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Le bambole pericolose di Euripide

di Monica Mainardi - 16/04/2012




È sempre curioso rileggere la superba drammaticità con cui Euripide inscena le vicende delle sue eroine; Elena, Alcesti, Fedra, Medea…: grandi donne, protagoniste attive di destini tragici, vive e vere nell’affrontare fino al culmine il doloroso sviluppo delle trame tessute per loro dal fato, capaci di passioni violente e intimi sentimenti, sempre consapevoli della loro densa e cruda umanità.

A lungo si è discusso e ancora si discute circa la reale posizione di Euripide nei confronti della questione femminile: c’è chi ritiene Euripide fondamentalmente misogino, in linea del resto con la cultura greca antica, chi vuole assegnargli invece una sensibilità forse troppo moderna… certo è che Euripide fu attratto dalla ‘psicologia’ delle donne, fino a riuscire come nessun altro antico a descriverne la vera essenza.

Riporterò qui alcuni fra i versi euripidei più famosi che inequivocabilmente sollevano la questione relativa alla condizione della donna: sono tratti uno dalla Medea e l’altro dall’Ippolito, e li ho scelti volutamente in netto contrasto tra di loro, perché contrastante sembra sempre Euripide: “tragicissimo e filosofo della scena, razionalista e passionale, ateo e mistico, immorale e predicatore: ecco alcuni degli aspetti contrastanti che antichi e moderni hanno visto in Euripide, e che per essere solo parzalmente veritieri, confermano innanzitutto la impossibilità di chiuderlo in uno schema, in una formula. Perché Euripide è, appunto, l’uomo dei contrasti” (Raffaele Cantarella).

Nella Medea di Euripide la personalità dell’eroina, umiliata e follemente vendicativa, domina totalmente la scena dall’inizio alla fine; più che la disperata vicenda della sventurata, i cui episodi si sviluppano ben connessi in una struttura unitaria, è l’assoluta centralità del personaggio che determina l’eccezionale tensione drammatica della tragedia.

Interessante è il primo episodio, tutto dominato dalla lucida iniziativa di Medea, sposa abbandonata e lontana dalla patria, di tramare propositi di vendetta: esce di casa e si sfoga con le donne del Coro, a cui chiede la promessa del silenzio.

La propria sorte la spinge a considerazioni di carattere generale sulla condizione della donna rispetto ai diritti dell’uomo.

Questa sciagura che si è abbattuta inaspettata su di me mi ha devastato l’anima. Sono finita e non provo più gioia a vivere, desidero morire, amiche mie. Il mio sposo, nel quale riponevo tutto, lo so bene, mi si è rivelato il peggiore degli uomini. Fra tutte le creature fornite di anima e intelligenza, noi donne siamo le più infelici. Innanzi tutto dobbiamo comprarci con una cara dote uno sposo, anzi prendere un padrone del nostro corpo, che è un male peggiore del primo. Ma in ciò c’è un grosso rischio: riceveremo un bravo o un cattivo marito?
D’altro canto la separazione è infamante per le donne e non è possibile ripudiare un marito. E poi, una donna che entra in un ambiente di norme e usi diversi, deve essere un’indovina – perché non lo ha imparato a casa sua – per sapere come dovrà passare le sue notti. E se in tutto questo riusciamo bene e lo sposo sopporta di buon grado la convivenza, allora sì che l’esistenza è invidiabile. In caso contrario morire è meglio. Un uomo, quando ha fastidio di starsene in famiglia, esce, libera il cuore dalla noia, si ritrova con amici e coetanei; noi donne, invece, dobbiamo avere sotto gli occhi sempre una sola persona. Dicono che conduciamo una vita senza pericoli, in casa, mentre loro vanno in guerra. Che ragionamento sciocco! Preferirei tre volte stare schierata dietro uno scudo che partorire una volta sola. Ma questo discorso non è uguale per me e per te. Tu hai questa tua città, la tua casa paterna, vita agiata, in mezzo agli amici. Io invece sono sola, priva di patria, oltraggiata dal mio uomo, strappata come preda da una terra di barbari. Non mi possono salvare madre o fratello o parenti. Una sola cosa vorrò da te: se trovo un mezzo, un modo per ripagare il male che mi ha fatto mio marito e sua moglie e suo suocero, tu taci! La donna è piena di paure, trema di fronte all’azione violenta e alla vista di un’arma. Ma quando è calpestata nei suoi affetti, non esiste cuore più sanguinario del suo.

