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Senza fine: come raccontiamo la morte

di Pietrangelo Buttafuoco - 04/05/2012



Nel romanzo di Giacomo Papi tutti i defunti tornano dall´aldilà. Si rinnova così un tema classico della letteratura
Si riprendono i propri luoghi, salutano i loro cari e quasi non c´è spavento

Tutto è per sempre. Perfino Eraclito, nella fretta di mettersi al passo, aveva toppato l´idea del Divenire: tutto può anche scorrere per sparire e smarrirsi, ma liberarsi di un morto è faccenda ben diversa dall´uccidere un vivo.
I morti tornano. Uno dopo l´altro. Dalla storia, come dalla preistoria. Come ne I primi tornarono a nuoto, romanzo di Giacomo Papi (Einaudi Stile libero): tornano e ricominciano da dove tutto era finito. Mangiano, fanno l´amore, e gli capita anche di crepare. Possono di nuovo morire, infatti.
Nulla si era concluso nella tomba e tutto ricomincia. Arrivano dalle spiagge, per esempio, tornando appunto a nuoto. Sono rinati. Il romanzo di Papi sarà anche di genere, come sostiene chi scrive romanzi privi di genere, ma è ipnotico come un film di Hitchcock e curioso come un fumetto, un passatempo nichilista dove il racconto – la trama – è la resurrezione di tutti in quell´eternità terrena che rendevano ogni mistero del Cielo.
Tutto è per sempre e tutti a quel sempre fanno ritorno. I morti di Papi si riprendono i propri luoghi e le proprie case, salutano i propri cari e quasi non c´è spavento, anzi: hanno polpa viva, più di quanta ne abbiano i vivi. Non sono zombie, non hanno sudari e dalla loro bocca non escono i vermi della decomposizione, ma fiori odorosi di vita nuova.
I vermi, appunto. Se fosse possibile prendere a prestito il sottofondo di Fenesta ca lucive, canzone del canone poetico siciliano, già la malinconia degli innamorati, in contesto cinquecentesco, ci darebbe un doloroso conforto. Ed è proprio la visione della bara, resa tremula dalla lucerne, a non spegnere la potenza dirompente della passione. Il disfacimento della carne, visitata dai vermi, accende l´amore più che la memoria: «Ancora all´uocchie mieje tu pare bella!».
I vermi brulicano nell´impasto del cosmo. Di Fenesta, attribuita a Vincenzo Bellini, esiste una versione eseguita alla chitarra da Giorgio Gaber e cantata da Gino Paoli. Nel video del brano, trasmesso a suo tempo da Rai Uno, si intravede un elegante Paolo Poli intento ad accendersi una sigaretta mentre intorno a lui si canta di Nennella, morta e sotterrata: Nennella che piangeva nel suo dover dormire sempre da sola, Nennella che adesso dai morti è accompagnata.
Il ritornare dei morti è un tema ricorrente nel nostro codice sentimentale. Dove però non c´è il trucco dei travestimenti di Hallowen: non è The Rocky Horror Picture Show, né qualcosa che riguardi la stagione dark del vampirismo di Bram Stoker, sublime storia d´amore, canovaccio erotico e teologico di un mito irresistibile e pop, trasfigurato oggi nella saga di Twilight. La morte, gravitas per eccellenza, non è messa in scena. Come in The Others, l´algida Nicole Kidman, non ha consapevolezza d´esser morta. Resta nella propria casa e non ci sono tombe scoperchiate, né pipistrelli, né teschi da impiastricciare di biacca a uso di Amleti: «Sti pagliacciate ‘e fanno sulu ‘e vive» sentenzia Totò nella celeberrima Livella, dialogo a bordo tomba tra un titolato e un netturbino, regolarmente morti.
I morti, si sa, sono chiacchieroni. Come nelle Operette morali di Leopardi. La prosopopea quale genere artistico o figura retorica è sempre parola data ai defunti. Come nelle abusate interviste impossibili. Quasi peggio delle sedute spiritiche. I morti hanno un´elaborata alchimia nel loro rincorrere l´Apocalisse e il Dì del Giudizio. Gunther von Hagens, l´inventore della plastinazione, tecnica che consente la conservazione della carne dei morti, ha fatto un uso spettacolare dei cadaveri ma ha dimenticato il monito dei suoi antenati pellegrini in cerca di Agartha, il cuore della terra, nelle prossimità del Tibet: «Presta attenzione nella zona dove i morti non pesano più, dove i morti si mescolano ai vivi».
