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La crociata di John Toland contro i pregiudizi, classico esempio d’intolleranza radicale

di Francesco Lamendola - 22/05/2012

 


 

I “free thinkers”, i liberi pensatori che fanno la loro comparsa nell’Inghilterra del XVIII secolo, contestualmente ai prodromi della Rivoluzione industriale,  riprendono i temi cari al libertinismo francese e li rielaborano in una prospettiva organica di radicalismo materialista, secolarismo e anticlericalismo agguerriti e militanti, in genere travestiti da deismo e talvolta da panteismo, ma, nella sostanza, ispirati ad un ateismo ch’essi vorrebbero diffondere, minando la fede nel sacro e in tutto ciò che si può intendere come spirituale.

Fra essi spicca l’irlandese John Toland (1670-1722), che, nel «Cristianesimo senza misteri» e nelle «Lettere a Serena», conduce una sua personale battaglia contro qualsiasi forma di pregiudizio, superstizione e fanatismo, definizioni con le quali egli include praticamente tutto ciò che afferisce alla tradizione religiosa e spirituale della cultura europea, di cui vorrebbe far piazza pulita, riformando nel contempo, di sana pianta, il sistema educativo, alla luce di un razionalismo scettico e materialista.

Il pensiero filosofico di Toland è poco originale, risultando da una personale mescolanza di quello di Lucrezio e di Giordano Bruno: dal primo prende la concezione meccanicistica della natura, dal secondo il panteismo, che pure non proclama apertamente, rifugiandosi dietro un ossequio formale alla religione anglicana, cui dal cattolicesimo si era convertito.

Nonostante tale mancanza di originalità e di vigore speculativo, Toland ha esercitato un influsso tutt’altro che trascurabile sulla cultura inglese ed europea del suo tempo, insieme ad altri liberi pensatori, come Samuel Clarke (1675-1729, che era addirittura un membro della Chiesa anglicana), tanto da indurre il vescovo George Berkeley a scendere in campo contro di essi per confutare, con le loro stesse armi, il loro empirismo e il loro agnosticismo, visti, non a torto, come la premessa di un rifiuto del religioso in quanto tale e dell’idea stessa di Dio.

Il modo di procedere di Toland, dal punto di vista speculativo, è di una rozzezza quasi disarmante: ignorando deliberatamente secoli di metafisica e di teologia, nel «Cristianesimo senza misteri» (che venne bruciato pubblicamente a Dublino), afferma tra l’altro: «Io penso di poter ora concludere che nessuna cosa è un mistero, solo perché non conosciamo la sua essenza, dal momento che essa non risulta conoscibile in sé, né mai pensata da noi: sicché lo stesso esser divino non può essere considerato sotto questo aspetto più misterioso della più vile delle sue creature».

Questo Dio niente affatto misterioso è, ovviamente, il grande architetto dell’universo, un essere che possiamo riconoscere mediante la ragione e circa il quale le religioni rivelate, che sono delle mere imposture di preti, non hanno proprio niente da dire, se non grossolane superstizioni e inverosimili prodigi, che a stento un bambino potrebbe prendere per buoni; anche se, dal deismo, Toland passa gradualmente a una concezione francamente panteistica, simile a quella di Spinoza, del quale condivide l’idea che il metodo matematico rappresenti la forma più veritiera di conoscenza della realtà.

Del sapere umanistico ha poca stima e pochissima comprensione, dato che i poemi classici, per il fatto di contenere racconti mitologici e soprannaturali, gli sembrano una pericolosa accozzaglia di favole e superstizioni, che corrompono la mente dei giovani studenti, rafforzando in essi la credenza in realtà illusorie; mentre egli, sulla scia di Lucrezio, ha deciso di mettersi al servizio di una buona causa, la liberazione degli uomini dai terrori irrazionali e superstiziosi, ivi compresa l’idea di un Aldilà in cui vengono premiati i buoni e puniti i malvagi. Come per il poeta latino, dunque, anche per lui la religione è in definitiva qualcosa di malefico, che va sradicato dall’animo umano.

Scrive John Toland nella prima delle sue  «Lettere a Serena» (in: «Liberi pensatori inglesi del Settecento», a cura di A. Sabetti, Firenze, La Nuova Italia, 1978):

 

«… Appena veniamo alla luce, la grande impostura comincia a ingannarci da tutte le parti. Proprio la levatrice ci fa venire al mondo con cerimonie superstiziose; e le buone donne che l’assistono nella sua fatica hanno mille formule per allontanare la sfortuna o invocare la felicità per l’infante, facendo ridicole osservazioni per trarne presagi per quelle che saranno le sue condizioni di vita. E non è da meno, in molti luoghi, il prete con le sue ciance, per iniziarlo per tempo al suo servizio, pronunziando certe formule come potenti incantesimi, e usando i dolci simboli del sale e dell’olio, oppure più dolorose imposizioni d ferro e fuoco, o marchiandolo in qualche altro modo, come oggetto di suo diritto e proprietà per il futuro. […]