(Medea, vv. 225-265 – traduzione di mainikka)

Privata della libertà e dei sentimenti, senza rapporti sociali né culturali, dalle parole di Medea la donna greca appare relegata in un’infelicissima condizione frustrante e disumanizzante, scoprendosi ridotta ad un oggetto, di cui l’uomo può disporre quale assoluto padrone.

Lo sfogo di Medea mette infatti in luce alcuni aspetti della relazione uomo-donna fortemente significativi:

  • L’unione matrimoniale è mediata dal denaro
  • Il rapporto moglie – marito è vissuto a livello di un rapporto schiavo – padrone
  • La possibilità di intessere relazioni sociali ed affettive esterne alla famiglia è di fatto attuabile solo per il marito
  • La richiesta di divorzio, benché teoricamente ammessa unilateralmente, si rivela realisticamente possibile e vantaggiosa solo per l’uomo, in quanto per la donna essa soggiace alla riprovazione morale, all’isolamento e alla morte sociale.
  • La vita coniugale per la donna è tutt’altro che fonte di protezione, il parto è foriero di pericoli tanto quanto l’esercizio militare, e il cuore della donna, se minacciato nell’intimo, abbandona la pavidità per diventare sanguinario non meno di quello dell’uomo.

Luigi Barbero fa notare, nonostante la lontananza del contesto sociale e storico, un curiosa consonanza di idee tra Euripide e il drammaturgo norvegese ottocentesco Henrik Ibsen, il quale scrisse: “ci sono due tipi di leggi morali, due tipi di coscienze, una in un uomo e un’altra completamente differente in una donna. L’una non può comprendere l’altra; ma nelle questioni pratiche della vita, la donna è giudicata dalle leggi degli uomini…”. Si tratta di un passaggio degli appunti che Ibsen stese per il suo dramma Casa di bambola, rappresentato nel 1879 a Copenaghen: una pungente critica sulla condizione della donna all’interno della famiglia e della società borghese dell’epoca vittoriana. La protagonista, Nora, moglie-bambola, priva di autonomia e maturità, quando prende coscienza della sua condizione reagisce e se ne va di casa per imparare a crescere come persona e diventare donna.

Certo, leggere la Medea come dramma borghese (una storia di tradimento e di vendetta efferata, che arriva a comprendere l’uccisione dei figli oltre che della rivale, per gettare nella più nera disperazione il marito fedifrago) è un facile rischio, se non fosse che questa tragedia ha il merito di “estrarre dalle fitte trame del mito una vicenda compatta e coerente, in cui il carattere della persona balza in primo piano rispetto alla sequela delle funzioni e delle avventure; con questo però, cosa fondamentale per l’intelligenza del dramma, il complesso armamentario mitologico (in cui affonda le sue radici) non è affatto dimenticato: esso è piuttosto sospinto su uno sfondo da cui discendono suggestioni e significati assolutamente caratterizzanti che non si possono e non si lasciano ignorare.” (Mario Vitali)

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Se nella Medea Euripide dà piena voce alle rimostranze della ‘parte lesa’, nell’Ippolito trova l’occasione contraria di infierire spietatamente contro l’intero genere femminile. Fedra, per crudele vendetta divina, sente insorgere un’insana passione per il figliastro. Essa rifiuta e invano combatte l’incestuoso sentimento e soffre nell’impari lotta contro la volontà di Afrodite, di cui ella è strumento indifeso.

La rivelazione di tale tormento, da parte della nutrice, ad Ippolito stesso suscita nel giovane una sdegnata e fiera requisitoria contro le donne:

