sono bellissime nella loro semplicità: a patto che non le viviamo come se fossero dei compartimenti stagni, dei vagoni piombati, delle cellette insonorizzate, ma come altrettante finestre dischiuse sul profumo dell’immensità, di quel mondo infinito che si spalanca tutto intorno a noi - e anche dentro di noi.

Ecco, allora, che prendesi cura amorevolmente di una pianta, disporre ad arte un mazzo di fiori, preparare con impegno ed affetto il pranzo per una persona cara, diventano gesti magici, che ci aprono la dimensione dell’assoluto e ci permettono di accedere, naturalmente e senza sforzo, a quella consapevolezza d’ordine superiore in cui le cose non sono più separate e slegate, ma collegate armoniosamente da mille fili, o, per dir meglio, in cui esse si rivelano per ciò che in realtà sono: le innumerevoli facce di una sola ed unica realtà.

Questo è ciò che significa saper vivere la vita intensamente, sino in fondo, attimo per attimo: questo e non altro.

Non ci sono separazione, né - tanto meno - contraddizione, fra ciò che stiamo facendo e ciò che sta al di là del nostro orizzonte visibile; fra ciò che stiamo vivendo e ciò che vivono altri; fra ciò che siamo ora e ciò che eravamo ieri o che saremo domani.

Il mare è sempre lo stesso, anche se le acque di cui è composto si trasformano continuamente, evaporando e poi ritornando ad esso sotto forma di pioggia; né il fiume è altra cosa dal mare, ma solo una sua modalità, diversa soltanto in apparenza: e così noi, piccoli rivoli che corriamo al fiume della vita e da lì ci affrettiamo verso il mare dell’Essere, da cui ogni singola cosa ha tratto origine.