Dopo la nascita, al presente, siamo affidati alle balie, donne ignoranti di modestissima condizione, che ci nutrono di errori insieme al latte, costringendoci a star quieti con le minaccia di spauracchi. […]

Dalle balie siamo riportiamo a casa, dove cadiamo in mani peggiori, tra servi rozzi ed ignoranti, i cui passatempi principali sono chiacchiere intorno a fate, elfi, stregonerie, fantasmi che camminano, buone venture, consultazioni di astrologi e altre simili imprese, e che si divertono a terrorizzarsi e ingannarsi l’un l’altro, non di radi trascinandoci nei loro intrighi privati, cose che, in qualsiasi modo recepite, non mancano mai di imprimere impressioni funeste sui bambini: inoltre la maggior parte dei parenti non è più saggia.

Poi siamo mandati a scuola, dove la maggior parte dei giovani giunge infettata allo stesso modo dalla propria casa, e sentiamo parlare di demoni, ninfe geni, satiri, fauni, apparizioni, profezie, metamorfosi e altri mirabolanti prodigi Ci raccontiamo tra noi le nostre storielle, e di ciò che da una famiglia prudente è stato tenuto nascosto, è certo si sentirà parlare a scuola, dove tanti bambini sono condotti non per migliorarsi l’un l’altro (cosa che non si può nemmeno supporre di tali conversazioni) ma per comunicarsi reciprocamente errori e abitudini viziose, per crescere ancora di più pigri, e imbattersi in cattivi esempi. Noi divoriamo avidamente poeti, oratori, creatori di miti, mandando a memoria larghi brani delle loro intenzioni, meravigliati e catturato dal fascino del loro stile. […]

L’università è il più fertile vivaio dei pregiudizi, il più grave dei quali è che pensiamo di imparare lì ogni cosa, mentre in realtà non impariamo niente; solo che declamiamo con debita sicumera le nozioni confuse dei nostri sistemi, per i quali, se sono contraddetti da altri, non sappiamo dire una parola oltre le solite trite e ritrite, né abbiamo argomentazioni che soddisfino gli altri e noi stessi. […]

E come se tutto questo non bastasse a corrompere la nostra intelligenza, ci sono determinate persone a cui è demandato, nella maggior parte delle società, non di disingannare, ma di mantenere il resto del popolo nell’errore. Si riterrà che questo è un discorso duro, ma non può riguardare il clero ortodosso: e quanto agli altri preti che cosa può esserci di più certo, dal momento che è per questo motivo che sono ritenuti eterodossi? Le cose strane e le storie stupefacenti che abbiamo letto o sentite (se hanno qualche riferimento ad una religione particolare) vengono confermate quotidianamente dal predicatore dal pulpito, e quello che egli dice è preso per verità dalla maggior parte dei fedeli, dato che nessuno ha la facoltà di contraddirlo, ed egli espone le sue concezioni come oracoli di Dio. Anche se ogni setta negherà ciò per le sue peculiari dottrine (e noi sappiamo, Serena, che è falso per la religione riformata che noi professiamo), tuttavia le altre lo affermano l’una dell’altra con irrefutabili argomentazioni; infatti è impossibile che siano nel giusto tutte o più di una, e questa è la dimostrazione che gli altri, e si tratta della maggior parte dell’umanità, sono mantenuti nell’errore dai preti. E nondimeno il solo dubbio che ci siano le gioie del cielo e i tormenti dell’inferno, basta a procurare autorità alle loro infinite contraddizioni; tanto forti sono i sentimenti di speranza e timore, che si fonda sempre sul’ignoranza!

Quando entriamo a far parte della società troviamo che tali errori hanno tanto credito che viene riguardato come un mostro chi si pone fuori dalla moda dominante, o, se per un caso fortunato ci capita di essere disingannati, il prevalere della forza dell’interesse ci spinge a dimostrare ipocritamente (o, se preferite, prudentemente) il contrario, nel timore di perdere i beni, la reputazione, la tranquillità o la vita. Questo rafforza i pregiudizi degli altri…»

 

Come si vede, per Toland l’impostura è annidata ovunque e accompagna l’intera vita dell’uomo: dalla levatrice che lo mette al mondo, alla balia che lo allatta, ai servitori che lo servono, ai professori che lo istruiscono, senza dimenticare ovviamente il prete che lo battezza, che lo sposa, che gli impartisce l’estrema unzione.

Tutti gli raccontano favole e menzogne, alcuni in buona fede, come la balia e la servitù, altri in malafede, come i professori e soprattutto i preti; comunque, il risultato è sempre lo sesso: la mente del giovane viene ingombrata di credenze assurde, superstiziose, terrorizzanti, che ottundono la sua facoltà raziocinante e lo predispongono alla più abietta e penosa credulità.

