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Eurasia, l'alternanza delle civiltà

di Antonio Carioti - 13/05/2012




Siamo abituati a considerare la modernità e l'Europa come un binomio inscindibile, frutto di una lunga, graduale marcia verso il progresso, cominciata nell'antichità classica (Atene, Roma e Gerusalemme), proseguita con qualche difficoltà nel Medioevo, ripresa con maggior lena nel Rinascimento, giunta al suo logico sbocco con la rivoluzione scientifica, quella industriale, quella democratica. Un percorso che ha lasciato indietro i popoli extraeuropei, costretti a imitarci, con grande fatica e molti insuccessi, per sottrarsi a una dolorosa subalternità.
In particolare si è discusso a lungo del «modo di produzione asiatico» e del «dispotismo orientale» come freni atavici allo sviluppo di alcune zone del pianeta, in contrapposizione al «miracolo europeo» del capitalismo. Concetti assai poco convincenti, secondo un «grande vecchio» dell'antropologia come Jack Goody — classe 1919, noto per i suoi studi su scrittura e oralità, cibo e sesso, fiori e culture —, che propone invece, anche alla luce delle vicende recenti, un'interpretazione diversa, che mette in scacco (parole sue) «l'etnocentrismo europeista e la storiografia teleologica».
Nel suo libro Eurasia. Storia di un miracolo (il Mulino), lo studioso britannico non nega certo che l'Occidente abbia conquistato una salda egemonia planetaria tra il XVI e il XX secolo, ma la inquadra in un fenomeno ben più vasto, che a suo avviso coinvolge l'intera Eurasia, cioè l'immensa area tra l'Atlantico e la Cina che conobbe, a partire dal 3000 a.C., la rivoluzione urbana dell'età del bronzo, con lo sviluppo delle città e del relativo artigianato, oltre che dell'agricoltura basata sull'aratro. Da allora, sostiene Goody, l'Oriente e l'Occidente euroasiatici hanno proceduto su binari paralleli, mantenendo sempre aperti canali di comunicazione reciproca.
Le due aree non si sono mosse alla stessa velocità nel corso del tempo, ma non si può considerare scritta nel destino una progressiva accelerazione lineare dell'Europa a scapito dell'Asia. Goody ritiene invece che si debba parlare di «superiorità temporanea», nel contesto di un meccanismo di «alternanza» che non comporta alcuna «supremazia permanente». Ad esempio l'Europa occidentale, dopo le invasioni barbariche, conobbe una fase in cui «restò notevolmente indietro» e riuscì poi a recuperare terreno «mutuando frequentemente invenzioni e prodotti dall'Oriente, come la stampa, la carta, la porcellana, il cotone, la tessitura della seta, la bussola, la polvere da sparo, gli agrumi, il tè, lo zucchero e numerose specie di fiori». Il fattore decisivo della rimonta e del sorpasso europei, secondo Goody, fu l'ascesa di istituzioni culturali indipendenti dalle autorità ecclesiastiche, soprattutto grazie all'influenza della borghesia mercantile: «La maggior parte delle università occidentali — scrive — secolarizzò il proprio programma di studi in modo significativo, cosicché l'insegnamento e la ricerca in campo scientifico e umanistico si svilupparono e finirono per rafforzarsi, e la componente religiosa divenne sempre meno importante, al contrario di quella laica».
Per quanto discutibile come ogni altra ricostruzione storica, specie se di lunghissimo periodo, questa lettura ha il pregio di spiegare le capacità di rapida modernizzazione esibite negli ultimi decenni dai giganti asiatici.
Un tempo l'unica eccezione da capire era il Giappone, di cui alcuni studiosi enfatizzavano le differenze rispetto alla Cina, in particolare per la fase di «feudalesimo» che il Sol Levante aveva vissuto e che, a loro avviso, ne faceva quasi «un ramo orientale dell'Europa». Oggi tuttavia pare più stimolante la tesi avanzata da Goody, per cui il ruolo acquisito dall'Estremo Oriente in campo industriale «non rappresenta un fenomeno nuovo legato all'adozione del "capitalismo" occidentale, ma il recupero di una posizione in campo manifatturiero che aveva già occupato molto tempo prima».
La stessa crisi in cui l'Occidente si trova da tempo invischiato può alimentare il sospetto che sia alle porte una nuova fase di alternanza a favore dell'Asia, mentre la persistente arretratezza del mondo islamico potrebbe derivare dagli ostacoli enormi che incontra in quelle terre il processo di secolarizzazione.
Fare previsioni ovviamente è un esercizio ad alto rischio. E Goody non intende certo atteggiarsi a profeta. Ma è certamente da accogliere l'accento che questo autore pone sulla permeabilità delle diverse culture e sul vantaggio che di volta in volta esse hanno tratto dall'interscambio mercantile e culturale. Se ieri l'Oriente poteva apparire chiuso in un desolante immobilismo letargico, refrattario allo spirito stesso della modernità, non è affatto detto che adesso l'Europa sia condannata a un declino irreversibile. Perché la storia, sottolinea giustamente Goody, «non si è mossa e non si muove in linea retta».