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Disincanto, alienazione, solitudine sono il cancro che ci sta consumando

di Francesco Lamendola - 08/06/2012

 

«Eccoci qui, ancora soli. C’è un’inerzia, in tutto questo, una pesantezza, una tristezza… Fra poco sarò vecchio. E la sarà finita, una buona volta. Gente n’è venuta tanta, in camera mia. Tutti han detto qualcosa. Mica m’han detto gran che. Se ne sono andati. Si son fatti vecchi, miserabili e torpidi, ciascuno in un suo cantuccio di mondo.»

Così incomincia «Morte a credito», il secondo romanzo-rivelazione di Louis-Ferdinand Céline, pubblicato nel 1936 (il primo, altrettanto rivoluzionario, era stato «Viaggio al termine della notte», apparso nel 1932).
La parola-chiave, nell’atmosfera descritta così efficacemente da Céline, ma anche da tanti altri scrittori e artisti del XX secolo, è “disincanto”. Il mondo ha perso i suoi vividi colori, i suoi profumi, il suo orizzonte di speranza; e tutta la realtà è scivolata in una nebbia grigiastra, indistinta, vischiosa, che sembra corrodere inesorabilmente ogni cosa: emozioni, sentimenti, pensieri, aspettative, valori, certezze.
Tristemente, lugubremente disincantato del mondo, l’uomo contemporaneo si aggira come uno spettro in un paesaggio che gli è divenuto estraneo ed ostile, un paesaggio irreale che ha qualcosa di dantesco, come nella «Terra desolata» di Eliot; un paesaggio artificiale, parcellizzato, inaridito, prosciugato della sua naturalità così come della sua luce interiore e, pertanto, divenuto opaco, straniante, indecifrabile e irriconoscibile.
In questo paesaggio si muove una folla di individui solitari, che corrono di qua e di là, si agitano scompostamente, si sentono protagonisti solo perché sui loro cartelli e suoi loro striscioni è scritta la parola “popolo”; ma popolo non sono, sono piuttosto un gregge, un gregge impazzito che viene tosato spietatamente da forze apparentemente imperscrutabili, sospinto a piacere, manipolato, strumentalizzato, contraffatto.
Questo è, appunto, quel che Céline odiava nel “popolo” ebreo: non il dato biologico e razziale e nemmeno l’identità religiosa, ma la pretesa di essere una stirpe eletta, una stirpe separata e “pura”, una entità oppositiva compiaciuta della propria differenza e resa arrogante dal proprio potere economico; così come, ha osservato il poeta Pasquale Panella, ce l’aveva anche con il “popolo” comunista e così come oggi, probabilmente, ce l’avrebbe con il “popolo” di Internet o con il “popolo” globale.
Il popolo, dunque, è il grande, ingannevole mito del XIX e del XX secolo: frutto avvelenato della Rivoluzione francese, ma anche punto d’arrivo di un percorso storico che parte dalla costituzione dello Stato-nazione nella forma delle monarchie nazionali del Medioevo, allorché erano tramontati i due grandi poteri universali del Papato e dell’Impero.
Quando la massa, quando il gregge vogliono sentirsi qualcosa, quando vogliono credersi protagonisti della storia, adoperano la parola “popolo”: tale è l’inganno, tale la grande ipocrisia della modernità, sulla quale fondano la loro presa i veri poteri forti: quelli dell’industria, della finanza, della speculazione internazionale.
L’uomo, all’interno di questo paesaggio straniante e di questa entità evanescente e velleitaria chiamata “popolo”, è sempre più solo, più alienato, più disincantato; è sempre più passivo, impotente, incatenato; sempre meno capace di prendere in pugno la propria vita e sempre più etero- diretto, dal modo in cui si veste a quello in cui si cura nelle malattie, a quello in cui trascorre il proprio tempo libero.
E il risultato del disincanto, dell’alienazione, della solitudine, è il frutto amaro dell’angoscia, della rabbia, dell’incattivirsi. L’uomo contemporaneo è pieno di amarezza riguardo al presente e pieno di paura riguardo al domani: e ciò lo rende cinico, distruttivo, sarcastico, spietato. Un uomo intrappolato in un ingorgo stradale può accumulare abbastanza rabbia e istinto di morte da trasformarsi in un ordigno a orologeria, pronto ad esplodere e a spazzar via chiunque abbia la sfortuna di attraversargli la strada in quel momento.