Si direbbe che la vita degli uomini sia dominata da una congiura organizzata, una congiura alla rovescia, perpetrata non da persone ostili che si tengono nell’ombra, ma dalle persone più care o, comunque, da quelle a noi più vicine, delle quali meno sospettiamo e dalle quali mai ci aspetteremmo di essere abbindolati, confusi, manipolati; perfino nello studio dei poeti greci e latini bisogna stare in guardia, perché le favole mitologiche (la mitologia non essendo altro, per lui, che una serie di favole) minano la facoltà razionale e aprono la strada a credenze erronee e pericolose, che riducono l’uomo in uno stato di perpetua minorità (e qui vi è una palese anticipazione dell’idea cardine di Kant circa il significato dell’Illuminismo).

Vi è anche una discreta dose di aristocratico disprezzo nei confronti delle persone rozze e ignoranti, le levatrici, le balie, i servi; di tutti costoro viene evidenziato solo il lato negativo, senza il minimo sforzo per vedere, in essi, anche i portatori di una saggezza popolare, di un buon senso fonato sull’esperienza, o almeno, pur nella prospettiva intransigente da cui muove Toland, delle vittime, a loro volta, di un sistema socio-culturale caratterizzato da ingiustizia e privilegio.

Non c’è da stupirsene: Toland incarna una nuova figura sociale, quella dell’intellettuale, che diverrà caratteristica del mondo moderno, sostituendo quella, di ben altro spessore e significato, dell’uomo di cultura; e, come ogni intellettuale che si rispetti (e con buona pace dell’ingenua utopia gramsciana circa l’«intellettuale organico», una specie di «buon selvaggio» alla rovescia, quando non un fanatico e spietato commissario del popolo), egli guarda dall’alto in basso, con sovrano disprezzo, gli errori e le “ridicole” tradizioni della gente semplice, pretendendo per sé rispetto e riconoscimenti, in virtù del suo ergersi e spiccare al di sopra della massa informe.

Anche nel suo proto-femminismo, di cui le «Lettere a Serena» sono un significativo esempio, Toland precorre la figura del moderno intellettuale: egli vorrebbe educare la donna alle sue verità, scettiche, materialiste, radicalmente irreligiose, per farsene un’alleata nella comune battaglia contro l’oscurantismo culturale poggiante sulla tradizione.

Toland, insomma, preannuncia la figura del “philosophe” francese, quella di Voltaire in particolare: egli è certo di avere la verità in tasca, e che tale verità consista nell’evidenza dei sensi, nel ragionamento logico-induttivo, nel procedimento matematico: tutto il resto non è che inganno e impostura; precorre, quindi, anche le posizioni di Hume, allorché il filosofo inglese inviterà a gettare nel fuoco tutti i libri che non contengano ragionamenti sperimentali su questioni di fatto e di esperienza.

Dietro la crociata dei “free thinkers” per la libertà di pensiero, dunque, si cela un progetto culturale totalitario, avente lo scopo di azzerare ogni forma di spiritualità e di tradizione, a partire dalla metafisica e dalla teologia, per “liberare” l’umanità dalle catene dell’oscurantismo; una liberazione che, peraltro (come già era accaduto per quella di Lutero e di Calvino), non ha nulla di sociale, non ha alcuna parola da rivolgere agli oppressi, ai poveri, agli emarginati, ma si indirizza unicamente alle élites razionaliste, aristocratiche o tutt’al più alto-borghesi, e mira sostanzialmente alla propria auto-glorificazione.

Ma forse non è nemmeno esatto dire che essa mira alla distruzione della spiritualità: sarebbe più giusto dire che non la riconosce nemmeno, che non ne avverte la presenza.

L’uomo che Toland ha in mente è tutto testa, senza cuore e senz’anima, perfino senza fantasia e senza un sano gusto estetico, mutilato nella sua stessa essenza; è un uomo freddo e stranamente monco, chiuso e arroccato nelle sue orgogliose certezze: un cieco che crede di vedere meglio di chiunque altro e un sordo che afferma di udire anche i suoni che agli altri non giungono.

Sarebbe una figura patetica, sulla quale non varrebbe nemmeno la pena di soffermarsi troppo a lungo, se non fosse che questa figura, grottesca e arrogante al tempo stesso, si è moltiplicata, si è diffusa ovunque, la troviamo dappertutto: dalla portinaia al professore universitario, dall’operaio al finanziere; senza escludere nemmeno un bel po’ di uomini di chiesa: quelli, per intenderci, che trovano fuori moda, e quasi di cattivo gusto, parlare ancora del Male e del peccato, che vestono come i laici e ostentano in ogni occasione possibile le loro positivistiche certezze, per non apparire meno “evoluti” e meno “emancipati” degli altri…