La prossimità alla morte è un corteggiamento giunto a buon fine, quello del Casanova. Ci si fidanza con la morte tra i miasmi dell´esistenzialismo, oggi ci sono gli Emo, adolescenti a rischio sociologia, sempre sovraccarichi di ornamenti come le sciure la domenica ma – e chiediamo venia alle sensibilità votate al bene sociale – solo l´Oriente dei Samurai, e lo racconta bene Emiko Ohnuki-Tierney (La vera storia dei kamikaze giapponesi, Bruno Mondadori editore) sa apparecchiare con estenuante eleganza la morte. Lo sanno bene i morti, figli del Vento Divino, che attendono ben trenta e tre anni tra le colline per poi tornare all´Eterno coi petali dei ciliegi quando col vento si spogliano dei loro fiori.
Tutto è derivato dalla morte e tutto ha origine da un totem: il tetro portale degli Inferi. E se perfino il tabù dell´incesto, l´amore di un fratello per la sorella Astarte, come nel Manfred di Byron, ha generato la pagina perfetta della commozione («la tua fossa non t´ha mutata quanto ha mutato me, quantunque fosse il più empio dei peccati amarci come noi ci amammo»), bisogna proprio lasciarsi cullare da questo spartito, specie nella versione scenica di Carmelo Bene (musica di Robert Schumann): ed è allora che la compostezza della morte può anche attendere la fiaba, la bella e morta damina "addormentata nel bosco" cui solo un bacio, lo schiudersi del fiore roseo delle labbra, può ridare porpora alle gote e vivida luce alle pupille.
Tutto è morte, dunque tutto si restituisce alla vita. Non c´è dubbio che sia un´idea forte questa di Papi, ha una grande presa narrativa e ribalta la prospettiva: non più i vivi a cercare i morti, ma questi, strappati all´Ade, che si ritrovano a rinascere. Forse c´è un modo facile di raccontare la morte vestita a festa, così come si veste nella favola prossima a farsi incubo, ma l´eros è thanatos, e dunque il trucco è vecchio e l´amore si specchia sempre nella morte. Papi ci mette dentro la storia di una donna e di un uomo, e ogni cuntista sa come far sgorgare lacrime dal proprio pubblico evocando lo strazio di Michael Corleone, il Padrino di Mario Puzo, per Apollonia, ragazza fatta moglie dopo un solo sguardo, per poi volarsene nel cielo delle Madonie dopo una carica di tritolo. La battaglia per la vita, infatti, è la messa a morte di ogni pancia gravida. Torna alla vita una giovane madre, mamma di figli ancora piccoli; e, invece di correre dai bimbi, si attarda a misurare le ore coi cucchiaini da caffè, perché magari la vita nuova può godersela fuori dal focolare. I fantolini, insomma, «se se la sono cavata senza di me per un anno» – dice – «è segno che possono farcela da soli». Hanno denti nuovi, i morti di Papi, vantano un metabolismo da neonato e decidono tutto in ragione di una vita senza fine.
Tutto è vita, e allora la morte diventa l´unica speranza. Una ragazza, bellissima, arrivata dal tardo Medioevo, turba in ragione del suo sguardo, eccita in forza della sua nudità e ha solo un dettaglio fuori posto: mani brutte, da uomo. Ma gli è che ognuno rinasce per com´è morto. E risorgono tutti quelli che dal suo nascere hanno calcato questa terra prossima a diventare stretta e piccola: settanta miliardi e novecento milioni ipotizzati da Nathan Keyfitz nel 1977, centodieci miliardi secondo E. S. Deevey nel 1950, centosei miliardi con i calcoli di How Many People Have Ever Lived on Earth. E fino ad oggi, noi che non siamo ancora morti, siamo sette miliardi, circa un decimo rispetto a chi ci ha preceduto: venuti al mondo in sovrannumero giusto adesso che, per dirla con Eliot, «le strade» della vita «si susseguono come un tedioso argomento d´ingannevole intento». Foss´anche l´ingannevole intento di ogni vita.