Si osservi un qualsiasi ritratto di Céline: la piega amara della bocca, il vuoto abissale dello sguardo, l’aria stranita e quasi sconvolta dell’espressione: è il volto di una persona infelice e amareggiata, sconfitta dalla vita, che ha perso i suoi sogni e che tuttavia non riesce ad arrendersi, se non aggrappandosi con rabbia al suo rancore, al suo desiderio di rivalsa. La sprezzante ironia che lo contraddistingue, il sorriso beffardo simile a un ghigno, non offrono una maschera sufficiente a coprire il suo segreto.
In questa solitudine carica di angoscia, ciascuno sa di poter contare unicamente su se stesso: non si chiede aiuto, perché si pensa che non vi sia alcuno disposto a darlo; si resta sulla barricata finché le forze bastano - sul lavoro, in famiglia, nella società; poi si crolla di schianto. Allora si va dallo psichiatra e si cerca la salvezza nei farmaci: solo a quel punto la maschera cade, e appare il volto spaventato e sbigottito di un pover’uomo o di una povera donna.
Come i membri di un branco di erbivori restano passivi ad aspettare l’attacco del leone, e mentre uno soccombe, gli altri si limitano a trotterellare un poco più in là, così nella società contemporanea ciascuno continua a brucare l’erba del proprio angolino, con stolida meticolosità, fino a quando gli artigli della depressione avranno afferrato la prossima vittima, senza che nessuno degli altri si desti dal torpore e faccia qualcosa per prevenire il pericolo.
Una sorta di cupo fatalismo è calato sulle masse intente a brucare l’erba del consumismo: si sa che, presto o tardi, altre vittime verranno trascinate nell’abisso, ma si resta lì, come niente fosse, quasi aspettando il proprio turno; e, nel frattempo, ci si stordisce con mille cose inessenziali, ci si frastorna con mille rumori inutili e con mille parole d’ordine, tutte ugualmente vuote, benché roboanti.
È venuta a mancare la solidarietà, perché è venuto a mancare il calore umano: freddi, efficienti, gli uomini e le donne moderni somigliano sempre più a delle macchine, delle quali non si ha maggior cura di quanta se ne avrebbe per una lavatrice o un’automobile; quando, poi, sono usurati,  si lasciano condurre alla discarica, in attesa della rottamazione.
Eppure bisogna reagire a un tale stato di cose, perché a nulla serve indulgere nel vittimismo e nella compassione di sé, così come attardarsi nella sterile lamentela o nell’altrettanto sterile vagheggiamento di un passato felice che, forse, non è mai esistito, se non nella immaginazione, quando più vuoto e triste sembra essersi fatto il presente.
Dopo tanto distruggere, dopo tanto sospettare, dopo tanto corrodere, è venuto il tempo di ricostruire, di sperare, di riconquistare l’incanto del mondo: perché senza di esso la vita diventa un fardello gravoso e, alla lunga, insopportabile.
È venuto il tempo di spianare quella piega amara dalle labbra, di restituire calore e profondità allo sguardo, di ritrovare gioia nei piccoli gesti di ogni giorno, nelle piccole cose semplici che rendono amabile la vita ed esaltante l’attesa del domani.
Dobbiamo far tesoro delle nostre sconfitte, delle nostre debolezze, delle nostre colpevoli ingenuità; dobbiamo spogliarci della nostra cattiva coscienza e ritrovare una coscienza autentica, che nasce dalla capacità di guardare onestamente e francamente entro se stessi.
Quando capiremo di aver commesso un errore imperdonabile dando più importanza alle cose che alle persone, più importanza all’apparire che all’essere, allora ritroveremo la saggezza per riprendere i sentieri interrotti e per riguadagnare la strada di casa, lasciandoci guidare dal richiamo dell’Essere. La porta è soltanto socchiusa, nessuno ci impedisce di entrare, se noi fermamente lo vogliamo.
Durante la nostra assenza, certo, sono cresciute le erbacce: ebbene, ci metteremo di buona lena e inizieremo a strapparle, un cespuglio dopo l’altro, fino a quando il giardino sarà tornato bello e accogliente e potremo sentirci di nuovo a nostro agio, non più stranieri abbandonati dal caso in una landa sconosciuta.