Zeus, ma perché agli uomini hai portato alla luce del sole le donne, subdolo malanno?
Se volevi disseminare la stirpe dei mortali, non era necessario procurarlo per mezzo delle donne, ma che piuttosto gli uomini, pagando con bronzo o ferro o oro, nei tuoi templi comprassero il seme della discendenza, ciascuno in base alla stima, e vivessero così in case libere senza femmine. Ora, invece, per portarci questo male in casa, ci beviamo il patrimonio familiare. Ma è chiaro da ciò che la donna è un gran malanno: perché il padre che l’ha generata e allevata, aggiungendovi la dote, poi la sistema via, per liberarsi da un fastidio.
E colui che si prende questo essere dannoso, gode di adornare un idolo maligno, e lo riveste di pepli, lo sventurato, consumando le ricchezze domestiche.
E’ inevitabile che se si imparenta con gente d’alto rango, mantiene godendoselo un letto odioso; oppure se prende una brava donna, acquisisce dei parenti inutili e la sventura insieme al bene.
La cosa più conveniente per uno è mettersi in casa una moglie da niente, innocua per la sua stupidità. Odio la donna intelligente: che in casa mia non entri mai una con più senno di quanto sia necessario per una femmina. Infatti Cipride infonde più scelleratezza nelle sapienti: la donna semplice non rischia la follia grazie al suo corto intelletto. La donna poi non dovrebbe stare con la servitù, ma avere a che fare solo con bestie feroci mute, per non poter parlare con nessuno né sentire a sua volta parole.
Ora invece, le malvage tramano malignità nelle stanze e le serve le portano al di fuori.
Così anche tu, o maligna, sei venuta qui per propormi un’unione nel letto inviolabile di mio padre. E io mi dovrò purificare con acqua corrente, detergendomi gli orecchi. Come potrei essere disonesto io, che non mi sento puro solo sentendo tali cose?
Sappi bene, donna, la mia religiosità ti preserva: se non fossi stato sorpreso, incauto, con i giuramenti sugli dèi, non avrei avuto scrupolo ad informare mio padre.
Ora me ne esco di casa, finché Teseo è lontano, e terrò la bocca chiusa. Ma vedrò tornando qui con mio padre come lo guarderete, tu e la tua padrona: conoscerò il tuo ardire, avendone già avuto un assaggio.
Andate alla malora! Non sarò mai sazio di odiare le donne, neppure se mi si dicesse che lo ripeto sempre: sempre infatti loro sono perverse.
E allora, o qualcuno insegni alle donne ad essere virtuose, o mi si permetta di imprecare sempre contro di loro.

(Ippolito vv.616-668 – traduzione di mainikka)

Tanto umana e sanguigna è la crudeltà di Medea, quanto disumana e viziata di ipocrita religiosità appare la virtù di Ippolito.

E’ interessante notare come un certo lessico e determinate espressioni già riscontrati nel monologo di Medea siano presenti anche qui, ovviamente per ribadire concetti ribaltati e rivisti in chiave misogina:

  • Il lessico della compravendita, usato da Medea per condannare l’unione dei sessi ridotta ad un commercio, serve ad Ippolito per ipotizzare l’utopia misogina di “acquistare” la discendenza da parte del maschio senza bisogno della donna.
  • La libertà, diritto di cui secondo Medea la donna non può godere a differenza dell’uomo, che ne è il padrone, è da Ippolito identificata con una vita senza donne.
  • La donna è spersonalizzata, concezione di donna-oggetto in perfetta sintonia in entrambe le requisitorie: non è nulla più di un κακόν (termine che Medea ovviamente utilizza specularmente per indicare la cattiveria dell’uomo e l’infelice condizione della donna), un male, una sventura, o al massimo un φυτόν, un essere vivente sì, ma appartenente al mondo vegetale, per altro dannoso o inutile.
  • A tal proposito a lei che, schiava del marito – δεσπότης, tuttavia dovrebbe almeno essere δέσποινα nei confronti delle ancelle, non si vorrebbe concedere neppure di relazionarsi con la servitù.

Forzatamente isolata in un’innocua stupidità indotta, onde arginare la sua ‘pericolosità’, la donna vittima della misoginia culturale è ridotta a tutti gli effetti ad una ‘bambola’, con cui l’uomo ha diritto di giocare, su cui può infierire e che può gettare a suo piacimento.

Ma Euripide deve aver sperimentato che difficilmente una donna accetta l’umiliazione senza colpo inferire, ed è allora che la ‘bambola’ riesce a trovare una logica a tutta la sua più pericolosa irrazionalità; e guidata da questa logica ella agisce (Τολμητέον τάδε…, Medea, v.1050): lucida è la convinzione irrazionale di Alcesti che scendere nell’Ade al posto della persona amata sia un dovere; pienamente consapevole è l’irrazionalità di Fedra, che si impicca accusando Ippolito del falso stupro incestuoso; piena di inconfutabile logica è la raccapricciante volontà di Medea di colpire Giasone con l’uccisione dei suoi stessi figli, da lui generati.