Dobbiamo ritrovare il sentimento che il mondo è la nostra dimora accogliente e, insieme, alla nostra, quella di tutte le altre specie viventi che con noi la condividono.
Il percorso sarà lungo e faticoso, perché molto ci siamo allontanati dalla retta via e troppo a lungo abbiamo corteggiato i nostri peggiori difetti: la pigrizia, la furbizia da quattro soldi, l’infedeltà a noi stessi e la vigliaccheria.
Non sarà una cosa facile; non sarà una passeggiata. Il nostro percorso sarà reso difficile dalle piante spinose cresciute a dismisura; dovremo ferirci i piedi e macchiare di sangue i nostri passi. C’è un prezzo da pagare per tutti gli errori, e stavolta sarà un prezzo alto.
Saremo anche sviati e confusi da fantasmi ghignanti, da ombre mostruose: i nostri rimorsi, i nostri sensi di colpa verranno a turbarci, a offuscarci la vista; udremo voci nel buio, voci di pianto che ci sembrerà di riconoscere: quelle dei nostri sogni più puri, che noi stessi abbiamo strozzato nella culla, come una madre snaturata che sopprima i suoi figli.
Eppure dovremo andare avanti e bere l’amaro calice sino alla feccia: solo così potremo farcela, solo così potremo, forse, ritrovare la nostra pare migliore e dimenticata. È sulle nostre gambe che dobbiamo imparare a rimetterci in piedi e non sfruttando qualche ricetta miracolosa, qualche altra piccola, miseria furberia.
Non ci sono scorciatoie e non si fanno sconti, nella vita: quel che è stato disperso deve essere nuovamente raccolto e quel che è stato rotto, deve essere aggiustato o sostituito: con pazienza, con umiltà, con spirito di sacrificio. Aggrapparsi a vuote speranze, imboccare improbabili scorciatoie non servirà a niente, anzi, non farebbe che aggravare le cose. Dobbiamo pur imparare che non tutto è in vendita e che l’essenziale non lo possiamo comprare: dobbiamo diventare capaci di estrarlo da noi stessi.
Solo quando avremo capito queste cose, il nostro viaggio al termine del notte ci porterà in vista di una nuova alba; altrimenti resteremo a mezza strada, ancora immersi nelle tenebre profonde, e invano udremo risuonare, da lontano, il canto del gallo. Il gallo canta solo per chi possiede la ferma volontà di risvegliarsi e di affrontare con coraggio il nuovo giorno.
C’è ancora molto, moltissimo giorno che aspetta di sorgere per noi; c’è tutto un mondo di bellezza che attende di udire, nel silenzio dell’alba, i nostri passi.
Saranno come i passi di Adamo ed Eva, quando risuonarono per la prima volta nel Giardino terrestre: perché l’anima che ritrova in sé l’incanto del mondo, è come se vedesse ogni cosa per la prima volta.
Dobbiamo risvegliarci dai nostri tristi sogni, pieni di angoscia e di amarezza, e destarci nella freschezza del mattino che sorge.
E, per poterlo fare, dobbiamo diventare più leggeri: ne abbiamo, di zavorra, di cui possiamo e dobbiamo sbarazzarci. Le nostre tasche sono piene di cose inutili, di paccottiglia che credevamo merce preziosa e indispensabile; ma non lo era.
Quando saremo diventati più leggeri, cominceremo anche a camminare con passo leggero: sfiorando la terra, senza premerla; così come si sfiora la fronte di un bambino.
È in noi stessi il bambino di cui dobbiamo prenderci cura: un bambino solo e spaventato, che, tuttavia, è ancora capace di sognare, di amare, di credere. Se non ci occuperemo di lui, periremo: perché, senza di lui, siamo come morti.
Non è troppo tardi; c’è ancora tempo. C’è sempre tempo, purché si sia disposti a riconoscere gli sbagli e ad imparare qualcosa da essi.
Gli sbagli rendono migliori, quando sono riconosciuti come tali: hanno in se stessi il balsamo per lenire le ferite di cui sono stati la causa.
Ci vuole umiltà: l’umiltà di riconoscere che, da soli, non possiamo fare niente; mentre se ci apriamo allo splendore dell’Essere, allora tutto diviene possibile.